di Salvatore Palidda
L’attenzione e talvolta la passione per lo studio dei diversi aspetti dei cambiamenti nel campo delle conoscenze sul pianeta Terra sono sempre state circoscritte alle cerchie degli archeologi, biologi, geologi, alcuni antropologi, mentre non hanno mai suscitato interesse fra le scienze politiche e sociali. Si sa, sin da Platone e Aristotele sino ai vari filosofi politici (Sant’Agostino, Ibn Khaldoun, Tommaso Moro, Machiavelli, Tommaso Campanella, Hobbes e Locke) e poi Durkheim e alcuni contemporanei, queste “scienze” sono state quasi sempre condizionate soprattutto dall’imperativo “prescrittivista”, cioè dalla pretesa di fornire “ricette” per “risolvere” i problemi dell’organizzazione politica della società. Spesso in nome della prosperità e posterità, della pace e persino della felicità “per tutti” (come la “giustizia uguale per tutti”).
La storia del mondo recente e anche l’attuale congiuntura, al contrario, mostrano sempre crescenti diseguaglianze, atrocità e genocidi. Più guerre che periodi di pace. La pretesa prescrittivista si è rivelata dunque fallimentare, se non peggio: visto che molto spesso le “scienze”, di fatto, hanno prodotto saperi utili ai dominanti, cioè i primi responsabili della riproduzione del peggio. La parresia – da Socrate a Foucault – è stata sempre osteggiata, o confinata in una nicchia concessa dal potere. Il quale si può permettere di essere criticato o dissacrato, anche perché di pari passo cresce sempre più l’asimmetria fra dominanti e dominati, ridotti oggi a qualche tentativo di resistenza spesso disperata o semplicemente all’impotenza, a fronte dell’erosione delle possibilità di agire politico (il caso della Grecia è assai eloquente e peggio è l’assenza di contrasto della tanatopolitica che l’UE pratica nei confronti dei migranti).
Di fronte al trionfo dei think tanks liberisti, le prospettive opposte si sono rivelate nei fatti tardive e infine perdenti, malgrado la crisi evidente in cui versa il modello liberista. Il quale sopravvive senza grandi intralci proprio perché non si concretizza un’alternativa capace di affermarsi. Un sostegno considerevole è stato offerto dai tanti scienziati politici e sociali convertitisi alla causa liberista. Si pensi per esempio alla legittimazione delle “guerre umanitarie”, della “tolleranza zero” o anche al mito dei distretti, del made in Italy e della “terza Italia” – senza mai tener conto degli “effetti collaterali” delle economie sommerse, come le neo-schiavitù, gli intrecci tra economia formale, informale e criminale, la necessaria corruzione e le vittime costrette alla complicità.
Ma proprio quando pare che si stia “toccando il baratro”, ecco che appare una reazione rivoluzionaria. Fra i pochi suoi esponenti c’è Bruno Latour: e non è un caso, perché da tempo la sua ricerca tende a superare le frontiere disciplinari, spaziando in un universo di conoscenze comparabile a quello che sperimentava Leonardo da Vinci. Dopo Cogitamus del 2010, Latour ha cominciato a scandagliare sempre più la cosiddetta “crisi ecologica”. Presentando il suo ultimo lavoro (Face à Gaïa. Huit Conférences sur le nouveau régime climatique)[1], Latour osserva che la «posta in gioco ecologica» e lo sconvolgimento climatico sono tali da «trasformare ciò che sarebbe potuta essere una crisi passeggera in una profonda alterazione del nostro rapporto col mondo. Si sarebbe potuto agire trenta o quarant’anni fa ma non s’è fatto nulla o molto poco… Strana situazione l’aver oltrepassato una serie di soglie, l’aver traversato una guerra totale e non essersi accorti quasi di nulla!». Si può obiettare che sono appunto – e non a caso – le autorità economiche e politiche, ma con loro anche quasi tutti gli scienziati politici e sociali, a non essersene accorti o ad aver volutamente ignorato questa guerra di distruzione del pianeta prediligendone altre. È però importante che Latour arrivi ad affermare che «Gaia irrompe sulla scena politica e umana».
Come mostra un saggio della rivista Nature, citato da Latour, l’attuale era geologica prende il nome di Antropocene appunto perché segnata dall’impronta degli esseri umani sull’equilibrio del pianeta; le attività umane sono divenute le cause principali delle modifiche economiche, ambientali, sociali, ecc. L’articolo di Nature mostra infatti come diversi recenti studi sui tempi dei grandi mutamenti geologici provino che l’Antropocene cominci dalla metà del XX secolo (secondo alcuni in periodi precedenti). In effetti, dal 1950 si sono verificati mutamenti sconvolgenti: sono state costruite due terzi delle più grandi dighe (le quali com’è noto hanno distrutto l’equilibrio ecologico di enormi territori), sono state perpetrate deforestazioni e cementificazioni senza scrupoli, si è abusato dell’acqua, fertilizzanti e pesticidi hanno avuto effetti devastanti, c’è stato un aumento enorme dell’ossido di carbonio (a causa delle auto e dell’abuso di petrolio e derivati per la produzione di energia), della radioattività (esperimenti e centrali nucleari) e dei rifiuti tossici; insomma sono stati inquinati senza pietà l’aria, la terra, le acque e i mari.
Ma la cosa più importante che dice Latour è che «siamo in una situazione di guerra»: e infatti nel 2007 al Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, congiuntamente ad Al Gore, è stato attribuito il premio Nobel della Pace, non della Chimica o della Fisica. Per Latour l’unico modo di reagire è far entrare l’Antropocene nell’arena politica. Non basterà però una minaccia così evidente, a far capire come sia necessario «rifare» la politica se si vuole evitare un “requiem per la specie umana”, per dirla col titolo del libro di Clive Hamilton[2]. C’è però una grande differenza tra la risposta alla minaccia che dà il potere politico e quella che auspica la conoscenza (o la scienza nell’accezione ampia, soprattutto quando non embedded col potere). Si pensi per esempio alla differenza fra la rapida e folle corsa agli armamenti innescata con la guerra fredda e quella dei pochi politici impegnati nei negoziati sul clima. Centinaia di miliardi di dollari sono stati spesi per gli armamenti atomici in risposta a una minaccia che, nella migliore delle ipotesi, le informazioni acquisite dall’intelligence davano per poco probabile, mentre la minaccia causata dallo sconvolgimento antropico dell’equilibrio ecologico e climatico è perfettamente conosciuta e largamente documentata.
Come osservano ricercatori da anni impegnati negli studi su tali sconvolgimenti[3], gli ultimi cinquant’anni hanno visto un terribile aumento della gravità, della frequenza e delle vittime dei disastri sanitari e ambientali, parallelamente allo stabilizzarsi di una condizione di guerra permanente, all’aumentata distanza fra ricchezza e povertà (in Africa, India e America Latina si trova solo il 5% circa della ricchezza mondiale – si veda il Global Wealth Report del 2015) e all’incremento delle neo-schiavitù e delle migrazioni irregolari causate dal proibizionismo dei paesi ricchi per le loro cosiddette economie sommerse che si nutrono di neo-schiavi[4].
L’analisi della “situazione di guerra”, e delle scelte e pratiche del governo della sicurezza, mostrano con evidenza come il liberismo trionfante abbia utilizzato strumentalmente alcune minacce e insicurezze reali, o presunte tali, in una gigantesca distrazione di massa – tale da occultare le insicurezze che colpiscono la maggioranza della popolazione. Queste insicurezze ignorate sono appunto i rischi di disastri sanitari e ambientali (per primo la diffusione della mortalità e malattie da tumori, oltre che di incidenti e malattie professionali spesso non denunciati) e le conseguenze delle economie sommerse fra le quali le neo-schiavitù. La storia dell’umanità è segnata da disastri di ogni genere e tipo, ma il “disastro” per antonomasia – tanto per numero di vittime che dal punto di vista dei danni materiali – è la guerra. Non è quindi casuale che il lessico della guerra pervada anche le osservazioni dei geologi, dei biologi, della ricerca nel campo delle scienze della terra e ovviamente i giornalisti a caccia di scoop (si pensi alle “bombe d’acqua” o alla “guerra delle alluvioni”). E allora perché non considerare anche i disastri sanitari-ambientali, crimini contro l’umanità?
Come prevedibile, però, la logica del liberismo non si arrende di certo, a fronte del crescere della sensibilità nei confronti di un possibile “requiem per l’umanità”. I programmi di ricerca nel campo della prevenzione dei rischi, in Europa e altrove, stanno riciclando quanto già perseguono nel campo militare e di polizia (si pensi all’adozione dei droni in ogni campo. Sistemi satellitari sofisticati, radar e sensori, dispositivi “postmoderni”, nuovi megaprogetti di diverse discipline: il tutto spesso incardinato nel settore di ricerca controllato dalla lobby finanziario-militare-poliziesca (in Italia, per esempio, da Finmeccanica in joint venture con companies statunitensi[5]). In parallelo, uno stuolo di psicologi predicano la resilienza, intesa come apprendimento delle capacità individuali di adattarsi alle situazioni di rischio, ai disastri, alle catastrofi, ecc. S’è imposto da tempo un nuovo business della sicurezza, in nome della prevenzione delle catastrofi, asservendo la Protezione civile anche alle opere speculative (si pensi al caso Katrina e, da noi, alla vicenda dell’Aquila).
Invece nessun programma di risanamento delle situazioni a rischio viene promosso dalle autorità economiche e politiche; ancorché sia ben noto che senza questo e le indispensabili bonifiche non potrà mai darsi una prevenzione adeguata. Eppure un serio programma di risanamento potrebbe creare centinaia di migliaia di posti di lavoro, oltre che un futuro sostenibile. Una parte della popolazione è complice: irretita dal discorso dominante, da piccole concessioni di privilegi, o illusioni di ottenerne, da parte delle agenzie di controllo, delle forze di polizia e delle autorità locali. Le vittime sono prive di tutela, subiscono passivamente. E a volte sono persino complici dei loro carnefici. Il disastro sanitario-ambientale s’è compiuto, si ripete e ovviamente si aggrava: non solo perché gli attori dominanti non intendono rinunciare al continuo aumento dei loro profitti mercé speculazioni di ogni sorta e sulla pelle di chiunque. Lo scandalo Volkswagen si chiuderà con la riparazione delle auto “infette”, ma senza alcuna sanzione per i danni arrecati dall’inquinamento; a fronte del dramma dei profughi verranno elargiti un po’ di fondi alle tante ONG (a volte corrotte), senza mettere in discussione la produzione e il commercio di armi che alimenta le guerre permanenti e l’ISIS, né un solo pensiero per i disastri economici e ambientali patiti dalle zone di esodo. Anzi, s’è arrivati al colmo di dare sei miliardi al dittatore Erdogan che imita Mussolini per smaltire lui coi suo modi spicci i profughi siriani i cui bambini sono in parte schiavizzati in Turchia.
Appare quindi assai alto il rischio che l’umanità soccomba per mano liberista (poiché prevale la logica della prosperità dei pochi hic et nunc, anche a discapito della posterità del mondo). La governance degli affari militari e di polizia che pervade la sanità pubblica e la protezione civile rischia di condurre a una nuova versione della tanatopolitica. Neanche un anno dopo il COP21 l’abbandono degli impegni presi dalle principali potenze inquinati è palese e appare sbagliato aver parlato di crimini climatici[6] quando invece si tratta di crimini contro l’umanità. Ma finché la vita continua ci sarà sempre lotta per la sopravvivenza, e quindi resistenza contro la distruzione liberista non-creativa. Ce l’hanno insegnato i nostri partigiani: anche quando tutto sembra perduto, si può resistere e – sebbene per poco tempo – vincere.
Nell’attuale tragica congiuntura appare evidente che l’unica possibilità di agire per la res publica, quindi per il bene e la vita stessa dell’umanità, è di ostinarsi a praticare azioni comuni fra abitanti, professionisti del risanamento, della prevenzione e dei controlli e anche ricercatori di tutte le discipline(ma non collusi coi poteri).
Pubblicato su Effimera il 19 agosto 2016.
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Note
[1] Paris, Éditions La Decouverte, 2015. Vedi articolo e video e anche la conferenza al museo del quai Branly, “L’anthropocène: nouvelle époque géologique marquée par l’action humaine”. Interessante il modo in cui essa viene presentata: “conferenza teatrale di Bruno Latour, antropologo delle scienze, direttore di Médialab di Sciences Po e del master sperimentale in arti politiche, con la complicità della compagnia AccenT”. Per una versione inglese, vedi qui.
[2] Clive Hamilton, Requiem for a species. Why we resist the truth about a climate change, London, Earthscan, 2010.
[3] Fra gli altri vedi: La mondialisation des risques, a cura di Soraya Boudia ed Emmanuel Herny, Presses Universitaires de Rennes, 2015.
[4] Cfr. Governance of Security and Ignored Insecurities in Contemporary Europe, (qualche parte è in italiano nel seguente volume. Si veda anche Il silenzio della polvere. Capitale, verità e morte in una storia meridionale di amianto, a cura di Antonello Petrillo, Milano, Mimesis, 2015 (e video qui); Fukushima, Concordia e altre macerie. Vita quotidiana, resistenza e gestione del disastro, a cura di Pietro Saitta, Firenze, ED.IT, 2015; Lasciar morire, Mimesis, 2016 (qui estratto).
[5] Vedi su Alfabeta: “Escalation della guerra permanente” e qui.
[6] Come ad esempio fa Naomi Klein.