Let me in immigration man! La canzone di Graham Nash di 40 e passa anni fa sembra raccontare la stessa storia in Europa e in America, con schiere di migranti che bussano alla porta di paesi già provati da otto anni di crisi economica e più recentemente spaventati dall’ondata di terrorismo low cost. Ma sono storie che non si somigliano neanche alla lontana. L’unico punto in comune è che di migranti si parla molto sui giornali, in tv e nei bar sia in America che in Europa, e che in tutte e due la percezione che prevale è la diffidenza se non la paura. Ma fatti e numeri raccontano due storie completamente diverse.
Cominciamo dall’America e da Donald Trump, che dell’immigrazione illegale e pericolosa ha fatto uno dei cavalli di battaglia della sua campagna elettorale. Con due obiettivi precisi. Da una parte il Messico, dall’altra gli islamici. Da nessuna delle due parti esistono pressioni migratorie particolari. Anzi. Dalla crisi in poi il saldo migratorio con il Messico è diventato negativo, sono più i messicani che tornano a casa di quelli che cercano di varcare la frontiera americana. E’ l’ultimo capitolo di una storia lunga. Dal 1980 al 2000 gli immigrati messicani in USA sono raddoppiati ogni 10 anni: nel 1980 erano poco più di due milioni, nel 1990 hanno superato i 4 milioni, nel 2000 sono arrivati a oltre 9 milioni. Poi il flusso ha rallentato, si arriva a 11 e passa milioni nel 2006, e si stabilizza sotto i 12 milioni negli anni successivi. Probabilmente è cambiata la qualità dell’immigrazione messicana, meno gente in cerca di lavoro pulito per inseguire il sogno americano e più gente legata al traffico di droga e simili. Non ci sono statistiche precise. La stabilizzazione e il saldo negativo sono il risultato di due fattori: la crisi economica, che ha ridotto l’offerta di lavoro soprattutto nell’edilizia, settore di destinazione da sempre della mano d’opera messicana, e una serie di accordi con il Messico che hanno funzionato. Per arrivare negli Stai uniti dal Centro e dal Sud America bisogna passare per il Messico, non c’è altro modo. E il Messico, ovviamente dietro importanti contropartite, come ad esempio investimenti produttivi, si è messo a fare da filtro, intercettando a Sud i migranti e rispedendoli a casa. La sua conformazione a imbuto, stretto a Sud e largo a Nord, ha aiutato il compito. Quindi perché The Donald ha deciso di giocare la carta messicana? I motivi probabilmente sono più di uno. Durante le primarie può aver giocato l’origine latina dei suoi rivali – da Cruz a Rubio – e avergli fatto gioco descrivere i latinos come sporchi, brutti e cattivi. Una volta conquistata la candidatura si è rigiocato la stessa carta in modo diverso, con la visita “presidenziale” a Mexico City, facendo capire che ha in mano le carte per negoziare con il suo non ancora omologo (che però lo riceve come se già lo fosse) Enrique Peña Nieto, un buon accordo con gli americani, con o senza muro. E poi c’è l’economia che non produce più reddito per la classe medio bassa bianca, che più scende nella scala sociale, più percepisce i chicanos come concorrenti. E non solo i bianchi, con la crisi anche i messicani con le carte in regola percepiscono i connazionali e gli altri latinos irregolari come pericolosi concorrenti, disposti a lavorare in nero a paghe più basse. Infine i messicani perché il corridoio Messico-Usa è l’unico canale utilizzabile per entrare illegalmente negli Stati Uniti, con il Canada a Nord e i due Oceani a Est e a Ovest. Gli islamici sono una componente residuale dell’immigrazione in America, ma la percezione del rischio terroristico è molto alta. Quindi un argomento a costo quasi zero che The Donald spende a piene mani.
L’Europa non ha la fortuna di avere un Messico alla frontiera Sud, dove invece c’è un Mediterraneo diventato Mare Vostrum su cui si affacciano territori che non sono più né stati né nazioni, e un Oceano a Est, dove invece ci sono i frantumi dell’Impero Sovietico, della ex Jugoslavia e di un Medio Oriente che sta andando in mille pezzi. Diciamo che su questa sponda dell’Atlantico il problema è più complicato. Anche perché i flussi di migranti non sono in cerca di lavoro per realizzare il Sogno Europeo. Sono alla ricerca di protezione e sussidi di sopravvivenza. Non mettono a rischio posti di lavoro europei, vendere le rose ai tavolini dei bar non è un’occupazione ambita, ma il loro girovagare improduttivo (destinato a rimanere tale per mancanza dei basic, lingua e un minimo di skill lavorative) per città e paesi d’Europa inquieta e preoccupa. La provenienza da aree di coltura del terrorismo e dell’estremismo aggiunge preoccupazione. Senza le immagini di Calais stracolma di profughi accampati in cerca di un camion su cui infilarsi per passare da clandestini la Manica ogni giorno in tv probabilmente la Brexit non avrebbe mai vinto il referendum. Non che la Gran Bretagna sia un paese chiuso all’immigrazione, tutt’altro. Ma un conto è farsi timbrare il biglietto dell’autobus da un controllore bengalese, o perfino, come Londra, avere un sindaco di origine pakistana, e un conto immaginare Trafalgar Square o la stazione di Kings Cross trasformate in accampamenti di sudanesi o afgani. Il controllo del territorio è una delle fondamenta di uno stato, e la crisi dei migranti ha dato la percezione che gli stati dell’Europa continentale l’avessero persa. Agli inglesi e anche agli altri europei che guardano la tv e si informano sui giornali e su internet. Solo che loro una porta con su scritto Exit, a differenza dei britannici, non ce l’hanno.
Sembra una situazione abbastanza complicata. Molto più complicata che in America. Una situazione che non sarà risolta dal Referendum di Renzi, e neppure dalle elezioni in Francia e in Germania l’anno prossimo. Gli europei hanno ancora molte opzioni aperte, a cominciare dalla riscrittura dei troppi trattati in un Testo Unico che somigli un po’ di più a una Costituzione e dalla costituzione di un qualche tipo di forza di polizia e di difesa unificata. L’importante è che le opzioni siano percorse in tempo, quando sono ancora percorribili, prima che arrivi un trauma che aggiusta le cose a modo suo, come fa una scossa di terremoto quando scarica le tensioni accumulate per decenni.