di Guido Iodice
Questo articolo è un commento critico all’intervista a Emiliano Brancaccio pubblicata da MicroMega. Ho scelto di prenderla come spunto proprio perché stimo Brancaccio e credo che le sue tesi siano ispirate da una riflessione seria. Come premessa devo chiarire che non sono un difensore dell’euro: credo anzi che la moneta unica sia stata un errore. Ma questo non implica che uscirne riparerebbe l’errore commesso. Al contrario, come già ho avuto modo di scrivere insieme a Daniela Palma su Economia e Politica, il rischio è che la cura sia peggiore della malattia. E su questo siamo stati confortati da analoghe analisi (Gallegati, Biasco, Visco).
L’euro non è più quello di una volta
Il punto di partenza di Brancaccio è l’impossibilità politica di riformare l’unione monetaria. È una posizione che sembra non temere conto di quanto successo a partire dal 2012. L’euro di oggi è già molto diverso da quello fondato nel 1992 e da quello che abbiamo visto nella prima fase della crisi (2008-2012). Si diceva che la Germania non avrebbe mai permesso allentamenti monetari significativi: oggi il tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali è zero. Si diceva che la banca centrale europea non poteva acquistare massicciamente titoli di stato. Oggi la BCE sta acquistando massicciamente titoli di Stato, portando l’onere del debito pubblico del nostro paese al 4% del PIL (per avere un’idea, nel 1995 era pari all’11%) e i tassi sui nostri titoli al minimo storico.
Brancaccio all’inizio dell’intervista parla della necessità di acquisti differenziati, poiché attualmente la BCE compra in maggioranza titoli tedeschi seguendo il criterio del capital key. Ma è proprio l’abbandono di questo criterio uno dei temi all’ordine del giorno, visto che i titoli tedeschi “eligibili” si stanno esaurendo. Un ulteriore sintomo del cambiamento avvenuto è il fatto che i debiti del nostro paese con il sistema TARGET2 hanno raggiunto recentemente il massimo storico, eppure nessuno se ne preoccupa, per le ragioni ben illustrate in un recente articolo sul blog Econopoly del Sole 24 Ore.
Sul fronte fiscale il cambiamento è molto più lento che sul fronte monetario. Tuttavia occorre notare che il fiscal compact è rimasto lettera morta e anzi paesi come Spagna e Portogallo sono stati “perdonati” per eccessi di deficit abnormi. Ovviamente questo è molto meno di quanto servirebbe, ma è decisamente di più di quanto ci si poteva aspettare da un’Unione che quattro anni fa ha costretto gli Stati membri ad inserire il pareggio di bilancio nelle proprie costituzioni.
Cambiamenti forse troppo “al rallentatore” per risultare percepibili anche ad attenti osservatori, ma non di meno cambiamenti che hanno sconvolto le previsioni di quanti avevano data per certa, addirittura imminente, la fine dell’euro.
La sinistra no-euro non ha spazi
Sostiene Brancaccio che «coloro i quali oggi sostengono di voler lottare per cambiare l’Unione dall’interno dovrebbero occuparsi di miracolistica, non di politica». Ma la sinistra che vorrebbe uscire dall’euro (e dall’Unione) è già stata testata in Grecia e non è neppure arrivata ad eleggere un deputato in parlamento. Persino Yanis Varoufakis, che con quella posizione aveva avuto qualche rapporto, ha precipitosamente fatto dietrofront dopo il disastro degli scissionisti di SYRIZA. Brancaccio nel 2012 sostenne che SYRIZA non aveva vinto perché non aveva posto il tema dell’uscita dall’euro. La realtà era opposta, e SYRIZA poi ha vinto ben due elezioni giurando fedeltà alla moneta unica. Il Blocco di sinistra e i comunisti portoghesi, che a parole dicono di sostenere l’uscita dall’unione monetaria, appoggiano un governo che ha nel programma l’esatto contrario. In Spagna Podemos ed Izquierda Unida, che avevano in passato caldeggiato l’ipotesi dell’uscita, l’hanno espunta dai loro programmi. Matti? Forse no.
L’uscita dall’euro è a destra
Alcuni a sinistra cadono in una banale fallacia logica quando traggono la seguente implicazione: poiché l’euro è “di destra”, l’uscita dall’euro è “di sinistra”. Brancaccio non è tra questi. Il monito degli economisti, da lui promosso insieme a Riccardo Realfonzo, parla infatti di «modalità alternative di uscita dall’euro», con risultati diversi tra loro. Eppure è difficile immaginare un’uscita “da sinistra” dall’euro. Lo stesso Brancaccio ha riconosciuto che la Grecia non aveva altra opzione che sottoscrivere il nuovo memorandum con i suoi creditori. Vale la pena soffermarsi su questo punto. La Grecia è infatti un paese strutturalmente dipendente dai capitali esteri per finanziare i suoi disavanzi con l’estero. Mentre nell’euro questo finanziamento è automatico, attraverso il sistema TARGET2, fuori dall’euro Atene avrebbe dovuto trovare finanziatori esterni. Tsipras ha chiaramente ammesso di averci provato senza riuscirci (a USA e Cina certo non serve una Grecia fuori dalla moneta unica o persino dall’Unione). Una Grecia fuori dall’euro e senza accesso ai mercati avrebbe potuto contare solo sugli avanzi commerciali per finanziarsi, il che significa che avrebbe comunque dovuto deprimere la domanda interna. Impresa amaramente semplice in una situazione di collasso del sistema bancario.
Ovviamente altri paesi, come l’Italia, sono messi molto meglio della Grecia. Non troppo però. Vediamo perché. È chiaro a tutti che l’uscita unilaterale dell’Italia dalla moneta unica segnerebbe la fine dell’euro entro pochi mesi, se non settimane, a causa dell’intreccio finanziario del nostro paese con il resto dell’area euro. Lo scenario più probabile, del resto riconosciuto anche dagli economisti no-euro più ragionevoli, sarebbe una pesante recessione continentale con effetti di contagio finanziario anche nel resto del mondo. Se questo scenario si concretizzasse, la svalutazione della lira ci servirebbe davvero poco. Abbandonando il vincolo esterno dell’euro, ci troveremmo comunque davanti al vincolo della domanda estera. Ma persino ipotizzando che si possa davvero controllare la tumultuosa sparizione della seconda valuta di riserva del mondo, lo scenario appare molto meno roseo di quanto si possa immaginare. I paesi che hanno svalutato la loro moneta negli ultimi anni, soprattutto dopo il 2011-2012, hanno potuto godere di pochissimi benefici, se non nulli. Un esempio è il Giappone, paese fortemente vocato all’export. Dopo ripetute svalutazioni, a partire dal 2012, attuate nell’ambito dell’Abenomics, il paese è riuscito a tornare in attivo di bilancia commerciale solo quest’anno, paradossalmente dopo la parziale rivalutazione dello yen. La bassa domanda globale, le misure protezionistiche adottate da molti paesi in questa fase di deglobalizzazione, la guerra valutaria, ci dicono che almeno per qualche tempo l’“elasticity pessimism” è più che giustificato. Stando così le cose, rischiamo di trovarci, all’indomani di un’uscita dall’eurozona, con uno spazio per politiche espansive che potrebbe rivelarsi molto ridotto.
Brancaccio condivide il ragionamento sull’inefficacia del tasso di cambio, ma non mi pare tenga adeguatamente in conto gli effetti finanziari di una deflagrazione dell’eurozona e il ridotto spazio di manovra in cui il nostro paese, e non solo il nostro, rischierebbe di trovarsi.
Ma il punto che mi convince meno dell’“uscita da sinistra” prospettata da Brancaccio è quello della indicizzazione dei salari, che Emiliano ha sollevato in varie occasioni (come ad esempio in questa intervista a Giornalettismo). Se però si vuole almeno provare a sfruttare l’effetto della svalutazione per riconquistare competitività di prezzo per le nostre merci, pur con tutti i caveat già ricordati, la reintroduzione della scala mobile rischia di mangiare rapidamente il vantaggio ottenuto dal ritorno ai cambi flessibili. Gli economisti di destra che propongono l’uscita dall’euro, come Roger Bootle, sono estremamente sinceri in proposito, e purtroppo non si vedono chiare ragioni per dare loro torto: i salari nominali vanno tenuti al palo. Questo implica che l’inflazione importata ridurrà significativamente il salario reale dei lavoratori, come accaduto peraltro in diversi tutti i recenti episodi di svalutazione. Per fare solo un esempio, secondo i dati OCSE la caduta dei salari reali nel Regno Unito dal 2007 al 2015 è stata pari a quella dei salari reali in Grecia, che è il caso limite nell’area euro.
Potremmo allora decidere di non migliorare il nostro tasso di cambio reale, indicizzando le retribuzioni all’inflazione. Se l’Italia ripristinasse la scala mobile all’indomani dell’uscita, in una situazione già delicata, nella quale la nuova moneta dovrebbe “accreditarsi” presso i mercati valutari, questi ultimi incorporerebbero le aspettative di ulteriori svalutazioni future, portando la lira a deprezzarsi molto di più di quanto sia desiderabile per ripristinare la competitività di prezzo perduta negli anni di adesione all’euro. In tal caso, l’effetto combinato dell’aumento dei prezzi delle importazioni, del ritardo di reazione dell’export alla svalutazione (ammesso che si materializzi) e del peggioramento della posizione patrimoniale di banche e imprese indebitate in valuta estera, rischierebbe di produrre effetti recessivi significativi. Problemi che si pongono comunque, anche senza introdurre la scala mobile, ma che verrebbero accentuati dalla reazione dei mercati all’introduzione di misure di indicizzazione salariale.
La proposta finale avanzata da Brancaccio nell’intervista è anch’essa parte di una ipotesi di “uscita da sinistra”. Secondo Emiliano servirebbe «un labour standard sulla moneta, vale a dire un sistema di gestione delle relazioni internazionali finalizzato al controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale». Si tratta senza dubbio di una riforma molto ambiziosa. E condivisibile. Ma è anche un salto logico ardito: dopo aver escluso la possibilità di una riforma progressista dell’eurozona, Brancaccio propone una riforma progressista dell’intero sistema monetario internazionale.
Insomma, l’ipotesi di un’uscita “da sinistra” dall’euro appare difficilmente praticabile, se non addirittura “miracolistica”. L’uscita dall’euro sarebbe inevitabilmente a destra.
La sinistra intrappolata
Non voglio tediare ancora i lettori, ma ci sarebbe ancora molto da dire. Solo qualche accenno merita il fatto che quanti invocano l’uscita dall’eurozona, sostenendo che essa avrebbe costi minori che rimanervi (tra questi anche qualche Nobel per l’economia), non hanno mai presentato una simulazione credibile a sostegno di questa affermazione. L’unico economista ad averci provato, Jens Nordvig di Nomura, alla cui analisi mi sono in parte ispirato nel paragrafo precedente, ha dovuto concludere che l’uscita unilaterale dall’eurozona di un paese periferico sarebbe un disastro. La soluzione secondo Nordvig è una dissoluzione controllata che richiederebbe in fine nientemeno di un giubileo dei debiti generalizzato. A proposito di “miracolistica”.
La sinistra radicale è da tempo preda di una discussione singolare. Mentre molti parlavano di inevitabile, o quasi, crollo dell’euro e invocavano fantomatici piani B e C, nessuno ha preparato il piano A nel caso l’euro non crollasse, come in effetti è avvenuto. L’apice del dibattito odierno è rappresentato da un surreale confronto tra Stefano Fassina e Yanis Varoufakis (due politici oggi totalmente ininfluenti) su Marx e la sovranità nazionale. Date queste premesse è più probabile l’estinzione della sinistra prima di quella dell’euro.
Che fare?
Al leniniano interrogativo “che fare?” le risposte non possono che essere parziali e mutevoli. Nessuno possiede la bacchetta magica e il sentiero è molto stretto. Il tentativo di Tsipras di creare un fronte dei paesi mediterranei è l’inizio di una risposta politica, che arriva con grande ritardo (non certo per colpa del leader greco). Una possibile risposta sul piano economico è invece quella contenuta nel paper Why further integration is the wrong answer to the EMU’s problems: the case for a decentralised fiscal stimulus che ho scritto con Thomas Fazi e che è ha vinto la “call for papers” del think tank Progressive Economy, legato al Gruppo Socialista nel Parlamento europeo. Una sintesi del suo contenuto è reperibile su Keynes blog.
Al di là delle proposte tecniche che ognuno prova a elaborare nella speranza che qualcosa arrivi ai decisori politici, il punto è che la risposta della sinistra dovrebbe collocarsi all’altezza della sfida posta da un lato da Mario Draghi, con la sua azione stabilizzatrice della moneta unica, e dall’altro dal crescente timore delle classi medie impoverite dei paesi relativamente ricchi dell’Europa di dover in fine pagare i costi della crisi dei paesi relativamente poveri, per salvare l’euro e l’Unione. La vera fragilità dell’euro non è costituita dagli squilibri commerciali che spingerebbero i paesi “periferici” a sganciarsi, ma dalle spinte centrifughe crescenti proprio nei paesi del “centro”.
Una riforma “progressista” dell’euro non è impossibile: è dannosa. Non è il momento di fare progressi: quello che serve è un passo indietro nel processo di integrazione, senza cadere nel burrone della dissoluzione della moneta unica. Solo così se ne potranno fare, in seguito, due avanti.
Pubblicato su MicroMega il 13 settembre 2016.