di Martin Jacques
La crisi finanziaria occidentale del 2007-08 è stata la peggiore dal 1931, eppure le sue immediate ripercussioni sono state sorprendentemente modeste. La crisi ha messo in discussione i fondamenti dell’ideologia neoliberale, ma pare che questa sia rimasta ampiamente illesa. Le banche sono state salvate; ma su entrambe le sponde dell’Atlantico quasi nessun banchiere è stato perseguito per i suoi misfatti. La politica economica che ne è seguita, specialmente nel mondo anglosassone, ha fatto affidamento soprattutto sulla politica monetaria, in particolare sul quantitative easing. Ciò non ha funzionato.
La stagnazione delle economie occidentali, di cui non si intravede la fine, sta per tagliare il traguardo di un decennio perduto.
Dopo quasi nove anni, però, si comincia finalmente a cogliere il disastro politico della crisi finanziaria. Ma come ha fatto il neoliberismo a sopravvivere praticamente illeso tanto a lungo? Nonostante abbia fallito alla prova dei fatti, consegnando il peggior disastro economico degli ultimi ’70 anni, dal punto di vista politico e intellettuale è rimasto l’unico attore sulla scena. I partiti di destra, di centro e di sinistra sono tutti stati conquistati dalla sua filosofia, con il New Labour in testa. Non hanno trovato altro modo di pensare e di agire: il neoliberismo è diventato senso comune. È diventato, come avrebbe detto Gramsci, egemonico. Ma questa egemonia non può sopravvivere e non sopravvivrà alla prova dei fatti.
La prima avvisaglia dell’impatto politico della crisi fu la svolta dell’opinione pubblica contro le banche, i banchieri e gli uomini d’affari. Per decenni, sembrava che questi non potessero sbagliare: erano celebrati come i modelli da seguire della nostra era, i risolutori dei problemi nella scelta dell’istruzione, della salute e di tutto il resto. Ora, pare, la loro stella è in declino, insieme a quella della classe politica. La crisi finanziaria ha avuto l’effetto di minare la fiducia nella competenza delle élite di governo. Ha segnato l’inizio di una crisi politica più ampia. Ma le cause della crisi politica, evidentissima su entrambe le sponde dell’Atlantico, sono più profonde rispetto alla crisi finanziaria e alla debole ripresa dell’ultimo decennio. Vanno al cuore del progetto neoliberale, che risale ai tardi anni ’70 e all’ascesa politica di Reagan e di Thatcher, abbracciando il nucleo ideale del libero mercato globale dei beni, dei servizi e dei capitali. Negli USA nel 1990 e in Gran Bretagna nel 1986, è stato smantellato il sistema di regolamentazione bancaria che risaliva all’era della depressione, creando così le condizioni per la crisi del 2008. L’eguaglianza è stata mortificata, la teoria dell’effetto sgocciolamento (trickle-down theory) è stata celebrata, i governi sono stati condannati come fossero un peso per i mercati e il loro ruolo è stato debitamente sminuito, l’immigrazione è stata incoraggiata, la regolamentazione è stata ridotta al minimo, le tasse sono state tagliate, e si è fatto finta di non vedere l’evasione da parte delle imprese.
Va notato che, in un confronto storico, l’epoca neoliberale non ha avuto un andamento particolarmente buono. Il periodo più dinamico di crescita nel dopoguerra è stato quello fra la fine della guerra e i primi anni ’70, l’era del welfare e del keynesismo, quando il tasso di crescita è stato doppio rispetto al periodo neoliberale, che va dal 1980 a oggi. Da allora la caratteristica più disastrosa del periodo neoliberale è stata l’enorme crescita della disuguaglianza. Fino ai tempi recenti, ciò è stato praticamente ignorato. Con una velocità straordinaria, comunque, ciò è emerso come uno dei più importanti, se non il più importante, argomento politico su entrambe le sponde dell’Atlantico.
È, chiaramente, il problema alla base del malcontento politico che sta inghiottendo l’Occidente. Viste le prove statistiche, è sorprendente, persino traumatico, che il problema sia stato ignorato tanto a lungo; l’unica spiegazione può trovarsi nel potere dell’egemonia neoliberale e dei suoi valori. Ma ormai la realtà ha avuto il sopravvento, demolendo il piano ideale della dottrina neoliberista. Nel periodo 1948-1972, ogni ceto sociale americano ha conosciuto miglioramenti simili e proporzionati della propria qualità di vita; tra il 1972 e il 2013, il 10% in fondo alla scala sociale ha visto cadere il proprio reddito reale, mentre il 10% più abbiente se l’è passata molto meglio. Negli USA, il reddito reale medio per un lavoratore a tempo pieno è oggi inferiore rispetto a quattro decenni fa: il reddito del 90% della popolazione è rimasto stagnante per oltre trent’anni. Un quadro simile si riscontra nel Regno Unito. E il problema si è aggravato dopo la crisi finanziaria. In media, il 65-70% delle famiglie nei 25 paesi più sviluppati hanno visto, fra il 2005 e il 2014, il loro reddito ristagnare o calare. Le ragioni si spiegano facilmente. L’era dell’iper-globalizzazione ha sistematicamente giocato a favore del capitale e a scapito del lavoro: accordi commerciali internazionali siglati in gran segreto, come il Trans-Pacific Partnership (TPP) e il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), con la partecipazione degli affaristi e l’esclusione dei sindacati e dei cittadini, sono solo gli ultimi esempi; l’attacco politico-legale ai sindacati; l’incoraggiamento dell’immigrazione su larga scala sia in Europa che negli USA, che ha contribuito a minare il potere contrattuale della forza lavoro locale; e il fallimento dei programmi per riqualificare in modo significativo i lavoratori rimasti disoccupati.
Come ha mostrato Thomas Piketty, senza pressioni contrarie il capitalismo tende naturalmente a un incremento delle disuguaglianze. Nel periodo fra il 1945 e la fine degli anni ’70, la guerra fredda è stata probabilmente il maggior vincolo in tal senso. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica non ne è rimasto alcuno. Man mano che la reazione negativa della gente cresce inesorabilmente, comunque, un regime del genere “chi vince prende tutto” diventa politicamente insostenibile. Ampi strati della popolazione negli USA e nel Regno Unito si stanno ribellando al loro fato, come dimostrato dal sostegno ricevuto da Trump e Sanders negli USA e dal voto inglese per la Brexit. La rivolta della gente è spesso descritta in modo denigratorio e sbrigativo, ed etichettata come populismo. Oppure, come descritto da F. Fukuyama in un eccellente saggio per Foreign Affairs: le élite politiche etichettano come populiste le politiche che i normali cittadini sostengono solo perché sono a loro sgradite. Il populismo è un movimento che si oppone allo status quo. Rappresenta l’inizio di qualcosa di nuovo, anche se in genere è più chiaro ciò cui si oppone di ciò per il quale si batte. Può essere progressista o reazionario, ma spesso è entrambe le cose.
La Brexit è un classico esempio di populismo. Ha capovolto una pietra angolare della politica britannica che risaliva ai primi anni ’70. Riguarda ovviamente l’Europa, ma è qualcosa di più: un “cri de coeur” di quelli che sentono di essersi smarriti e di essere rimasti indietro, quelli la cui qualità di vita è rimasta uguale o è peggiorata dal 1980, che si sentono scalzati dall’immigrazione su vasta scala e sulla quale non hanno controllo, che hanno davanti as sé una insicurezza crescente e un mercato del lavoro sempre peggiore. La loro rivolta ha paralizzato l’élite di governo, che ha già cambiato il primo ministro, mentre gli altri sono rimasti a brancolare nel buio in attesa di un’ispirazione divina.
L’onda del populismo segna il ritorno delle questioni di classe, negli USA come nel Regno Unito. Ciò è particolarmente evidente negli USA. Per molti decenni l’idea di classe lavoratrice è rimasta ai margini del discorso politico. Molti americani si consideravano classe media: una conseguenza dell’aspirazione che sta al cuore della società americana. Secondo un sondaggio Gallup, nel 2000 solo il 33% degli americani si considerava facente parte della classe lavoratrice; nel 2015 la cifra è salita al 48%, quasi la metà della popolazione. Anche la Brexit è stata in primo luogo una rivolta della classe lavoratrice. Ma finora, su ambo le sponde dell’Atlantico, le questioni di classe sono rimaste in secondo piano davanti all’emergere di questioni legate a nuove identità di genere, di razza e di orientamento sessuale, o alle questioni ambientali.
Ma è il ritorno delle questioni di classe, per la loro effettiva portata, ad avere il potenziale di ridefinire il panorama politico. Il ritorno della classe non va confuso con il movimento dei lavoratori. I due termini non sono sinonimi: è già evidente negli USA e lo sta diventando nel Regno Unito. In effetti, nell’ultimo mezzo secolo, nel Regno Unito vi è stata una spaccatura sempre crescente. Il ritorno della classe lavoratrice come voce politica nel Regno Unito può essere meglio definito come un’espressione embrionale di protesta e di risentimento, con un debole senso di appartenenza al movimento dei lavoratori. L’UKIP ha influenzato questo movimento tanto quanto il Partito Laburista. Negli USA, sia Trump che Sanders hanno dato espressione al disagio della classe lavoratrice, il secondo più del primo. La classe lavoratrice non appartiene a nessuno: il suo orientamento, lungi dall’essere predeterminato, come piace al pensiero di sinistra, è una funzione della politica.
La minaccia all’era neoliberale viene da due direzioni: primo, la crescita economica, che non è mai stata particolarmente robusta, è ora deprimente. L’Europa è poco oltre rispetto a dove si trovava prima della crisi del 2007; gli USA hanno fatto un po’ meglio, ma la crescita è comunque anemica. Economisti come Larry Summers vedono, in prospettiva futura, una situazione di stagnazione secolare. Ma il peggio è che, con una ripresa così debole, molti credono nella probabilità dell’arrivo di una nuova crisi finanziaria. In altre parole, l’era neoliberale ha ricacciato l’Occidente nel tipo di crisi che non si vedeva dagli anni ’30. Non è sorprendente che la maggior parte della gente pensi che i suoi figli staranno peggio di quanto non stesse essa stessa qualche tempo fa.
Secondo, i perdenti dell’era neoliberale non sono più disposti a rassegnarsi dinanzi al loro destino, sono sempre più in aperta rivolta. Siamo testimoni della fine dell’epoca neoliberale. Non è ancora morta ma cominciano gli spasimi, come è stato per la socialdemocrazia negli anni ’70. Un segnale inequivocabile dell’influenza in declino del neoliberalismo è il coro di voci di intellettuali che si levano contro di esso. Dalla metà degli anni ’70 in poi, il dibattito economico è stato dominato dai fautori del monetarismo e del libero mercato. Ma dall’avvento della crisi finanziaria il centro di gravità del dibattito si è notevolmente spostato. Si è visto soprattutto negli USA, dove economisti come Stiglitz, Paul Krugman, Dani Rodrik and Jeffrey Sachs hanno aumentato la loro influenza. Thomas Piketty, con Capital in the Twenty-First Century, ha venduto moltissimo. Il suo lavoro, insieme a quello di Tony Atkinson e di Angus Deaton, ha sollevato la questione dell’ineguaglianza e l’ha spinta nell’agenda politica. Nel Regno Unito, Ha Yoon Chang, a lungo isolato fra gli economisti, ha conquistato un seguito molto superiore rispetto a coloro che considerano l’economia una branca della matematica. Nel mentre, molti di quelli che venivano considerati fieri sostenitori del neoliberalismo come Larry Summers e Martin Wolf del Financial Times, si sono ritrovati su posizioni molto critiche.
Il vento soffia a favore dei critici del neoliberalismo. I neoliberali e i monetaristi sono in ritirata. In Gran Bretagna, i media e il mondo politico sono piuttosto indietro. Pochi riconoscono che siamo alla fine di un’era. Vecchie abitudini e presupposti continuano a predominare, nel programma della BBC Today come nella stampa di destra e nel Partito Laburista in Parlamento. Dopo le dimissioni di Ed Milliband da leader del Labour, pochi avevano previsto il trionfo di Jeremy Corbyn alle elezioni per la guida del partito. Ci si aspettava più o meno qualcuno come un blairiano o una via di mezzo come Milliband, ma non uno come Corbyn. Ma lo zeitgeist è cambiato. Gli iscritti, specialmente i giovani che si sono arruolati numerosi nel partito, hanno voluto una rottura completa con il New Labour. Una delle ragioni per cui la sinistra non si è rivelata la guida della classe lavoratrice dopo l’emersione in questa del sentimento di delusione, è che la maggior parte dei partiti socialdemocratici sono diventati, con varie sfumature, discepoli del neoliberalismo e dell’iper-globalizzazione. Le forme estreme del fenomeno sono stati il New Labour ed i Democratici americani, che dalla fine degli anni ’90 ne sono divenuti l’avanguardia, nelle persone di Tony Blair e di Bill Clinton.
Ma come ha notato David Marquand, qual è lo scopo di un partito socialdemocratico se non rappresenta i meno fortunati, i meno privilegiati e i perdenti? Il New Labour ha abbandonato i più bisognosi, coloro che dovrebbe rappresentare. Perché ci sorprendiamo se molti abbiano abbandonato il partito che li ha abbandonati? Blair, nella sua seconda vita di consulente (ossessionato dai soldi) di dittatori e presidenti semisconosciuti, è un perfetto testamento del decesso del New Labour. I contendenti rivali, Burnham, Cooper e Kendall, rappresentavano la continuità. Sono stati sbaragliati da Corbyn, vincitore con quasi il 60% dei voti. Il New Labour è finito, come il pappagallo di Monty Python. Pochi hanno afferrato il significato di ciò che è successo. Un recente editoriale del Guardian applaudiva all’aumento delle iscrizioni al partito, ma poi esprimeva sostegno per Yvette Cooper, l’antitesi di ciò che sta alla base del rinnovato entusiasmo della base. L’ala parlamentare del partito non ha mai accettato il risultato ed ha fatto di tutto per far dimettere Corbyn.
Così come il Partito Laburista impiegò molto tempo per venire a patti con l’ascesa del thatcherismo e con l’arrivo della nuova era alla fine degli anni ’70, ora non riesce a capire che il paradigma thatcheriano, abbracciato con il New Labour, ha finito il suo corso. Il Labour, come chiunque altro, deve ripensarsi. Gli iscritti, che osteggiano il New Labour, si sono rivolti a qualcuno che non aveva mai accettato il New Labour, che è stato agli antipodi rispetto a Blair e che incarna una autenticità e una decenza che Blair, palesemente, non aveva. Corbyn non è un prodotto del nuovo tempo, viene dalla fine degli anni ’70. Questa è la sua forza e, al contempo, la sua debolezza. È incontaminato rispetto al lascito del New Labour, che infatti non ha mai accettato. Ma sembra, tuttavia, non riuscire a capire la natura della nuova era. Il pericolo è che abbia i piedi d’argilla in quello che è un ambiente politico molto fluido e imprevedibile.
Il Labour è in trattamento intensivo, ma il Partito Conservatore non sembra in condizioni migliori. David Cameron è colpevolmente responsabile di un madornale errore di calcolo riguardo alla Brexit. È stato costretto ad andarsene in condizioni ignominiose. Il partito è irrimediabilmente diviso. Non sa in che direzione muoversi. I sostenitori della Brexit hanno dipinto un quadro roseo dato dalla rinuncia al mercato unico europeo e dall’abbraccio dei mercati globali in espansione, anche se non nominano di quali paesi. Il nuovo primo ministro pare avere una anacronistica ostilità verso la Cina e pare desiderosa di disfare quanto di buono aveva fatto John Osbourne. Se il governo volta le spalle alla Cina, tuttora il mercato in maggiore espansione, a chi si rivolgerà?
La Brexit ha lasciato il paese profondamente diviso, con la prospettiva che la Scozia possa scegliere l’indipendenza. Intanto, sembra che i conservatori non si siano accorti dell’agonia dell’era neoliberale.
Gli eventi britannici, per quanto drammatici, non sono confrontabili con quelli americani. Praticamente dal nulla, Donald Trump ha ottenuto la candidatura repubblicana e ha praticamente confuso tutti i sapientoni nonché lo stesso partito. Il suo messaggio è inequivocabilmente antiglobalizzazione. Crede che gli interessi della classe lavoratrice siano stati sacrificati a favore delle grandi imprese incoraggiate a investire nel mondo, lasciando così i lavoratori americani disoccupati. Dice inoltre che l’eccessiva immigrazione ha indebolito il potere contrattuale dei lavoratori americani e fatto diminuire i loro salari. Propone che alle imprese USA venga richiesto di investire le loro riserve liquide in patria. Crede che il NAFTA (North American Free Trade Agreement) abbia avuto l’effetto di portare il lavoro in Messico. Similmente, si oppone al TTP e al TTIP. Accusa la Cina di rubare i posti di lavoro all’America, e minaccia di imporre dazi del 45% sulle importazioni cinesi.
Trump contrappone il nazionalismo economico alla globalizzazione. «L’America al primo posto». Il suo richiamo è rivolto prevalentemente ai lavoratori bianchi i quali, prima che Trump (ma anche Sanders) salisse sulla scena, sono stati dal 1980 ignorati e sottorappresentati. È senz’altro straordinario, dato che i loro stipendi sono calati negli ultimi quarant’anni, il fatto che i loro interessi siano stati costantemente trascurati dai politici. Col passare del tempo, i loro voti sono passati ai repubblicani, ma questi sono rimasti catturati dai super ricchi di Wall Street, i cui interessi, da iper-globalizzatori quali sono, sono diametralmente opposti a quelli dei lavoratori bianchi. Con l’arrivo di Trump hanno trovato un rappresentante e l’hanno elevato alla candidatura repubblicana per le elezioni presidenziali.
L’argomento del nazionalismo economico è stato inseguito con forza anche da Bernie Sanders, che ha conteso la candidatura democratica a Hillary Clinton, mancandola di poco, tanto che se non fosse stato per i 700 cosiddetti super-delegati, in realtà scelti dalla macchina democratica e schierati con Clinton, avrebbe vinto. Come i repubblicani, i democratici hanno a lungo sostenuto una strategia neoliberale e pro-globalizzazione, mettendo da parte i sindacati che erano la loro base. Sia i repubblicani che i democratici si ritrovano ora polarizzati fra pro e anti globalizzatori, uno sviluppo totalmente nuovo, che non si vedeva da quarant’anni, cioè dall’avvento di Reagan e del neoliberismo.
Altro asse del messaggio nazionalista di Trump è «rifare grande l’America» in politica estera. Crede che l’aver seguito lo status di grande potenza abbia sperperato le risorse della nazione. Dice che il sistema di alleanze del paese è improprio, con l’America che sopporta i costi maggiori e gli alleati che contribuiscono solo marginalmente. Se la prende con il Giappone, con la Corea del Sud e con i membri europei della NATO. Quindi bisogna rilanciare queste relazioni internazionali, e, se impossibile, uscire dalle relative organizzazioni. Da paese in declino, sostiene che gli USA non possono permettersi un tale onere finanziario. Piuttosto che portare i diritti nel mondo, crede che i soldi vadano investiti in patria, puntando sullo scadente stato delle infrastrutture.
La posizione di Trump rappresenta una pesante critica all’egemonia americana nel mondo. È una rottura radicale con l’ideologia neoliberale e iper-globalizzatrice che ha regnato dagli anni ’80 e con l’ortodossia in politica estera osservata dal dopoguerra ad oggi. Sono argomenti da trattare seriamente. Non devono essere trascurati solo perché provengono dalla bocca di Trump. Trump non è un uomo di sinistra. È un populista di destra. Ha lanciato un attacco razzista e xenofobo ai musulmani e ai messicani. Attrae la classe lavoratrice bianca che è stata ingannata dalle grandi imprese, minacciata dall’immigrazione ispanica e piena di risentimento verso gli afro-americani, che molti di loro hanno considerato a lungo come inferiori. Un America consegnata a Trump segnerebbe una discesa nell’autoritarismo caratterizzato dalla paura, dalla discriminazione, dal razzismo, dall’arbitrio e dalla violenza: l’America diverrebbe una società polarizzata e divisa. La sua minaccia di porre tariffe del 45% sulle importazioni dalla Cina provocherebbe ritorsioni e annuncerebbe il principio di un’era di protezionismo.
Trump potrebbe perdere le presidenziali come Sanders ha perso la sua scommessa alla candidatura per i democratici. Ma questo non vuol dire che le forze che si oppongono all’iper-globalizzazione, all’immigrazione, al TTIP e al TPP, e al libero spostamento dei capitali avranno perso e declineranno. In poco più di 12 mesi Trump e Sanders hanno trasformato la natura e i termini dei problemi. Lungi dal declino, gli argomenti dei critici dell’iper-globalizzazione guadagnano terreno. Circa due terzi degli americani ritengono che «non dovremmo pensare troppo a questioni internazionali ma concentrarci di più sui nostri problemi nazionali». In particolare, sarà la disuguaglianza che continuerà a guidare l’opposizione agli iper-globalizzatori.
Pubblicato sul Guardian il 21 agosto 2016. Traduzione di Sergio Farris rivista da Thomas Fazi.