di Robert Skidelsky
Dopo essere stata bandita per anni, se non decenni, la politica fiscale sta tornando di moda. La ragione è semplice: la mancata ripresa dal crollo globale del 2008.
Da questo punto di vista, l’Europa è la regione che registra il dato peggiore: il suo PIL è cresciuto a malapena negli ultimi quattro anni, mentre il suo PIL pro capite è ancora inferiore a quello del 2007. Come se non bastasse, le previsioni di crescita sono cupe. A luglio, la Banca centrale europea ha pubblicato un rapporto che suggerisce che l’output gap negativo nella zona euro sia pari al 6%: quattro punti percentuali in più di quanto si pensasse. «Una possibile implicazione di questo risultato», ha concluso la BCE, «è che le politiche volte a stimolare la domanda aggregata (comprese le politiche fiscali e monetarie) dovrebbero svolgere un ruolo più importante nel mix di politica economica». Parole forti per una banca centrale.
La politica di bilancio nell’eurozona è effettivamente “fuori uso” dal 2010, quando i governi si sono ritrovati sul groppone livelli di deficit e di debito senza precedenti (dal dopoguerra ad oggi) a causa del collasso post-crisi. L’austerità è emersa come l’unica politica accettabile.
La politica monetaria, dunque, è rimasta l’unico strumento disponibile. La Banca d’Inghilterra e la Federal Reserve hanno iniettato enormi quantità di denaro nelle loro economie attraverso il “quantitative easing” (QE), che consiste nell’acquisto di titoli pubblici e obbligazioni private a lunga scadenza. Nel 2015, anche la BCE ha avviato un programma di acquisto titoli, che Mario Draghi ha promesso di portare avanti «finché non vedremo una ripresa della dinamica dell’inflazione».
Il QE non è stata una pallottola magica. Se da un lato ha evitato che le economie sprofondassero in un’altra Grande Depressione, dall’altro le successive iniezioni di denaro hanno prodotto rendimenti decrescenti. In Europa, il QE ha ridotto il divario tra i rendimenti dei titoli del centro e quelli della periferia. Ma uno studio condotto da Thomas Fazi dell’Institute for New Economic Thinking ha evidenziato il debole (o inesistente) impatto del QE sul credito bancario, sulla riduzione dei crediti deteriorati e soprattutto sul tasso d’inflazione. Inoltre, il QE ha conseguenze distributive indesiderabili, perché consiste nel dare soldi a chi già ne ha, e non ha motivo di spendere il proprio reddito aggiuntivo.
I politici avrebbero dovuto aspettarsi questo risultato mediocre. Quando le banche centrali cercano di ridurre l’inflazione prosciugando la liquidità dal sistema, i loro sforzi possono essere vanificati dalla tendenza delle banche commerciali a pompare nuova liquidità nell’economia per mezzo dei prestiti. Nel contesto deflazionistico di oggi, avviene il contrario. Ogni tentativo delle banche centrali di pompare liquidità nel sistema per stimolare l’attività economica è vanificato dalla tendenza delle banche commerciale a prosciugare la liquidita aumentando le riserve e rifiutandosi di prestare.
Rimane dunque la politica fiscale. La logica delle attuali condizioni economiche implica che i governi dovrebbero approfittare dei tassi di interesse ultra-bassi per investire in progetti infrastrutturali, che stimolerebbe la domanda e allo stesso tempo migliorerebbe la struttura dell’economia. Il problema sono le aspettative. Come nota l’economista di Oxford John Muellbauer, le tesorerie e le banche centrali «hanno martellato nella coscienza del settore privato l’importanza di ridurre il debito pubblico in rapporto al PIL».
Questa ortodossia nasce dall’idea che l’indebitamento è semplicemente una forma di “tassazione differita”. Secondo questa visione, se il settore privato ritiene che le tasse dovranno salire in futuro per ripagare il debito pubblico, la gente aumenterà i propri risparmi per pagare le tasse future, vanificando così qualunque effetto di stimolo. L’ortodossia presuppone erroneamente che la spesa pubblica non possa generare alcun reddito supplementare; ma fintanto che prevarrà, la politica fiscale finanziata a debito continuerà ad essere esclusa come mezzo per rilanciare la crescita economica.
Di conseguenza, gli analisti e i politici hanno iniziato a suggerire la necessità di una politica fiscale non convenzionale che integri la politica monetaria non convenzionale. In particolare, le proposte si concentrano su forme diverse del cosiddetto “helicopter money” (‘denaro dall’elicottero’), chiamato così a seguito di un famoso esperimento mentale di Milton Friedman del 1969, in cui «un elicottero… lancia banconote da 1.000 dollari dal cielo». L’ex presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, tra gli altri, ha suggerito di prendere i considerazione “il denaro lanciato dagli elicotteri” per tirare le economie fuori dalla stagnazione.
Esistono due forme di helicopter money, che potrebbero (e dovrebbero) essere lanciate insieme. La prima consiste nell’aumentare direttamente il potere d’acquisto dei consumatori, ad esempio mediante l’emissione di una smart card del valore di 1.000 dollari (o euro) per ciascun elettore o cittadino. L’economista svizzero Silvio Gesell, che propose uno schema di “denaro timbrato” all’inizio del secolo scorso, ha aggiunto una clausola secondo cui i soldi non spesi dopo un mese andrebbero tassati, per scoraggiare la tesaurizzazione.
In alternativa, l’helicopter money potrebbe essere utilizzato per finanziare la spesa infrastrutturale. Il vantaggio del “finanziamento monetario” è che tale spesa, pur aumentando il deficit pubblico e determinando un aumento permanente dell’offerta di moneta, non aumenterebbe il debito nazionale, in quanto il governo sarebbe in debito solo nei confronti della propria banca centrale. Questo eliminerebbe la compensazione derivante dall’aspettativa negativa di tasse più alte.
Ma poter emettere debito che non deve essere rimborsato non è forse troppo bello per esse vero? Vi è senz’altro il pericolo che i governi possano diventare dipendenti dal finanziamento monetario per sostenere la spesa pubblica e privata, che è il motivo per cui è improbabile tale soluzione venga presa in considerazione a meno che le condizioni economiche non peggiorino sensibilmente. Ma il rischio politico di non fare nulla se cadiamo in un’altra recessione (come sembra molto probabile) è peggiore. Piaccia o no, potrebbe essere arrivato il momento della politica fiscale non convenzionale.
Pubblicato su Project Syndicate il 22 settembre 2016.