di Thomas Fazi
In un recente articolo Guido Iodice replica ad un’intervista di Emiliano Brancaccio in cui quest’ultimo sostiene che «l’Unione non è più riformabile in senso progressista» e che dunque – dato che «il percorso che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile» – la sinistra dovrebbe cominciare a guardare “oltre l’euro”, per così dire. Brancaccio esclude l’ipotesi di un’uscita unilaterale dalla moneta unica finalizzata al recupero della sovranità nazionale, che ritiene estranea alla tradizione del movimento operaio, auspicando piuttosto «forme di coordinamento dei paesi euro-mediterranei» (che però l’economista ritiene poco fattibili) o, meglio ancora, «un sistema di gestione delle relazioni internazionali finalizzato al controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale».
La critica di Iodice alle argomentazioni di Brancaccio verte su tre punti in particolare. Primo, non è vero che l’eurozona non è riformabile perché l’euro è già cambiato tanto rispetto a quello fondato nel 1992 e a quello che abbiamo visto nella prima fase della crisi: negli ultimi anni abbiamo ottenuto il quantitative easing (QE), la “flessibilità di bilancio”, ecc. Secondo, la riforma del sistema monetario internazionale proposta da Brancaccio è addirittura più ambiziosa (e dunque più difficile da realizzare) di una riforma progressista dell’eurozona. Terzo, l’uscita unilaterale e “da sinistra” di un singolo paese dall’eurozona, prospettata da diversi esponenti della sinistra europea – ma non da Brancaccio, come già detto – recentemente raggruppatisi sotto la sigla “Lexit”, è impossibile, non solo perché il paese in questione si vedrebbe costretto a perseguire politiche deflattive (cioè “di destra”) per non perdere l’effetto della svalutazione, ma soprattutto perché questo, nota Iodice, provocherebbe quasi sicuramente la dissoluzione incontrollata della moneta unica, determinando «una pesante recessione continentale con effetti di contagio finanziario anche nel resto del mondo». La conclusione di Iodice è che l’unico orizzonte entro il quale può avere senso immaginare una politica di sinistra è quello dell’eurozona e dell’Unione europea, assumendo l’esistenza (e la sopravvivenza) della moneta unica come un dato.
Sui singoli punti, non la penso in maniera del tutto dissimile da Iodice (il che non dovrebbe sorprendere, visto che abbiamo scritto un libro assieme su questi temi). Partiamo dal primo punto: è vero, l’euro di oggi è indubbiamente un euro “riformato”, e in meglio, rispetto all’euro del 1992 o anche solo a quello di qualche anno fa. Detto ciò, sarebbe ardito definire tali riforme “progressiste”, se non a costo di snaturare del tutto il senso della parola: come è noto, le riforme in questione hanno avuto come unico obiettivo quello di salvaguardare l’integrità finanziaria (“whatever it takes”, QE, ecc.) e politica (flessibilità di bilancio, deroga delle regole sul bail-in, ecc.) dell’eurozona, non certo quello di favorire il progresso economico e sociale del continente, come è evidente. Prendere tali riforme come dimostrazione del fatto che una riforma dell’eurozona in senso progressista è possibile rappresenta, dunque, un salto logico difficilmente condivisibile, soprattutto se si considera che l’obiettivo di quelle riforme – ossia quello di “mettere in sicurezza” la moneta unica – è stato ampiamente raggiunto. Concordo con Iodice, infatti, che non vi è alcun motivo per ritenere “imminente” e/o “inevitabile” il crollo dell’euro. Tutt’altro.
Ciò detto, non ha senso dibattere sulla riformabilità o meno dell’UE/euro se non si specifica di quali riforme si sta parlando. Se parliamo di ulteriori “passetti in avanti” nella direzione di un’unione monetaria leggermente più flessibile ed espansiva – un po’ di flessibilità di bilancio in più, un potenziamento del “piano Juncker”, un QE mirato verso i paesi più deboli, ecc. – ci sono buoni motivi per essere ottimisti, soprattutto alla luce del tentativo di Tsipras di creare un fronte dei paesi mediterranei. Ma bisogna sapere che queste misure difficilmente saranno sufficienti a trascinare l’eurozona fuori dalla stagnazione in cui versa, o ad arrestare la devastante desertificazione industriale dei paesi della periferia. Se invece parliamo di una riforma profonda e radicale dell’eurozona in una direzione realmente progressista, finalizzata all’obiettivo della piena occupazione – il che richiederebbe un bilancio federale pari almeno al 10 per cento del PIL dell’eurozona; trasferimenti fiscali dai paesi più ricchi verso quelli più poveri; un’autorità federale capace di effettuare spesa in deficit con il sostegno attivo della BCE; e un effettivo trasferimento di rappresentatività democratica dal livello nazionale a quello sovranazionale – la prospettiva cambia drammaticamente. Come segnalato da Brancaccio – ma anche da (ex?) federalisti convinti come Joseph Stiglitz, Paul De Grauwe e altri, nonché da analisi di istituti europei come il Bruegel – le condizioni per una riforma in tal senso non sussistono più (se mai sono esistite). Le ragioni sono piuttosto ovvie: l’euroscetticismo dilagante; la delegittimazione delle autorità europee (a mio avviso insanabile), in particolar modo in seguito al “trauma” del negoziato greco; l’assoluta mancanza di solidarietà e di fiducia reciproca tra paesi (tanto tra governi quanto tra cittadini e lavoratori), anche a causa del perdurare della crisi economica e sociale; ma soprattutto, la radicalizzazione della posizione tedesca. Una riforma “keynesiana” dell’eurozona – magari con obiettivi più modesti di quelli sopraelencati – sarebbe forse stata possibile nei primi anni della crisi, quando l’egemonia della Merkel in patria era ancora incontrastata, la Germania non era ancora “rientrata” degli enormi debiti accumulati nei confronti della periferia, e la classe politica tedesca non aveva ancora costruito un impianto narrativo in cui scaricava tutte le responsabilità dell’eurocrisi sui paesi della periferia. Oggi una riforma in tal senso non è più possibile. E lo è ancora meno la creazione di un’autentica democrazia sovranazionale, come auspica Yanis Varoufakis (la creazione di un federalismo autoritario e postdemocratico, d’altro canto, è del tutto plausibile, e per certi versi già in atto).
Nel corso della trattativa greca è emerso con evidenza come il nuovo Lebensraum tedesco – quel subsistema geoeconomico che include i nuovi satelliti economici e i principali partner commerciali della Germania, tra cui la Polonia, la Finlandia, la Slovacchia, la Slovenia, la Repubblica Ceca, la Finlandia, l’Olanda, ecc. – non rappresenti più solo un blocco economico ma anche, e sempre di più, un blocco politico-culturale di matrice radicalmente ordoliberale. Questo “partito transnazionale” condivide con la Germania, tra le altre cose, una concezione estremamente restrittiva – ordoliberale, appunto – della moneta (stabilità dei prezzi prima di tutto, separazione assoluta tra governi e banca centrale, ecc.). Dall’inizio della crisi questo “partito transnazionale” ha capitanato una ristrutturazione radicale dell’eurozona all’insegna dell’austerità e del neomercantilismo estremo, il cui stadio finale – ancora da realizzare – consiste nella costruzione di una “unione fiscale” che privi gli Stati nazionali di quel minimo di potere discrezionale che gli è rimasto, senza alcuna compensazione a livello europeo.
Alla luce di ciò, è lecito immaginare che, qualora emergesse veramente un blocco di paesi alternativo a quello ordoliberale che si facesse promotore di un emendamento radicale dell’unione monetaria – purtroppo dobbiamo prendere atto del fatto che il “Club Med” di Tsipras di radicale finora ha proposto ben poco – il risultato più probabile non sarebbe l’arretramento della Germania e della sua galassia, ma la fuoriuscita di quest’ultima dall’eurozona e la conseguente dissoluzione della moneta unica (almeno nella sua forma attuale). Ci troviamo, in sostanza, in una situazione piuttosto paradossale, in cui qualunque tentativo di riforma dell’unione monetaria rischia di precipitare la fine dell’unione stessa. Detto ciò, questo scenario – proprio perché richiederebbe un’improbabile congiunzione astrale che porti contemporaneamente le sinistre al governo in un numero sufficiente di paesi europei – appare comunque poco plausibile, così come qualunque altra strategia di cambiamento sovranazionale. In assenza di una “rottura” con l’eurozona da parte di un singolo paese (o di shock esogeni di altro tipo), lo scenario più probabile rimane quello “business as usual” (magari con qualche “passetto in avanti” nel tempo, nel migliore dei casi). In questo senso potremmo dire che il rischio reale non è la disintegrazione dell’euro, ma la sua sopravvivenza nella forma attuale.
Questo ci porta all’altro punto del ragionamento di Iodice: l’idea che un’uscita unilaterale e “da sinistra” dall’eurozona sia impossibile (sul secondo punto – l’impossibilità di una nuova Bretton Woods – concordo pienamente). Sui rischi di una tale strategia, soprattutto se dovesse condurre a una deflagrazione dell’eurozona, sono d’accordo con Iodice: i costi, soprattutto nel breve, sarebbero indubbiamente molto alti (ne parliamo a lungo nel nostro libro). Ma è una ragione sufficiente per non prendere neanche in considerazione l’ipotesi che possa esserci vita (a sinistra) fuori dall’euro? Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima chiederci quali siano le implicazioni di una risposta affermativa: accettare che non esista altro orizzonte all’infuori dell’euro vuol dire accettare che la sinistra – e parlo della sinistra di estrazione socialista – non ha più alcun ruolo da giocare in Europa. I movimenti socialisti e rivoluzionari si sono sempre fondati sull’idea che esistesse un orizzonte ideale, seppur irraggiungibile, verso il quale tendere. Era proprio quell’orizzonte ideale ad animare le speranze di milioni di persone. È evidente, però, che dentro l’euro non c’è spazio per alcun orizzonte ideale che non sia quello di una rivoluzione continentale che rimane tanto irrealizzabile oggi quanto lo era cento anni fa, checché ne dicano i neotrotskisti come Varoufakis. Oggi come ieri, l’unico orizzonte entro il quale è possibile immaginare un progetto di trasformazione radicale della realtà – con tutte le sfide e le difficoltà che questo comporta – rimane quello nazionale. Sarebbe a dire che un programma realmente di sinistra è concepibile solo fuori dall’euro. Dentro l’euro al massimo c’è spazio per un riformismo onesto. Attenzione: questo di per sé non riduce i costi di un’uscita, né vuol dire che sia effettivamente possibile un’uscita “da sinistra”. Ma è importante chiarire quale sia la posta in gioco nell’accettare di non mettere in discussione l’euro (in particolar modo se si accetta l’idea che esso non sia riformabile in senso progressista).
Personalmente ritengo che salvaguardare quell’orizzonte ideale sia sufficientemente importante da giustificare i rischi di una strategia politica che abbia il coraggio di guardare oltre l’euro. Senza minimizzare i costi di un’uscita, ma mettendo in discussione alcune delle verità acquisite, in particolar modo a sinistra, sul presunto “tramonto dello Stato-nazione”. Il libro che sto ultimando con l’economista australiano Bill Mitchell si propone precisamente l’obiettivo di analizzare se e quanto sia vero che i singoli Stati sono del tutto impotenti nei confronti dei “mercati” e della “finanza”, e che qualunque tentativo di implementare politiche progressiste a livello nazionale sia inevitabilmente destinato a far piombare il suddetto Stato in un nuovo Medioevo. Nel libro mostriamo come gli Stati-nazione possono ancora perseguire le proprie politiche in relativa autonomia: i numerosi “vincoli esterni” che vengono spesso invocati per dimostrare l’impotenza delle singole nazioni sono, nella maggior parte, vincoli autoimposti (l’Europa offre esempi a non finire). La risposta della sinistra, dunque, non dovrebbe essere di cedere sovranità alle istituzioni internazionali ma di resistere la corruzione e la “cattura” del sistema decisionale a livello nazionale. Questo, ovviamente, è un discorso diverso da quello che riguarda le conseguenze di un’uscita di un paese dell’euro; ma quel discorso non può essere scisso da una riflessione sui presunti limiti dello Stato-nazione nell’era della globalizzazione.
Infine, Iodice giustamente fa notare che la sinistra, in quelle poche occasioni in cui si è presentata alle elezioni con un programma apertamente anti-euro (Unità Popolare in Grecia) o anche solo ambiguo nei confronti della moneta unica (SYRIZA pre-2012 o Izquierda Unida in Spagna), ne è uscita con le ossa rotte. È vero. Ma lo stesso si può dire di diversi partiti di sinistra pro-euro (Podemos alle ultime elezioni, per esempio; ma anche la stessa SYRIZA, che gli ultimi sondaggi danno in caduta libera). In generale, direi che i problemi della sinistra europea vanno ben al di là della posizione dei singoli partiti sulla moneta unica: vanno rintrecciati nella sua incapacità, da almeno trent’anni a questa parte, di concepire una realtà alternativa al neoliberismo, nonché nella sua accettazione acritica dell’idea della morte dello Stato-nazione. Da ciò deriva anche l’incapacità di immaginare un futuro (a sinistra) fuori dall’euro.