di Pierluigi Fagan
Recensione del libro di Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia, Imprimatur, 2016.
Il fine del libro di Cesaratto è condividere conoscenza economica per una più democratica partecipazione politica ai destini del tempo che ci è toccato in sorte da vivere. Corre l’obbligo di ricordare l’abusata citazione del biografo di Keynes (Skidelsky), il quale, dell’economista britannico, raccontava il sottile piacere che provava di origliare ai party le conversazioni tra membri dell’élite, conversazioni che i soggetti conducevano senza rendersi conto di star replicando null’altro che sistemi di idee forgiate da qualche economista a loro ignoto. Se si è un pensatore economico come Keynes, questo potere sulle menti che fanno il mondo, certo fa piacere. Ma se si è un cittadino, corre l’obbligo di capire meglio quali sono questi sistemi di idee, come sono strutturati al loro interno, quali conseguenze portino, sia per lo sviluppo del sistema di pensiero che diviene poi così condizionante per il pubblico dibattito, sia e soprattutto per gli effetti che i tramiti politici ne danno nella applicazione all’organizzazione economica che poi impatta sulle nostre forme di vivere associato.
Credo sia questo ad aver mosso il professore di Siena a darci le sue sei lezioni, approfondite e comprensibili pur se rigorose e poco inclini alla narrazione, soprattutto rivolgendosi a quanti hanno animo critico verso lo stato economico (quindi politico) della nostra realtà e però scelgono la via facile ma sterile dell’olismo negativo (no a questo, no a quello ed in definitiva no a tutto) senza penetrare il dovuto, la complessità delle idee che poi portano alle scelte. Scelte che andrebbero fatte per proporre non solo una resistenza negativa, ma anche qualche possibile e realistica alternativa percorribile. In particolare, sembra, rivolgendosi a quella sinistra che nata da un economista politico, ha perso la prima parte in favore della sola seconda diventando impotente, nel mentre la disciplina – l’economics – perdeva la seconda parte, trincerandosi nella presunta oggettività scientifica della prima.
Il filo rosso della visione del problema economico di Cesaratto, sembra essere il rapporto tra il conflitto per la distribuzione già ben chiaro nell’origine di Ricardo e Marx e il vincolo estero, il che porta in conseguenza la centratura sul perimetro economico di un preciso Stato-economia-paese. Nei primi tre capitoli, oltre ai classici, (i due citati più la Legge di Say e Adam Smith, che Cesaratto non riduce come fanno i più alla vulgata irriconoscibile tipo il citato Adam Smith Institute che lo scozzese non avrebbe, credo, riconosciuto come propria emanazione), c’è ben spiegata la fatidica svolta marginalista, l’opposizione incompleta nei fondamenti tentata da Keynes e quella ben meglio riuscita secondo il nostro di quel Piero Sraffa a cui Cesaratto si rifà a livello teorico (anche integrando la ripresa che ne fece P. Garegnani).
A proposito dell’inconsapevole uso di sistemi di idee che hanno forgiato altri pensatori, sarebbe anche interessante ricondurre a loro volta gli economisti ai filosofi. I presupposti della svolta marginalista, ad esempio, possono risultare improvvisi e mal compresi se non ambientati nel clima intellettuale del trionfo utilitarista, contornato dal positivismo e dal darwinismo spenceriano. E del resto presupposti filosofici sono senz’altro presenti in Smith che tra l’altro insegnava filosofia morale, nonché nella travagliata discendenza di Marx da Hegel ma non meno presenti in Keynes, nello stesso Sraffa amico personale ed intellettuale tanto di Gramsci che di Wittgenstein (wow, che mix interessante!), in Hayek e perfino nell’orrido Friedman. Ed ancor più proficuo per la comprensione se poi i sistemi filosofici, politici ed economici fossero messi in asse con il trascorso storico. Storia che, come sottolinea Cesaratto, storia del pensiero economico e storia economica in quanto tale, s’insegna sempre meno per lasciare campo unico alle nozioni che possano servire di pronta beva per inserirsi nell’acritica riproduzione del pensiero dominante applicato che, di per sé, esclude il pensante. Nel testo in questione e nelle ricche e puntuali bibliografie, non mancano invece accenni a messe in quadro più ampie (K. Polanyi, A. Hirschman, C.P. Kindleberger) e critiche. Critica che non è sempre e solo antitesi secca ma anche pesatura delle verità, loro relativizzazione a precisi contesti, bisturi logico che tagliando e separando mostra la complessità del molto che sempre si vuol ridurre al poco.
Si arriva così, dopo le prime tre lezioni su i fondamenti del pensiero, alla quarta sui misteri della moneta, meno misteriosa del dovuto e del necessario, ed alla quinta in cui il racconto della “lunga caduta” parte dagli anni ’50 ed arriva ai fatti più recenti, osservando proprio nella storia economica e politica italiana, interpuntata da percentuali di crescita sempre più esigue, l’inesorabile declino corrispondente alla scelta incomprensibilmente condivisa anche dal PCI e dai sindacati di tutelare sempre meno la maggiore eguaglianza o se non altro una più equilibrata distribuzione dei redditi, e soprattutto la folle scelta di rinunciare alla benché minima strategia di politica economica. Un tacito accordo per evitare il conflitto che ha portato a scaricare sul debito crescente le contraddizioni che oggi ereditiamo, peggiorate e sclerotizzate dalla gabbia d’acciaio del vincolo esterno e della inflessibilità della valuta unica. Siamo già dentro l’euro e l’Europa, che torna poi, nell’ultima lezione, con una spiegazione minuziosa, della politica BCE-Draghi, le sue lentezze, la sua timidezza, la sua cautela dovuta alle pressioni tedesche, la sua incerta efficacia, figlia come sempre di un sistema di idee che, anche al di là di diverse preferenze teorico-ideologiche, più che altro ha ormai dato ampiamente prova di non funzionare, di non poter conseguire i risultati attesi e dichiarati.
Cesaratto non la vede bene. Stante che una unione intorno ad una moneta senza una unione di Stati è palesemente un assurdo sotto tutti i punti di vista, è proprio questa unione di Stati ad esser impossibile rendendo quindi l’assurdità permanente e senza sbocco. Vince così la predizione di Hayek di un federalismo leggero, unica mediazione possibile ed accettabile per entità troppo disomogenee, un massimo comun divisore davvero minimo. Minimo ma comunque in grado di espropriare l’oggetto del contendere democratico, il conflitto distributivo. Si rimane così nell’impasse del triangolo divergente di forze tra una irrealizzabile promessa di impossibile unione politica, paesi periferici resistenti quanto impotenti, arroccamento teutonico in un mercantilismo egoista che non consente alcuna forma di cooperazione organica. Impasse che può continuare a lungo prorogando l’agonia fino alla definitiva dissipazione di ogni forza e resistenza o tracollare prima in una qualche crisi finanziaria fuori controllo, piuttosto che una politica tipo Le Pen o affini. È a questa seconda che si dovrebbe lavorare, accelerare la crisi interna al sistema in modo che auto-imploda permettendo così di sgombrare il campo e volgerci al dopo. Dopo sul quale – però – sarebbe il caso di cominciare a chiarirsi le idee. Chiarimento a cui le sei lezioni di Cesaratto portano un ottimo e propedeutico contributo di conoscenze necessarie per il pubblico dibattito.
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La parabola complessiva del pensiero economico occidentale moderno sembra esser passata dalla produzione di parole in rapporto alla realtà, alla produzione di meno parole e più numeri che però hanno gradatamente perso il contatto con la realtà. La fuga dal pericolo ideologico e l’inseguimento degli standard oggettivo-scientifici da “scienza dura” dell’economics ha prodotto una paradossale ideologia para-scientifica, una “ideologia dura”. La cessione di sovranità del pensiero politico a questa ideologia dura, ha fatto perdere alla politica la funzione di gestione dello scontro per la ridistribuzione, lasciando contendibili (e facilmente concessi) i soli diritti civili. Scontando la evidente mancanza di una vera teoria dello Stato in Marx, la sinistra internazionalista ha finito con l’imboccare una vaga e confusa vocazione cosmopolita (un vecchio retaggio addirittura del pensiero stoico), porgendosi così idealmente prona e di supporto ai vari salti di intensità della globalizzazione rampante.
Per quanto Cesaratto insista anche nella nota finale dell’epilogo sul fatto che la teoria neoclassica dominante vada attaccata proprio al suo interno, nei suoi meccanismi che sarebbero sbagliati sul piano logico-empirico e mostri un certo fastidio per gli approcci eterodossi (ad esempio neo-keynesiani) che sembrano introdurre altri punti di vista, “soggettivi” o “morali”, il mondo eterodosso è ben più ampio e variegato. Oltre ai citati da Cesaratto (tra cui anche Kalecki, List, Myrdal), egli stesso riconosce che «un esito è una combinazione di molteplici cause». Sia quindi per spiegare i sistemi di idee, sia per spiegare i loro effetti storici che non sempre discendono linearmente da questi sistemi analitici, sia per riformulare i concetti economici, nonché per ripristinare un pensiero organico e concreto che includa la politica, ed a proposito di vincolo estero, tramite la geoeconomia, anche la geopolitica, forse, può esser utile dare anche uno sguardo più ampio.
Poco tempo fa, ho letto Economia. Istruzioni per l’uso di Ha-Joon Chang (il Saggiatore, Milano, 2015) di cui già recensimmo un libro (qui), che insegna economia dello sviluppo a Cambridge. Anche il coreano appartiene alla plurale e variegata pattuglia degli eterodossi, una definizione che già in sé la dice lunga sullo stato dogmatico del pensiero economico dominante contemporaneo che mutua le categorie dalla teologia. Ha-Joon Chang è un economista istituzionale (Veblen, Connors, Galbraith, ma alcuni adepti di questa scuola inseriscono anche Marx nelle fondazioni) che ci parla anche degli sviluppisti, degli austriaci, dei schumpeteriani come i keynesiani in versione anche “neo” (prefisso che assieme a “post” spadroneggia nelle pigre classificazioni tardo-novecentesche), dei comportamentali e sperimentali (e dei neuroeconomisti) oggi in grande ascesa, mentre la vasta tribù eterodossa si arricchisce anche dei termo-bio-ecologisti e degli evoluzionisti (qui, un sito interessante da seguire a riguardo) in un pluralismo di approcci che si allarga viepiù all’antropologia, la sociologia, la geo-storia, varie forme delle varie versioni di teorie critiche, l’ecologia e financo il femminismo.
«La realtà economica è complessa e non può essere analizzata per intero con una singola teoria», dice Ha-Joon (p. 429). Il bilancio da contendersi nel conflitto della distribuzione, come nota Cesaratto stesso, deve fare i conti con il suo ammontare generale nell’economia-paese, spesso dipendente dal livello di sviluppo tecnologico, di innovazione e competitività, di relazione con l’estero, di sostenibilità ambientale, di divisione internazionale del lavoro, di sostenibilità finanziaria e monetaria, di equilibrio e compromesso tra regole economiche e regole socio-politiche che non sembrano accordate naturalmente tra loro. I rapporti tra dinamica e stabilità, tra equità ed ecologia, tra novità e varietà, tra resilienza e potenza, tra dimensione delle economie nazionali e vastità dell’ambito dei mercati planetari o di quelli che si formano regionalmente pur sempre inter-nazionali, nonché le decisioni tra quanto essere totalmente “aperti” o parzialmente “chiusi” nella circolazione finanziaria come in quello dello scambio commerciale, non sono decisioni tecniche ma prettamente politiche. Altresì non sono decisioni basate su leggi ma su ipotesi per quanto corroborate da logica razionalità ed un minimo di verifica empirica, ipotesi plurali, ipotesi basate su questioni che mostrano effetti intrecciati e non lineari, complessi.
Solo una democrazia di cittadinanza attiva può farsi carico del dialogo tra queste opzioni e decidere consapevolmente cosa ritenere imprescindibile e quali prezzi pagare per queste imprescindibilità, stabilire i fini e farne conseguire i mezzi. L’economia è un intricato sistema di ampolle e tubi la cui capienza idraulica è ben maggiore del liquido che effettivamente vi circola, il suo “può essere” più ampio del suo “essere”. Si tratta quindi di decidere, decidere quanto liquido è necessario, quanto costa averlo, dove e come produrlo, quanto è opportuno che circoli ed a che velocità, dove ristagni e dove cada a pioggia, irrorando chi, quando ed in quali quantità. Viepiù oggi che limiti ambientali e limiti geopolitici, limiti sconosciuti ai tempi in cui i fondamenti delle principali teorie economiche vennero piantati, premono con diversa forza ed urgenza su questa complessità idraulica. Viepiù oggi che il dominio dell’ideologia dura che domina la disciplina ha prodotto il massimo di diseguaglianza ed il massimo di paralisi economica, che altro non sono che due facce della stessa medaglia, l’asimmetria che concentra il liquido in un sistema che fa di tutto il mondo un mercato e nel sottosistema di riproduzione finanziaria che più che ampolle, usa bolle.
Riagganciando dunque la politica all’economia, ben vengano quindi le lezioni dei nostri professori e speriamo che dall’altra parte, non alunni ma cittadini, sentano l’urgenza di capire meglio su cosa debbono decidere e pretendano poi l’essenziale sovranità di queste decisioni e responsabilità degli effetti che comportano. Ma ben venga anche una nuova comunità intellettuale critica e pur plurale negli approcci, che corroda il dominio ideologico del pensiero unico aprendo ad un nuovo uso pubblico ed argomentativo della ragione economica. Anche questo è decisivo per l’ “adattamento” all’era complessa.
Pubblicato sul blog dell’autore il 16 settembre 2016.