Di questi tempi, quando si incontra un anglofono qui a Bruxelles, ci si sente subito dire “I am not British!” E poi giù a spiegare che sono irlandesi o scozzesi o australiani con passaporto belga o canadesi con passaporto francese o discendenti degli ammutinati del Bounty, ma inglesi mai. Di inglesi pare che non ce ne sia più neanche uno! Forse questa è la soluzione: convincerli che non esistono, che non sono mai esistiti, che erano solo un brutto sogno.
È quasi divertente assistere allo strano fenomeno degli inglesi che si vergognano di esserlo e si sentono in dovere di giustificarsi. Accompagnato da una generale disaffezione degli europei nei confronti di un paese e di una cultura che invece in passato furono un magnete di attrazione. I segni sono dovunque: un crollo degli studenti europei che vanno a studiare nel Regno Unito e perfino un rientro di quelli che già vi studiavano, una riduzione dei prezzi dell’immobiliare a Londra, un calo dell’immigrazione dall’Europa orientale e alcune multinazionali che stanno considerando un prossimo abbandono del paese, come Vodaphone e perfino Goldman Sachs.
Che De Gaulle avesse ragione quando si opponeva all’adesione del Regno Unito all’UE lo vediamo ora confermato dai fatti. Innanzitutto dalla linea di intransigenza e temporeggiamento che gli inglesi stanno adottando nel processo del Brexit, cercando di imporre la loro agenda all’Europa. Ancora più profondamente si può leggere addirittura uno sprezzo per l’UE nella reazione di Theresa May alla volontà espressa da Juncker nel suo discorso sullo stato dell’Unione di costituire un esercito europeo. Per il tramite del Ministro della difesa, il Primo ministro inglese manda a dire che porrà il veto ad ogni tentativo di creazione di un esercito europeo fintantoché il Regno Unito sarà membro dell’UE. Tradotto, questo conferma che sono sempre stati qui per ostacolarci e lo faranno fino alla fine. Non indebolire la NATO è la loro motivazione. In altri termini, per il Regno Unito il patto atlantico viene prima di ogni eventuale patto europeo. Una simile posizione dice tutto quel che c’è da dire sulla percezione che gli inglesi hanno di sé e dell’Europa. E in fin dei conti dimostra come vero proprio il paradosso con cui ho iniziato questa riflessione: gli inglesi non esistono.
Non esistono come stato nazionale, nel senso europeo del termine. Sono un “regno unito” dove il nativismo prevale sull’unità. Prima che britannici, si dichiarano gallesi, scozzesi, irlandesi, perfino còrnici e poi pakistani, caraibici, indiani o cinesi. Sono gli unici europei che possono vivere ovunque senza bisogno di giustificarsi e senza essere percepiti come emigrati. Storicamente come stato nazionale hanno sempre perseguito interessi più da mercanti che da possidenti, preoccupati soprattutto di procurarsi via libera per i loro commerci. È quando sorge un ostacolo ai suoi commerci che il Regno Unito si mobilita. È per aprire empori dove comperare materie prime e vendere i loro manufatti che gli inglesi hanno conquistato mezzo mondo. Non come gli spagnoli o i francesi per estendere il loro dominio e portare nelle terre conquistate una proiezione di sé e del proprio stato nazionale. L’Algeria era una seconda sponda francese, il Sudamerica era una nuova Spagna da convertire e colonizzare con contadini spagnoli.
Il britannico ha un senso di sovranità diverso dal continentale, meno territoriale e più globale. Negli anni Settanta, mentre noi ci accanivamo a proteggerla, il Regno Unito non ha avuto remore a svendere la sua pregiata ma vetusta industria manifatturiera ai giganti economici d’Oriente investendo massicciamente nei servizi, il più volatile ma anche il meno territoriale dei settori. E con lo stesso spirito oggi, proprio mentre escono dall’UE, i britannici subappaltano quel che c’è di più strategico, cioè la loro energia nucleare, ai francesi e addirittura ai cinesi nella costruzione della nuova centrale di Hinkley Point. Tutti segni che mostrano quanto il Regno Unito abbia sempre guardato al mondo come a uno spazio da cui attingere le sue risorse vitali, senza le ossessioni autarchiche di molti stati nazionali.
All’apice del suo fascino, quel che più seduceva della cultura inglese era che, come la sua lingua, non si voleva confini, che la nuova cultura libertaria nata Oltremanica si faceva beffa della tradizione continentale abbarbicata al mito nazionale. E non fu un caso che proprio nella musica trovò il linguaggio del suo universalismo. Fino al punto che l’Union Jack, la bandiera nazionale britannica, era divenuto simbolo di libertà e di trasgressione. Il Sessantotto lo hanno fatto i francesi ma il tricolore transalpino non è mai divenuto un simbolo internazionale di ribellione, è sempre stato solo un totem franco-francese. Perfino il cuore della cultura inglese, Londra, non era solo un luogo ma un modo di vivere e la popolare quotidianità britannica, come fish and chips e tè col latte, nella sua semplicità si faceva a sua volta simbolo di spirito libertario. I simboli del potere costituito invece, Buckingham Palace e Westminster, erano rigide immagini da cartolina sbeffeggiati dalla cultura underground. L’Inghilterra vera, quella irriverente che conquistava il mondo, era nei pub dove suonavano i Beatles, nei negozi di dischi, nei mercati di Portobello, nelle spianate dei concerti pop.
Non per niente il Regno Unito non ha una nazionale di calcio: non avrebbe tifosi da riunire sotto l’Union Jack. Ma ha soldati pronti a morire ovunque nel mondo per difendere i suoi interessi. Gli inglesi non esistono dunque, e i pochi che sono rimasti si dichiarano pentiti di esserlo. Chi di noi invece riuscirebbe a negarsi italiano o francese o tedesco? È vero, abbiamo sempre bisogno di precisare la nostra provenienza, ma saremmo incapaci di definirci a prescindere dalla nostra italianità. Nessuno di noi può esistere dicendosi solo veneto o solo napoletano. Un gallese invece ha il suo posto nel mondo anche senza il Regno Unito e può tranquillamente dirsi non britannico. A vederla più da vicino non è questa una forma di liberazione dallo stato nazionale?
Possiamo provvisoriamente concludere che il Regno Unito è uscito dall’UE dopo averle impedito sistematicamente di essere l’unione di popoli che intendeva Schuman, contribuendo con i suoi veti a farla restare una macchinosa congregazione di stati nazionali. Ma che paradossalmente questo ha portato anche alla sua perdita, perché il Regno Unito non è un vero stato nazionale e avrebbe potuto stare in Europa solo in una prospettiva mondialista. Così ora che gli inglesi si sono chiusi fuori, noi rischiamo di restare chiusi dentro e ripiombare nell’angustia dei nostri opprimenti stati nazionali. Abbiamo dunque bisogno che gli inglesi esistano, che abbiano il coraggio di ritrovare il filone di libertà positiva che li ha sempre ispirati e, perché no, che rientrino in Europa come gallesi, scozzesi o irlandesi. Insomma, come ammutinati del Bounty.