di Thomas Fazi
Sta facendo molto discutere la recente sentenza della Commissione europea nei confronti della Apple, con cui Bruxelles obbliga l’azienda di Cupertino a versare all’Irlanda 13 miliardi di euro (più interessi) di imposte arretrate. L’azienda statunitense è accusata di aver “evaso” il fisco europeo grazie ad una serie di accordi fiscali siglati col governo irlandese che le hanno permesso di eludere le imposte sulla quasi totalità degli utili generati dalle vendite dei suoi prodotti in Europa. In pratica, la Apple ha organizzato le vendite nel continente in modo tale che contrattualmente i clienti acquistassero i prodotti da una “sede centrale” registrata in Irlanda, piuttosto che nei paesi nei quali venivano venduti i prodotti. Così facendo, tutti gli utili venivano registrati in Irlanda, dove l’azienda beneficia da anni di un regime fiscale particolarmente generoso: questo ha permesso alla Apple di pagare sui propri utili un’aliquota effettiva che dall’1% del 2003 è via via scesa fino allo 0,005% del 2014.
La sentenza della Commissione ha incassato un plauso pressoché unanime. È comprensibile: il fatto che da anni gli Stati permettano, direttamente (con accordi espliciti, come in questo caso) o indirettamente (rinunciando a chiudere i paradisi fiscali o ad armonizzare le proprie politiche fiscali), alle grandi imprese transnazionali di pagare poco o nulla sui loro utili, mentre ai cittadini e ai lavoratori viene chiesto di accettare dolorosi tagli alla spesa pubblica, tasse più alte e salari più bassi perché “mancano i soldi”, è uno scandalo che grida vendetta. Basti pensare che secondo le stime della stessa Commissione europea il fenomeno dell’elusione e dell’evasione fiscale costerebbe agli Stati europei circa 1 trilione di euro l’anno: una cifra nettamente superiore al disavanzo pubblico complessivo dell’UE. Ovvio, dunque, che l’immagine della commissaria Vestager che brandisce lo scalpo della Apple abbia suscitato reazioni di giubilo da parte di molti, tanto a destra quanto a sinistra.
Ma siamo sicuri che tale entusiasmo bipartisan sia giustificato? Se andiamo a vedere, la Commissione non se l’è presa con l’Irlanda perché tassa poco le imprese sul suo territorio – come specificato nel comunicato stampa, infatti, «la decisione non mette in discussione il regime tributario irlandese in generale né l’aliquota dell’imposta sulle società applicata nel paese» – ma perché ha favorito una azienda in particolare (la Apple, appunto) rispetto alle altre. Infatti la legge impugnata dalla Commissione è proprio quella che vieta gli aiuti di Stato in quanto lesivi del “principio di libera concorrenza”: la stessa legge che impedisce all’Italia di ricapitalizzare le proprio banche, e a qualunque paese dell’UE di praticare una vera politica industriale.
Ora, gli aiuti di Stato in questione potranno anche non piacere – a me non piacciono –, ma qui è la libertà degli Stati di decidere le proprie politiche fiscali, industriali e occupazionali (l’azienda di Cupertino ha 6,000 dipendenti in Irlanda) in autonomia ad essere sotto attacco, non la Apple. E se invece della Apple gli sgravi fiscali avessero riguardato un’azienda che produceva tecnologia verde? O macchine elettriche? Insomma, la decisione della Commissione non rappresenta un passo in avanti verso l’armonizzazione fiscale – la concorrenza fiscale non selettiva, infatti, resta non solo ammessa ma implicitamente incoraggiata: non a caso Jean-Claude Juncker ne è stato un facilitatore per diversi anni nella veste di primo ministro del Lussemburgo – quanto piuttosto un’ulteriore limitazione della sovranità nazionale degli Stati che appartengono all’UE.
Si dirà che “le regole sono le regole”. Vero, ma non possiamo criticare le regole europee quando vengono usate per imporre agli Stati misure che non ci piacciono (come nel caso del bail-in) e applaudirle quando, viceversa, vengono impegnate per imporre misure a noi congeniali. Così come non possiamo lamentarci del “deficit democratico dell’Europa” un giorno e incoraggiarlo attivamente il seguente. È legittimo augurarsi, come fa Lorenzo Marsili, che le politiche fiscali degli Stati membri da ora in poi vengano determinate direttamente dalla Commissione europea. Ma non ci si lamenti se un domani la Commissione dovesse usare tali poteri per finalità meno “illuminate”: non dimentichiamoci, per esempio, delle dure critiche mosse dalla Commissione alla Francia, nel 2013, per aver deciso di ridurre il proprio disavanzo pubblico aumentando le tasse sui grandi patrimoni piuttosto che tagliando la spesa pubblica.
Per concludere, va bene gioire per la sentenza della Commissione. Ma che si capisca ciò per cui si sta gioendo.