Pubblichiamo qui di seguito un saggio del professor Giampaolo Rossi che ha suscitato un vivace dibattito di alto livello, originariamente apparso sul sito di analisi Ridiam, Riflessioni sul Diritto amministrativo, da lui stesso moderato.
Abstract
La crisi delle istituzioni europee ha carattere strutturale e riflette un vizio di origine: l’essere volte essenzialmente a dirimere i conflitti fra gli Stati membri ai quali resta il compito di rispondere alle esigenze delle popolazioni. Di qui le crescenti ostilità. L’Unione Europea, condizione indispensabile per la rilevanza internazionale dei Paesi europei nel contesto mondiale, corre rischi di sopravvivenza e non può essere rilanciata a livello costituzionale. Come risolvere questo intricato problema? La proposta è quella di ricostruire l’Unione “dal basso”, attraverso una serie di interventi su reti, infrastrutture, welfare di base, sicurezza, cooperazione con i PVS, politiche di settore e di zona, utilizzando la cooperazione rafforzata, favorendo la formazione di un’Europa a cerchi concentrici. La dottrina giuridica, e quella amministrativistica in particolare, può svolgere un compito di particolare importanza in questo progetto.
Sommario: 1. Il carattere strutturale della crisi dell’Unione Europea — 2. Il vizio di origine e l’inadeguatezza della parziale correzione — 3. “Qui si fa l’Europa o si muore”, ma non c’è nessuno che lo dica — 4. La graduale costruzione dell’Europa federale, a cerchi concentrici, “dal basso”, attraverso la cooperazione rafforzata: reti, infrastrutture, sicurezza e welfare di base, cultura, politiche di settore — 5. Nuovi approcci di studio per la scienza del diritto pubblico.
1. Il carattere strutturale della crisi dell’Unione europea
Le istituzioni europee sono in crisi evidente.
Le riflessioni che seguono sono state scritte prima del referendum nel Regno Unito, ma non è stato poi necessario apportarvi variazioni perché, anzi, possono contribuire a spiegare l’esito referendario.
– L’evidente contrasto fra la povertà di gran parte dei paesi dell’Africa e dell’Asia e il welfare di quelli europei, determina grandi flussi migratori. Le guerre in atto accentuano il fenomeno, che ha però radici più profonde nell’incompatibilità fra l’apertura degli Stati e gli squilibri economici e sociali fra le diverse parti del mondo, e ciò si verifica anche nell’rapporto fra gli Stati che fanno parte dell’Unione europea. I singoli Stati non sono in grado di affrontare il problema se non richiudendosi, ma una chiusura eccessiva e prolungata, anche al di la di valutazioni etiche, recherebbe gravi danni alla loro economia.
– Per i Paesi dell’Euro, la “crisi fiscale” degli Stati rende impervio l’equilibrio di bilancio richiesto dalla moneta unica. Si determina un circolo vizioso: le misure di risanamento dei bilanci confliggono con l’obiettivo della crescita, necessaria per il risanamento degli stessi.
– Le recessioni economiche sono sempre state affrontate dagli Stati con tre misure: manovra monetaria, espansione del debito e aiuti alle imprese o/e loro pubblicizzazione. Gli Stati membri dell’Unione europea hanno perso in tutto o in parte la disponibilità di queste misure senza che il corrispondente potere venisse assunto in misura significativa dall’Unione. Vi è in Europa un vuoto di potere superiore a quello che già hanno tutti gli Stati per la difficoltà a controllare la finanza internazionale. L’Unione Europea, seguìta in ciò pedissequamente dalle Autorità nazionali della concorrenza, impedisce la formazione di “campioni nazionali”, di imprese pubbliche o privati che acquisiscano dimensioni capaci di affrontare la concorrenza globale, ma non ne crea dei propri.
Invertendo una frase di Jean Monnet, che teorizzava una Europa che non fait, fait faire, si potrebbe dire che l’Europa non fait et non fait faire.
– In ogni Paese membro le spinte ostili all’Unione si stanno moltiplicando e i consensi sono sempre più tiepidi. L’uscita del Regno Unito ne dà una conferma.
– L’assenza di una politica estera comune si riflette in iniziative unilaterali di Stati membri che danneggiano gli altri (come la guerra alla Libia) e nella incapacità di svolgere un ruolo nel contrasto ai conflitti armati (guerra in Siria).
E’ chiaramente sbagliato ascrivere questa situazione di crisi a una serie di cause puntuali: la crisi ha carattere strutturale. Questo modello istituzionale corre seri rischi di sopravvivenza.
2. Il vizio di origine e l’inadeguatezza della parziale correzione
Il mercato comune e la moneta unica europea sono stati realizzati senza i presupposti che ne consentono il mantenimento nel lungo periodo.
Scopo principale dell’Unione è quello di regolare al proprio interno i rapporti fra gli Stati membri, e il metodo più semplice è imporre il libero mercato, o meglio il mercato comune, e di contrastare gli squilibri fra spese e entrate nei bilanci nazionali per impedire che scarichino sui paesi “virtuosi” l’onere delle spese sostenute senza corrispondente copertura.
Allo scopo iniziale si sono poi aggiunti scopi ulteriori nei trattati successivi, in particolare in quelli di Maastricht e di Lisbona, che hanno attribuito all’Unione compiti che hanno diretta attinenza agli interessi dei suoi “cittadini”: libertà, sicurezza, giustizia, sviluppo economico, piena occupazione, progresso e protezione sociali, tutela dell’ambiente, benessere dei suoi popoli (art 3 c. 1,2,3 TUE); è compito dell’Unione affermare e promuovere i suoi valori e interessi, per la protezione dei suoi cittadini, nella relazioni con il resto del mondo (c.5). Al di la di queste enunciazioni, l’Unione “agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati” (art. 5), sia pure con qualche margine di interpretazione evolutiva che viene dalla previsione dei c.d. “poteri impliciti” (art. 352 TFUE) che consente all’Unione di intervenire, anche in assenza di una apposita competenza assegnatale, quando lo richieda il perseguimento di uno dei suoi scopi nel funzionamento del mercato comune.
L’implementazione delle competenze europee si è avvalsa della natura indefinita delle funzioni relative alla concorrenza, essendo questa non una materia ma un profilo che attraversa gran parte delle altre. Così pure la “materia” ambientale ha consentito alla Commissione di assumere la titolarità di attribuzioni su una molteplicità di settori.
Ulteriori e significativi ampliamenti dello “spazio giuridico europeo” si sono avuti attraverso le interpretazioni estensive che ne ha dato la Corte di giustizia europea, l’unico organo che sembra poter decidere da solo l’ambito delle proprie competenze e lo ha fatto in modo consistente e utile per rafforzare il processo unitario, e nei tempi più recenti, la Corte europea dei diritti dell’uomo dopo il recepimento nell’ordinamento europeo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU). E’ in atto, per questa via, un processo di “unitarizzazione” attraverso i diritti fondamentali comunitari (M.P.Chiti,P.M. Huber, J. Garcìa Roca, P.A.Fernàndez Sànchez) che ha sollevato qualche riserva ma più spesso entusiastiche adesioni.
Particolarmente intensa è stata la produzione normativa europea in materia di servizi di interesse generale in considerazione del “loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale” (art. 14 TFUE) fermo restando però che è compito degli Stati assicurarne la soddisfazione.
Sul piano operativo sono stati poi creati vari organismi finanziari di intervento nell’economia, in particolare la Banca Europea per gli investimenti (BEI), il Fondo Europeo per gli investimenti (FEI), il Fondo Strategico Europeo per gli investimenti (EFSI) che si sono aggiunti a vari fondi operanti da tempo per il sostegno all’agricoltura e per altre finalità sociali e culturali. Sono stati rafforzati, ancora con molte limitazioni nonostante i pregevoli sforzi di interpretazione estensiva da parte di Mario Draghi, i poteri della Banca Centrale Europea (BCE) e si cerca di varare, con molte resistenze, il Piano di investimenti per l’Europa (Juncker).
Le Agenzie europee sono prevalentemente di regolazione ma alcune hanno compiti operativi, come l’Agenzia spaziale europea. Quando l’Unione ha funzionato verso l’esterno ha ottenuto risultati significativi, per esempio nel contrasto all’elusione fiscale e agli abusi di posizione dominante delle multinazionali dell’informatica. Anche la trattativa con gli USA sulla zona di libero scambio viene condotta dall’UE con posizioni di forza che non avrebbero i singoli Stati.
A fronte della crisi economica, per adottare misure non previste dai trattati si è ricorsi ad appositi accordi di diritto internazionale creando un Meccanismo di Stabilità Europeo (MES) con un Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (FESF), strana figura di diritto privato lussemburghese che richiederà alla dottrina uno sforzo per darne una spiegazione giuridica (M.P.Chiti). Sono figure al di fuori del diritto dell’Unione (G.L.Tosato) ma per varie vie la Commissione e la Corte di giustizia trovano modo di occuparsene. La Corte di giustizia ne ha stabilito la legittimità, in quanto aggiuntivi e non contrastanti con il diritto dell’Unione (C.G. sent. Pingle c. 370/12).
È concorde l’osservazione che si è ormai formato un diritto amministrativo europeo di consistente spessore che comprende il “diritto ad una buona amministrazione” (art.41 Carta di Nizza) tanto che l’Unione viene da alcuni definita “una comunità basata sul diritto amministrativo” (J. Schwarze) ma si sono diffusi anche gli studi di diritto costituzionale europeo.
La pervasività è quantitativa: i Trattati di diritto europeo che sono stati scritti in tutti i Paesi coprono ormai quasi tutte le tematiche dei diritti nazionali, ma è in primo luogo qualitativa: alcune forme di unificazione sono più intense di quelle che si hanno in uno Stato federale (P.M.Huber), per certi profili anche con una sottovalutazione disinvolta di tradizioni costituzionali nazionali che potrebbero essere rispettate anche all’interno di uno Stato federale (A. von Bogandy).
Il tratto prevalente è, però, quello volto a fornire un quadro comune entro il quale si possa svolgere la competizione fra gli Stati membri: nessuna di queste misure è stata sufficiente per risolvere le crisi prima indicate e per determinare nelle popolazioni la sensazione che i loro problemi possono essere risolti dall’Unione europea. Anche quando un diritto fondamentale viene affermato in sede europea è compito degli Stati soddisfarlo.
Resta la fragilità di un assetto istituzionale asimmetrico nel quale gli Stati sono i soli destinatari della domanda sociale di sviluppo, lavoro, sicurezza, assistenza e prestazione dei servizi essenziali ma non dispongono dei poteri necessari per farlo. La sfasatura finisce per coinvolgere il funzionamento del sistema democratico perché non vi è corrispondenza fra la domanda e i mezzi di cui sono destinatarie le istituzioni.
La prevalenza, anche se non più esclusività, del compito dell’Unione di impedire comportamenti degli Stati lesivi degli interessi degli altri Stati membri, fa sì che l’Europa venga vissuta dall’opinione pubblica come un fattore di divieti e di rigidità che diventano insostenibili in una situazione di crisi. La polemica contro i “burocrati di Bruxelles” è, insieme, giusta e ingenerosa perché esercitano il compito che è stato loro assegnato.
3. “Qui si fa l’Europa o si muore”, ma non c’è nessuno che lo dica
Con pochissime eccezioni che non hanno mai avuto effetti duraturi, le analisi storiche dimostrano in modo inequivocabile che “la quantità fa virtù”. Nelle storie locali è sempre rilevabile la prevalenza degli aggregati più grandi su quelli più piccoli. La stessa prevalenza si è avuta nei rapporti fra gli Stati: in Europa i due Stati divisi al proprio interno, la Germania e l’Italia non avevano avuto la possibilità di espandersi come gli altri e quando si sono unificati sono ricorsi alla guerra per farlo.
La quantità consente di concentrare le risorse e di fare economie di scala. In un contesto mondiale nel quale vi sono Paesi che hanno una dimensione sub continentale e vari altri di grandi dimensioni, quelli europei non hanno da soli una effettiva possibilità di svolgere un ruolo significativo. Per l’Italia si aggiunge poi una ragione ulteriore che dovrebbe indurla ad auspicare l’unificazione europea: il rovescio della medaglia della grande creatività del popolo rende particolarmente difficili le sintesi; la disponibilità all’aggregazione vi è solo quando vi sono grandi motivazioni.
Ci si trova in una situazione analoga a quella che in passato rese evidente la necessità di unificazione del Paese. La consapevolezza che si dovesse realizzare l’unità dell’Italia era così radicata, nelle menti più consapevoli, che molti giovani vi sacrificarono la vita. La frase “qui si fa l’Italia o si muore” del luogotenente di Garibaldi Nino Bixio ne è una fra le tante testimonianze.
Non vi è oggi una analoga motivazione ideale per l’unità europea sia perché non si vive in un clima di grandi motivazioni sia perché la consapevolezza della ineluttabile alternativa fra una scelta europea e il declino non è maturata. Anche le componenti politiche, culturali e religiose che ne sono consapevoli sono rimaste fin qui irretite nelle questioni nazionali e locali. Sembrano ormai lontane le parole con le quali Alcide De Gasperi concluse il suo ultimo intervento pubblico al Congresso di Napoli del 1954, con un omaggio “alla nostra patria Europa, che sta in cima ai nostri pensieri e ai nostri interessi”. L’unico forte e accorato richiamo viene da Papa Francesco, ed è rivolto anche alle chiese.
Eppure l’unificazione europea trova fondamento su basi ideali facilmente percepibili. I Paesi che fanno parte dell’Europa hanno un radicato rispetto dei diritti dell’uomo e svolgono un ruolo attivo per renderli effettivi, il pubblico potere è ormai configurato in termini di servizio ed è sottoposto al diritto. Una Europa federale, rivolta all’esterno anziché chiusa in se stessa, può dare al mondo un grande contributo positivo.
4. La graduale costruzione dell’Europa, a cerchi concentrici, “dal basso”, attraverso la cooperazione rafforzata: reti, infrastrutture, sicurezza e welfare di base, cultura, politiche di settore
L’Unione europea è indispensabile; l’attuale modello non funziona; non è ora percorribile la strada di una riforma costituzionale che verrebbe bocciata. Come si risolve questo intricato problema?
Le proposte sono numerose ma hanno per lo più il comune profilo di non essere inquadrate in un disegno strategico complessivo, che manca, dando l’impressione di una evoluzione di tipo occasionale, e che invece sarebbe necessario per connettervi una motivazione ideale.
Anche le proposte dei 5 Presidenti (21.6.15) sono prevalentemente rivolte alle misure di tipo economico e finanziario e, sul piano istituzionale, la principale è di rafforzare i poteri del Parlamento Europeo. E’ una proposta che si fa da varie parti, che vorrebbe ovviare al gap di legittimazione democratica delle istituzioni europee, ma, al di là delle dispute sul carattere autocratico o indirettamente democratico di quelle attuali, il Parlamento Europeo, per quanto opportunamente rafforzato, non sarebbe in grado di risolvere l’asimmetria prima indicata tra i destinatari della domanda sociale e le istituzioni in grado di darle risposta perché non dispone della leva fiscale e dei conseguenti poteri di spesa.
Altre proposte riproducono o accentuano il difetto di configurare l’Unione come un fattore di vincolo: così è quella avanzata dai Governatori delle Banche tedesca e francese della istituzione di un Ministro europeo del tesoro che dovrebbe avere il potere di porre veti sulle approvazioni dei bilanci nazionali (!). Ben diverso sarebbe se, come proposto dal Governo italiano, il Ministro europeo del tesoro avesse piuttosto un proprio budget da utilizzare anche per interventi di carattere sociale. Le popolazioni potrebbero in tal caso apprezzare direttamente i vantaggi delle politiche europee. Così avverrebbe anche se si approvassero altre misure che sono state proposte dallo stesso Governo, come la creazione di una polizia europea di frontiera e di un fondo europeo che aiuti i Paesi dai quali provengono le immigrazioni, con l’effetto di scoraggiarle.
Si potrebbe, in particolare, percorrere la via di accordi internazionali fra alcuni Paesi o utilizzare lo strumento della cooperazione rafforzata, prevista dal Trattato di Lisbona, tra i 6 Paesi fondatori ai quali non si vede perché non aggiungere la Spagna e il Portogallo e anche l’Austria, se non prevarranno gli orientamenti regressivi. Si porterebbero così i Paesi partecipanti al numero di 9 richiesto dal TUE (art.20, 2°c.) come il minimo per autorizzare la cooperazione rafforzata.
Si formerebbe così una Europa a cerchi concentrici che consentirebbe, insieme, di rafforzarla nel suo nucleo centrale e di allargarla, con diversi gradi di cessione/acquisizione di poteri purché sempre corrispondenti alla perdita/acquisto di doveri. Già oggi, del resto, vi è una Europa a più velocità: alcuni Paesi fanno parte dell’Euro altri no, vi è un patto separato con l’Inghilterra e vi sono accordi internazionali, come il MES, non sottoscritti da tutti i 28 Paesi. Si può così bypassare la regola dell’unanimità che è una vera sciocchezza.
L’Europa, a partire dai Paesi che decidano di rafforzare la loro integrazione, può dare alle popolazioni più sicurezza e una maggiore garanzia del soddisfacimento dei bisogni essenziali.
All’interno di un disegno organico, che può anche essere deciso in un documento non avente valore giuridico, si possono potenziare i processi unitari alcuni dei quali hanno già avuto un inizio: rafforzamento dei diritti sociali europei attraverso i servizi economici di interesse generale, progetti comuni nella ricerca scientifica e nello spazio, forze di frontiera e di assistenza agli immigrati, moltiplicazione di progetti Erasmus, iniziative culturali e cinematografiche, finanziamento di programmi di sviluppo (compreso il Piano Juncker che potrebbe non riguardare i Paesi che non lo desiderano), armonizzazione (non omogeneizzazione) dei livelli base di istruzione, programma di assistenza essenziale, unificazione con forme consortili delle reti dell’energia, del gas, dei trasporti e delle poste, cooperazione allo sviluppo di altri Paesi con programmi integrati e cogestiti.
Tutto ciò spostando gradualmente, con un piano pluriennale, quote dei bilanci nazionali nel bilancio dell’Unione.
Si possono poi promuovere nuove misure istituzionali all’interno del sistema costituzionale vigente o con modifiche puntuali: il rafforzamento della Banca Centrale Europea e l’unificazione del sistema bancario, la creazione di una polizia europea, la condivisione di nuclei di forze armate, l’armonizzazione delle politiche fiscali, la creazione in settori strategici di alcune imprese europee pubbliche o a capitale misto.
Il metodo proposto è in sostanza analogo a quello utilizzato da Jean Monnet nel promuovere l’istituzione della CECA. Nel Memorandum del 28 aprile 1950, Monnet, rilevate le difficoltà che incontrava l’idea di unità politica dell’Europa, scriveva che “da una situazione simile si può uscire in un solo modo: con una azione concreta e risoluta su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme dei problemi”.
5. Nuovi approcci di studio per la scienza del diritto pubblico
La parte nettamente prevalente della scienza giuridica si è occupata delle questioni europee assumendole come un dato. Superata la fase, che resta ancora nei curricula degli studi universitari, nella quale erano relegate nel “diritto comunitario”, di impronta internazionalistica, gli autori hanno preso atto del diritto europeo e lo hanno inserito nelle parti sulle fonti, sull’organizzazione, sull’attività soprattutto per i profili, come i contatti pubblici, ormai retti quasi completamente da norme europee.
Sono ormai numerosi in tutti i paesi gli studiosi che vi hanno dedicato pregevoli trattazioni, fino a veri e propri trattati. Non sono molte le questioni di carattere teorico generale che vi sono state connesse. La principale è quella del carattere originale o solo desunto dalle categorie presenti nei sistemi di diritto amministrativo nazionali (v. ad es. le opinioni di A. von Bogdandy e di S. Cassese), ma basta leggere gli studi di G. D. Romagnosi agli inizi dell’800 per constatare come una serie di principi, come quelli di sussidiarietà e di proporzionalità erano già chiaramente enunciati, anche se è vero che il diritto europeo li ha riproposti e attualizzati.
Molto rari sono stati gli spunti critici, presenti soprattutto nella dottrina tedesca molto attenta, come la Corte Costituzionale, a evitare cessioni di sovranità non suffragate da decisioni assunte da organi democraticamente legittimati. Le Corti nazionali stanno inondando la Corte di Giustizia di questioni preliminari. Poche le resistenze, come quella del Conseil d’Etat francese nel configurare un obbligo delle Amministrazioni di dare esecuzione alle sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo in materia di sanzioni amministrative (C. E.: Ass. 31/7/14, M. Vernes).
Vi è comunque, considerando complessivamente i lavori degli studiosi di diritto pubblico, un consistente squilibrio fra quelli che hanno fatto studi approfonditi sul diritto europeo e quelli che ne prescindono o lo trattano marginalmente e rivolgono i loro studi agli ordinamenti nazionali o alla comparazione fra questi. Le questioni inerenti alla distribuzione di competenze fra enti territoriali si sono concentrate in netta prevalenza sul rapporto fra Stato e regioni o comunità autonome o landers, che restano importanti ma hanno perso rilievo strategico. Agli infiniti dibattiti che hanno accompagnato le sentenze delle Corti Costituzionali ha fatto riscontro una diffusa accettazione acritica di quelle della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Anche il problema del rapporto fra pubblico e privato, centrale per la scienza pubblicistica, ha molto raramente varcato la soglia delle problematiche nazionali o ha fatto riferimento ai profili europei solo per dare per scontato che questi impongono una economia di mercato, obliterando l’aggiunta “comune” ai Paesi membri. La differenza non è da poco perché nel primo caso vi sarebbe una ideologia liberista incorporata nell’ordinamento europeo, che non c’è, al di la di qualche confusione fatta propria anche dalla Corte di giustizia, perché l’ordinamento positivo europeo non mostra alcun interesse al libero mercato per le misure che corrispondono all’interesse comune degli Stati membri, come avviene in tanti settori come il carbone, la pesca, l’agricoltura, la politica doganale con i Paesi terzi. Anche i dogmi degli equilibri di bilancio vengono dimenticati senza obiezioni in presenza di un interesse comune: basta pensare alla esclusione dall’ambito contabile della sfera pubblica delle Casse depositi e prestiti e di istituti analoghi.
I problemi della sfera pubblica europea nell’economia e nei servizi sono stati poco studiati. Fra questi, il tema dell’impresa europea di interesse generale è stato oggetto solo di alcuni contributi interessanti che non hanno ancora ricevuto lo sviluppo che meriterebbero.
Una più diffusa consapevolezza del carattere decisivo che ha la questione europea dovrebbe indurre gli studiosi a spostare l’attenzione concentrandola in misura crescente su studi, anche de jure condendo, e in un raffronto con le architetture già sperimentate di Stati federali, sugli istituti amministrativistici e di diritto costituzionale di un ordinamento complesso che, in termini di enti territoriali, va dall’Unione Europea ai comuni.
Si dovrebbe anche discutere, più di quanto si sia fatto finora, se la prospettiva di lungo periodo debba essere quella di una Unione di Stati o quella di una Federazione di grandi aggregati regionali.
È un problema di là da venire, ma impostarlo fin d’ora può avere l’effetto positivo di indurre a una posizione non ostile all’Europa quelle popolazioni che rivendicano una maggiore autonomia dagli Stati o vogliono separarsene. Del resto l’attuale ciclo storico sta vivendo una fase inversa a quella che otto secoli fa portò alla formazione degli Stati nazionali e all’esaurimento del potere sovranazionale dell’Impero e della Chiesa che, se non altro per la loro lontananza, consentivano alle singole zone autonomie più marcate.