di Alessandro Somma
Recentemente è uscito per Rubbettino Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, traduzione in italiano dell’opera incompiuta del prematuramente scomparso Peter Mair, dedicata alla crisi della partecipazione popolare alla vita politica. L’errore dell’autore sta tuttavia nella indebita separazione dell’analisi del livello politico della crisi da quella del livello economico.
Peter Mair, politologo irlandese di fama mondiale, è scomparso prematuramente nel 2011, quando stava lavorando a un volume sulla crisi della partecipazione popolare alla vita democratica come fenomeno tipico delle società occidentali. L’opera è rimasta dunque incompiuta, ma è stata integrata con altri interventi dell’autore e pubblicata su iniziativa della New Left Review: il prestigioso periodico della sinistra postmarxista che già aveva ospitato un ampio contributo di Mair anticipatore delle principali tesi poi sviluppate nel libro[1]. Di quest’ultimo è da poco uscita una traduzione italiana per i tipi di Rubbettino[2], la piccola ma vivace casa editrice nota soprattutto come amplificatrice del pensiero neoliberale.
Ci si potrebbe stupire di questa curiosa osmosi tra esperienze culturali di matrice non proprio assimilabile, ma a bene vedere il volume di Mair ben può metterle d’accordo entrambe. Compatibile con le opposte visioni postmarxista e neoliberale è infatti la riflessione sulla fine del partito di massa, all’origine del vuoto evocato nel titolo del libro, e in particolare la descrizione di ciò che il partito politico è diventato: un centro di potere sradicato dalla società, proiettato verso lo Stato e il governo, e in ultima analisi incapace di alimentare l’ordine democratico. Il discorso potrebbe a questo punto divenire incompatibile con il punto di vista neoliberale, giacché fondativa dell’identità occidentale è la commistione di capitalismo e democrazia, motivo per cui le trasformazioni nella sfera politica difficilmente possono spiegarsi senza riferimenti a quanto avviene nella sfera economica: senza una critica alle teorie e pratiche neoliberali. Questo, però, è esattamente il passaggio mancante nel libro di Mair, e ciò lo rende coerente con la sua collocazione editoriale.
Eppure il politologo irlandese dedica non poche riflessioni al contesto europeo, nel quale ritiene anzi che la crisi della democrazia si sia manifestata in modo particolarmente cruento. E proprio il contesto europeo offre numerosi riscontri di come la restrizione del perimetro affidato alla democrazia sia una funzione dell’estensione di quello rivendicato, o meglio invaso, dal mercato. Il tutto mettendo in luce le responsabilità delle forze politiche che, dopo aver speso decenni per costruire il compromesso keynesiano, si sono poi rese fedeli interpreti della dogmatica neoliberale.
Il volume di Mair, che pure dedica alcune pagine al panorama partitico europeo, omette anche l’approfondimento di questi aspetti. Lasciando così al lettore l’impressione di aver ricevuto un interessante panoramica su alcune malattie dell’ordine politico occidentale, non seguita però da una diagnosi convincente, né tanto meno da una credibile proposta di cura: il vuoto viene forse individuato, ma senza una considerazione per le vicende dell’ordine economico le possibilità di un suo governo non sono neppure lontanamente apprezzabili.
Dal government alla governance
Mair illustra le trasformazioni della sfera politica ricorrendo ai concetti di democrazia popolare e democrazia costituzionale. La prima, definita come “governo da parte del popolo”, allude alla partecipazione dei cittadini in particolare attraverso l’elezione dei loro rappresentanti. La seconda concerne invece il “governo per il popolo” realizzato in forme che prescindono dal momento elettorale e dunque dalla sovranità popolare, concernendo innanzi tutto un controllo procedurale sul processo decisionale: ad esempio quello assicurato dalle corti o da non meglio definite autorità indipendenti. Il partito di massa poteva alimentare entrambe le forme di democrazia, ma le cose sono nel tempo cambiate: «le funzioni rappresentative dei partiti sono venute meno o sono state assorbite da altre agenzie, mentre le loro funzioni procedurali sono state mantenute e in alcuni casi sono diventate anche più importanti» (pp. 16 e 102).
Si è insomma passati «da una combinazione di ruoli rappresentativi e governativi» concentrati in capo ai partiti, «a un ruolo quasi esclusivamente governativo», l’unico che sembrano ora in grado di rivestire. E questa trasformazione ha indotto le élite politiche a rifugiarsi in «una realtà per così dire ufficiale, quella del pubblico degli uffici», a cui ha fatto riscontro la chiusura dei cittadini entro una «realtà più privatizzata o individualistica». Il tutto senza che tra la fuga e la chiusura ci sia un rapporto di causa effetto: «anziché pensare in termini di una sequenza lineare in cui uno dei movimenti condiziona l’altro», è «preferibile fare riferimento a un processo di rafforzamento reciproco» (p. 102 s.).
Quest’ultima osservazione, assieme a quella per cui il passaggio dalla democrazia popolare a quella costituzionale si deve «al pessimo stato dei partiti politici» (p. 16), ci restituisce la cifra della limitatezza di cui soffre la riflessione di Mair. Il suo discorso, tutto incentrato sulle trasformazioni avvenute nella sfera politica, è del tutto impermeabile alle dinamiche che hanno interessato la sfera economica. Se le si considerasse, si potrebbe ribaltare la prospettiva alimentata dal politologo irlandese, vedendo il declino dei partiti di massa non solo come la causa del deterioramento della democrazia, bensì anche come l’effetto di attacchi che il mercato ha portato contro la democrazia. E a monte come il tentativo di soppiantare la politica, finalità ultima degli attacchi contro la democrazia, ovvero di spoliticizzare il processo decisionale: vicenda cui pure Mair allude, definendola come «una strategia di governo in cui l’autorità decisionale è trasferita a organi non partitici e in cui le regole vincolanti adottate rifuggono la discrezionalità del governo di turno» (p. 56).
Mair allude anche ad altri concetti solitamente utilizzati per descrivere la transizione dalla democrazia popolare alla democrazia costituzionale dal punto di vista dell’interazione tra ordine politico e ordine economico: i concetti di democrazia deliberativa e di governance (ad es. p. 12). Vi allude, senza però ricavarne tutte le suggestioni del caso, rimanendo così prigioniero di un’analisi sulla democrazia incapace di cogliere le notevoli trasformazioni indotte dalla sua frizione con il capitalismo: vediamo perché.
Il concetto di governance, definito come il processo di tipo negoziale per cui individui e istituzioni pubbliche e private cooperano alla risoluzione di problemi comuni, evoca scenari idilliaci: allude a schemi formalmente non gerarchici, inclusivi, pensati per realtà il cui assetto è descrivibile ricorrendo all’immagine della rete, al cui interno i comportamenti sono orientati da incentivi. Tutto il contrario del government tipico dello Stato nazionale, realtà gerarchizzata ed esclusiva rappresentabile in forma di piramide, che opera attraverso divieti ed imposizioni[3].
Per comprendere il legame tra l’affermarsi della governance e il ridimensionamento della sfera politica a tutto vantaggio della sfera economica, occorre risalire alla conclusione del secondo conflitto mondiale, quando si concepirono le istituzioni di Bretton Woods per promuovere lo sviluppo del capitalismo a livello planetario. Queste istituzioni avevano un raggio di azione formalmente limitato, dal momento che era loro sostanzialmente precluso occuparsi direttamente di vicende politiche, di esclusiva competenza degli Stati nazionali. La governance fu allora la modalità individuata per aggirare questo divieto, ovvero per estorcere le misure pubblicistiche indispensabili allo sviluppo di un ordine privatistico incentrato sulle libertà di mercato. Queste misure si poterono ottenere con il formale consenso degli Stati interessati, ovvero attraverso l’emanazione di regole di soft law, definite così perché formulate con il concorso dei loro destinatari e concepite come insieme di proposizioni persuasive: tutto il contrario delle regole di hard law, il diritto duro tipico del government, che contempla solo divieti e imposizioni ed esclude i destinatari del precetto dalla loro formulazione[4].
L’idea di un “diritto morbido” è mistificatoria esattamente come lo scenario evocato dalla governance. È buona per giustificare l’espulsione della politica dal processo decisionale, che dunque non può opporre ostacoli alle istanze della sfera economica, rese a questo punto imperative e irresistibili: in assenza di meccanismi riequilibratori della debolezza sociale di chi vi prende parte, quel processo finisce per produrre decisioni particolarmente “dure”.
Per verificarlo possiamo scomodare la distinzione tra democrazia partecipativa e democrazia deliberativa, per molti aspetti assimilabile a quella tra democrazia popolare e democrazia costituzionale. La democrazia partecipativa, tipicamente intrecciata con la sovranità statuale, indica la possibilità degli individui di incidere sulle decisioni collettive: possibilità effettiva, assicurata dal funzionamento del principio di parità in senso sostanziale, che la Costituzione italiana reputa non a caso un presupposto fondamentale per «l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3). Diverso è il caso della democrazia deliberativa, che coinvolge tutti i potenziali interessati dalla decisione da assumere, i cosiddetti stakeholders, offrendo però loro solo la mera possibilità formale di prendere parte alle decisioni: senza considerazione per l’effettiva possibilità di incidere sul loro contenuto[5]. Ebbene, proprio la categoria della democrazia deliberativa deve essere scomodata per gettare luce sullo sfondo delle trasformazioni descritte da Mair: sfondo destinato a rimanere sfuocato finché non si evoca lo scontro tra sfera politica e sfera economica come motore di quelle trasformazioni.
Spoliticizzare il mercato
Tipico della democrazia partecipativa è il favore con cui guarda al conflitto democratico, cui rimettere le decisioni relative al modo di essere dell’ordine economico. Il principio di parità sostanziale, infatti, affida ai pubblici poteri il compito, così sintetizzato dalla Costituzione italiana, di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano «di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini» (art. 3). E ciò significa che lo Stato ha il compito di combattere la debolezza sociale con la forza del diritto, e di redistribuire in tal modo le armi del conflitto democratico: senza imporre orizzonti fissi quanto all’esito del conflitto, se non quelli concernenti il presidio dell’ordine democratico.
Questo disegno è condiviso da tutte le costituzioni sorte dalla sconfitta di un’esperienza fascista, in particolare quelle sudeuropee, che non si limitano a prescrivere la democrazia politica. Viene richiesta anche la democrazia economica, ovvero la mediazione tra meccanismo democratico e meccanismo concorrenziale, per cui lo Stato deve disciplinare il mercato avendo come obiettivo la promozione dell’emancipazione individuale e sociale. Si è voluto così far tesoro della circostanza per cui il fascismo aveva affossato le libertà politiche, ma solo riformato le libertà economiche, sostenute anzi con il sacrificio della democrazia. Se così stanno le cose, il confronto con la prospettiva neoliberale mostra insanabili punti di frizione, particolarmente evidenti se si analizza l’ordoliberalismo tedesco: fondamento, come vedremo, della costruzione europea.
Dal punto di vista ordoliberale lo Stato deve imporre la concorrenza e più in generale riprodurre, con le sue leggi, quelle del mercato. Di qui l’enfasi sull’azzeramento del potere economico come finalità prima dell’azione dei pubblici poteri, chiamati non solo a contrastare i cartelli tra imprese, ma anche le coalizioni di lavoratori capaci di alterare la competizione tra salariati e la cooperazione tra capitale e lavoro. Invero, impedendo la formazione di corpi intermedi tra lo Stato e il mercato, si rendono le persone incapaci di tenere comportamenti diversi da quelli consistenti in mere reazioni automatiche al funzionamento del meccanismo concorrenziale: tutto l’opposto di quanto avviene in regime di democrazia partecipativa, dove il principio di parità sostanziale impone, più che di azzerare il potere, di consentire lo sviluppo di contropoteri capaci di prendere parte efficacemente al conflitto democratico.
Ecco il punto. Con la democrazia deliberativa, quindi con la governance, si vuole impedire l’agire collettivo e organizzato, ovvero l’agire politico, ritenuto un ostacolo al funzionamento del mercato. Non è dunque solo la crisi della democrazia, cui mira il neoliberalismo, bensì la crisi della politica in quanto pratica capace di produrre forze emancipatorie, ovvero centrifughe rispetto a quelle necessarie a sostenere il funzionamento del meccanismo concorrenziale. Producendo in ultima analisi la morte del lavoro come pratica emancipatoria che il costituzionalismo antifascista aveva non a caso collocato al centro del patto di cittadinanza.
Ma proprio questo è l’effetto voluto dalle trasformazioni dell’ordine economico alla base delle vicende trattate nel libro di Mair. La politica, oltre alla democrazia, deve evaporare per lasciare spazio alla tecnocrazia, alla mera amministrazione di un esistente indiscutibile e immobile, come è l’orizzonte del mercato concorrenziale. Un orizzonte incontenibile, destinato a pervadere lo stare insieme come società nel suo complesso, per alimentare la credenza secondo cui il mercato è lo strumento più efficiente per allocare risorse e valori[6], motivo per cui l’inclusione nel mercato produce di per sé inclusione sociale.
In alternativa è la politica stessa a doversi ridurre a mera amministrazione dell’esistente, a discutere unicamente di come riempire le buche delle strade o impedire ai senza fissa dimora di mostrarsi nel salotto buono delle città. Trasformando così l’arena politica in luogo più consono al confronto tra opzioni da valutare per la loro efficienza, piuttosto che per la loro corrispondenza a opzioni di ampio respiro. Un luogo in cui si è portati ad assolutizzare il metro temporale tipico dell’economia, che evidentemente impone ritmi incalzanti, incompatibili con quelli necessari per ottenere decisioni partecipate, da sacrificare sull’altare di una non meglio definita governabilità.
La terza via
Come è noto, la svolta neoliberale si impone negli anni ottanta con la presa del potere di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Fu del resto quest’ultima a dire che «la società non esiste, esistono individui, uomini, donne e famiglie»[7], con ciò prefigurando il percorso verso lo stravolgimento, con la democrazia dei partiti di massa, dell’idea di agire collettivo e organizzato, e dunque di politica. Altrettanto noto è che la svolta assunse il rilievo di un epocale mutamento di paradigma politico. Aprì la strada al rovesciamento del compromesso keynesiano, ovvero della ricetta che aveva consentito al capitalismo di produrre un accettabile livello di redistribuzione della ricchezza, con ripercussioni devastanti sulla possibilità di individuare nel lavoro il fulcro di un patto di cittadinanza capace di promuovere emancipazione.
Il tutto minando definitivamente alla radice l’equilibrio tra ordine economico e meccanismo democratico, ovvero i tratti fondativi del costituzionalismo maturato come reazione al crollo dei fascismi. Quando infatti finì la stagione dei governi conservatori, le forze progressiste che giunsero al potere non si adoperarono per porre rimedio al dissesto provocato dal nuovo credo. Al contrario lo fecero proprio, mostrando che destra e sinistra storica si differenziavano oramai per alcune sfumature concernenti l’efficienza della loro azione: per il modo di interpretare l’erezione del meccanismo concorrenziale e principio fondativo dello stare insieme come società. Con l’aggravante che, se la destra al governo era costretta a misurarsi con la piazza sostenuta dalla sinistra storica, quest’ultima, una volta giunta al potere, utilizzava la sua rete di rapporti con il mondo sindacale e associativo per ostacolare, se non soffocare sul nascere, il tentativo di contrastare l’avanzata del neoliberalismo.
Il volume di Mair menziona questa svolta e i dibattiti sulla cosiddetta terza via (p. 54): espressione un tempo utilizzata dal fascismo per accreditarsi come alternativa al liberalismo e al socialismo, poi impiegata per riassumere i termini del rinnovamento delle forze progressiste. Anche qui, però, il politologo irlandese trascura l’intreccio tra dimensione politica e dimensione economica di questa svolta, relegando così su uno sfondo offuscato dinamiche fondamentali alla comprensione delle trasformazioni epocali cui è dedicato il suo libro.
Eppure l’intreccio risulta evidente considerando, anche solo superficialmente, le riflessioni maturate dai protagonisti dell’epoca, a partire dal noto appello di Tony Blair e Gerhard Schröder sul percorso e la ricollocazione della sinistra europea: la “terza via”, appunto, e il “nuovo centro”. Per costruirlo occorreva abbandonare la “giustizia sociale” come unico orizzonte, riconoscendo l’importanza del “dinamismo economico” e l’utilità di “liberare creatività e innovazione”. Ciò presupponeva un arretramento della politica, a cui riconoscere il compito di «completare e migliorare, ma non anche impedire la forza direttiva dei mercati»: era oramai superata l’idea per cui «lo Stato deve correggere i fallimenti del mercato dannosi», ancora legata a un mondo dominato dai «presupposti ideologici» riconducibili al «dogma della divisione tra destra e sinistra».
Non meno ideologiche erano però le soluzioni proposte per il nuovo mondo, che si voleva retto da «un rinnovato spirito imprenditoriale», così come dalla necessità di «creare le condizioni per la prosperità delle imprese»: deregolamentazione, diminuzione della pressione fiscale e liberalizzazione dei mercati. Era ovviamente richiesto anche e soprattutto il contributo dei lavoratori, cui si domandava di abbandonare la loro tradizionale conflittualità, di accettare la «cooperazione con il datore di lavoro», ripudiando nel contempo il mito del posto fisso. Occorreva infine ridurre la spesa pubblica con tagli ai sistemi di sicurezza sociale, oltre che realizzando un complessivo ridimensionamento della Pubblica amministrazione[8].
Alla luce di queste affermazioni, che fanno apparire la terza via progressista neppure tanto distante da quella messa a punto trai due conflitti mondali, non si fa fatica a comprendere le ragioni dell’attuale stato di salute dei partiti progressisti europei. Se sono in declino non è certo perché, come precisa Mair, sono in crisi i tradizionali meccanismi di appartenenza (p. 63), bensì a causa della loro incapacità o rifiuto di sviluppare nuovi meccanismi di appartenenza: i dissesti provocati dal neoliberalismo colpiscono la classe media esattamente come i ceti popolari, che in questa fase potrebbero dunque comporre una base di riferimento particolarmente ampia per la formazione politica che decidesse di contrapporsi all’unica ideologia sopravvissuta al Novecento.
I partiti progressisti reduci dalla svolta neoliberale hanno forse conosciuto un momento di gloria, che ha consentito loro di occuparsi, potremmo dire, della bassa cucina: ridimensionare lo Stato sociale, avviare programmi di privatizzazioni e liberalizzazioni e svalutare e flessibilizzare il lavoro. Assolto a questo compito le loro fortune elettorali si sono comprensibilmente esaurite, assicurando lunga vita ai partiti conservatori. Ci sono evidentemente casi in cui questo percorso non si è ancora perfezionato, ma sono molti i segnali da cui ricavare che è solo questione di tempo, oppure che ci troviamo di fronte a mere variazioni rispetto a questo schema.
La governance europea
All’alba della nascita della Comunità economica europea, Ludwig Erhard, all’epoca ministro dell’economia, si recò negli Stati Uniti per convincere gli alleati circa la bontà del progetto. Decisiva fu l’osservazione che «se ne sottovaluterebbe lo spirito, se la si ritenesse al servizio di mere finalità economiche»: per poterne trarre vantaggio, «un Paese è costretto ad accettare le conseguenze politiche dell’affiliazione»[9]. E in effetti il processo di unificazione europea venne avviato sotto forma di mercato comune, fondato cioè sulla libera circolazione dei fattori della produzione. Ben presto, però, sarebbero emersi i risvolti tutti politici di questa costruzione, i quali si sarebbero definiti con modalità estranee al circuito democratico o meglio, come documenta Mair, ai meccanismi della democrazia popolare o partecipativa.
Risiede in questa circostanza l’ancoraggio della costruzione europea al pensiero neoliberale, e più precisamente all’ordoliberalismo di matrice tedesca, manifestatosi in modo evidente nel momento in cui l’Atto unico del 1986 ha fornito l’impulso decisivo alla libera circolazione dei capitali. Da ciò è infatti derivata l’integrazione dei mercati finanziari, in funzione della quale si sono poi precisati i termini della politica monetaria, di bilancio e salariale: per attirare investitori occorrono cambi fissi, e in prospettiva una moneta unica, e a monte la riduzione della pressione fiscale sulle imprese, finanziata con tagli della spesa pubblica, oltre alla flessibilizzazione e svalutazione del lavoro[10].
L’architettura di questo schema venne definita nel Trattato di Maastricht del 1992, che ha indicato i limiti al deficit e al debito pubblico a cui subordinare la partecipazione alla fase finale dell’unione monetaria: rispettivamente, come è noto, il 3% e il 60% del prodotto interno lordo. In atti successivi si definirono le modalità con cui presidiare il raggiungimento di quei limiti, che vennero ben presto inaspriti: più che di contenimento del deficit, nel patto di stabilità e crescita del 1997 e nel fiscal compact del 2012 si è parlato di pareggio di bilancio, da imporre a livello costituzionale, o addirittura di bilancio in surplus. Certificando con ciò il definitivo rovesciamento del compromesso keynesiano, e a monte la cancellazione del patrimonio costituzionale che i paesi sudeuropei hanno sviluppato come reazione all’esperienza fascista.
Il tutto senza intaccare la formale distribuzione delle competenze tra Unione e Stati membri che accompagna l’avventura europea fin dal suo esordio: per il Trattato di Lisbona del 2007, che radica in via esclusiva la politica monetaria a livello di Unione, la politica economica resta affidata agli Stati membri, i quali sono chiamati unicamente a coordinarsi sulla base di indirizzi di massima forniti dal centro. In tal modo la politica economica degli Stati viene ottenuta ricorrendo agli strumenti della democrazia deliberativa, a cui devono aggiungersi quelli previsti per il funzionamento del Meccanismo europeo di stabilità, attivo a partire dal 2012: l’assistenza finanziaria condizionata alla diminuzione della spesa pubblica, all’adozione di piani di liberalizzazioni e privatizzazioni e alla svalutazione e flessibilizzazione del lavoro.
In questo modo la costruzione europea viene piegata ai dettami dell’ordoliberalismo, sintetizzati nella formula di origine tedesca della “economia sociale di mercato”, non a caso contenuta nel Trattato di Lisbona laddove si menzionano le finalità dell’Unione. La formula, confezionata ad arte per celare il suo reale significato, non rinvia a una sorta di capitalismo dal volto umano, bensì alimenta l’equazione per cui l’inclusione sociale viene fatta coincidere con l’inclusione nel mercato. Il tutto presidiato da un Superstato di polizia economica, chiamato a utilizzare la concorrenza come strumento di direzione politica dei comportamenti individuali, da funzionalizzare al mantenimento e sviluppo dell’ordine economico eretto a sistema[11].
Le pagine di Mair vengono scritte in anni in cui non sono ancora definiti gli ultimi tasselli della governance europea: il Meccanismo europeo di stabilità, nel linguaggio giornalistico fondo salva-Stati, non era ancora funzionante, mentre il fiscal compact non era ancora stato approvato. Inoltre il livello europeo non era così esplicito come ora nel richiedere la formalizzazione del dispositivo, in verità fondativo dell’intero processo di unificazione europeo, per cui le riforme strutturali in senso neoliberale sono imposte come contropartita per forme di assistenza finanziaria agli Stati[12]. Ciò nonostante i fondamenti della governance europea erano chiaramente definiti, anche perché erano stati sperimentati in particolare dall’Irlanda, il paese natale di Mair, che a partire dal 2010 era assistita dalla mitica troika. Stupisce allora a maggior ragione che la descrizione dello stato in cui versa l’ordine politico europeo non sia messo in relazione con le caratteristiche dell’ordine economico.
Più precisamente Mair afferma che si deve all’Unione europea se «la competizione politica sta diventando sempre più depoliticizzata» (p. 122), o peggio se «i cittadini europei imparano non solo a vivere in assenza di un’effettiva democrazia partecipativa, ma anche a vivere con una crescente assenza di politica» (p. 124). Si dice poi che tutto ciò discende dalla volontà di sostituire le istituzioni della democrazia popolare con un tipico meccanismo di governance, ovvero la volontà di edificare «un sistema politico che è aperto a tutte le tipologie di organizzazioni e attori, ma che allo stesso tempo è più o meno inaccessibile quando si tratta di elettori» (p. 130 s.). Infine si afferma che tutto ciò è la finalità prima della costruzione europea, concepita apposta «per fornire un’alternativa alla democrazia convenzionale» (p. 136): tanto che «se potesse essere democratizzata probabilmente non sarebbe necessaria in prima istanza» (p. 105).
Tutto questo è condivisibile, ma non sfocia in un’analisi a tutto campo delle ragioni di questo stato di cose, che come si è visto vanno ricercate nella rottura dell’equilibrio tra democrazia e capitalismo indotta dall’affermarsi del paradigma neoliberale o ordoliberale. Il ricorso alla democrazia deliberativa è infatti semplicemente e freddamente motivato con la necessità di assumere decisioni che non verrebbero accettate, qualora dovessero passare da una verifica elettorale: le elezioni «pongono un limite troppo forte alla capacità dei governi di prendere decisioni per il bene comune». Quanto al livello tecnocratico, il cui raggio di azione viene amplificato con il ricorso alla governance, si dice che fornisce l’ausilio di competenze che difficilmente emergerebbero con i meccanismi della democrazia partecipativa: uno schema salutato da molti con favore, in quanto consente di realizzare il miglior «compromesso tra efficienza e consenso» (p. 139).
Tra grandi coalizioni e partiti antisistema
Insomma, il libro di Mair inquadra al meglio i termini dell’attuale crisi della politica nel contesto occidentale in genere, ed europeo in particolare. Le chiavi di lettura che offre sembrano però un assemblaggio solo apparentemente contraddittorio di rilievi paternalistici più o meno ricorrenti nei classici del neoliberalismo, a partire da quelli che screditano l’intervento dei pubblici poteri in quanto fonte di corruzione[13], e credenza ingenue, o quantomeno ottimistiche, circa la competenza e indipendenza di chi opera a livello tecnocratico. Il tutto condito da rappresentazioni utili solo ad alimentare i processi di spoliticizzazione: come quella per cui «gli elettori non sono più in grado di comprendere le questioni che sono in gioco» (p. 78). Rappresentazioni capaci forse di esemplificare le retoriche utilizzate per motivare il necessario restringimento dello spazio politico, ma non certo di documentarne l’ineludibilità della tecnocrazia.
A queste condizioni, senza cioè scomodare il neoliberalismo come sfondo condizionante le trasformazioni in corso, sarà però difficile analizzare compiutamente anche il fenomeno cui il politologo irlandese si dedica nelle ultime pagine del volume: il crescente successo dei partiti che, nell’impossibilità di «organizzare l’opposizione all’interno del sistema di governo europeo», sono votati a una «opposizione di principio» (p. 144).
Se questi partiti sono in massima parte espressivi di istanze xenofobe e nazionaliste, se non apertamente fascistoidi, lo si deve anche all’evoluzione conosciuta dalla forze progressiste: che per un verso hanno abbandonato la difesa del compromesso keynesiano e neppure affrontato in termini critici i problemi posto dalla globalizzazione, e per un altro verso hanno scientificamente impedito la nascita di forze di sinistra interessate a raccogliere il testimone. Con il risultato che quel testimone è stato raccolto, e soprattutto reinterpretato, da destra, con i risultati che sono di tutta evidenza: esattamente come la necessità di passare da una critica al neoliberalismo per produrre interpretazioni soddisfacenti di questi sviluppi.
È in effetti il neoliberalismo che, con la sua forza attrattiva, ha condotto i partiti progressisti a incamminarsi lungo la terza via, quindi a perdere consensi e in ultima analisi a consentire loro una partecipazione all’esecutivo solo nell’ambito di grandi coalizioni con le forze conservatrici. Questa formula appartiene alla storia politica di esperienze come la tedesca e l’austriaca, ma da ultimo sta facendo breccia anche in contesti, come quello francese, tradizionalmente affezionati alla contrapposizione tra formazioni progressiste e conservatrici. Anche lì si inizia a sostenere l’utilità di un’alleanza di governo di Socialisti e Partito gollista, ritenendola il solo modo per produrre un cambiamento altrimenti impedito dalle dinamiche della democrazia partecipativa[14].
Il tutto con il risultato di produrre un’ulteriore legittimazione della destra nazionalista e xenofoba, a cui si offre la possibilità di accreditarsi come l’unica alternativa allo scempio imposto dal livello europeo: il cambiamento impedito dalle dinamiche della democrazia partecipativa è del resto quello interpretato al meglio dalle politiche austeritarie, presentate oramai come orizzonte immobile del processo di integrazione europea. Politiche cui pure Mair fa riferimento, quando allude alla fine del “liberalismo embedded”, quello per cui «i governi non sono più in grado di gestire l’economia nell’ottica della redistribuzione delle risorse» (p. 78). Si tratta peraltro di un riferimento decontestualizzato, attraverso cui si fa apparire la svolta neoliberale come un accidente della storia, una catastrofe naturale non riconducibile a scelte squisitamente politiche: proprio quelle che sarebbero nella disponibilità della democrazia partecipativa, se solo il livello europeo non l’avesse ridimensionata a favore di schemi di democrazia deliberativa.
L’Italia ha sperimentato la formula della grande coalizione sotto forma di governo tecnico: quelli presieduti da Mario Monti prima e da Enrico Letta poi, incaricatisi di imporre i diktat europei con la logica dello stato di eccezione, ovvero di riformare in senso neoliberale l’ordine economico nel disprezzo dei fondamenti democratici dell’ordine politico. L’opera però è stata proseguita, se possibile con maggior accondiscendenza rispetto alle richieste provenienti da Bruxelles, anche dopo la stagione dei governi tecnici. Se ne è fatto carico l’attuale esecutivo guidato dal Partito democratico, che al netto dei teatrini inscenati da Renzi per simulare opposizione alle richieste dei tecnocrati di turno, si è rivelato essere il più fedele interprete del neoliberalismo tra quelli finora insediatisi a Palazzo Chigi.
Il volume di Mair si conclude osservando che l’Unione europea è un sistema «non anti-democratico», sebbene non «etichettabile come democratico», dal momento che «è aperto e accessibile alla rappresentanza degli interessi» (p. 142). Questa sintesi restituisce il senso delle trasformazioni che l’ordine economico ha imposto all’ordine politico: una passaggio dalla rappresentanza generale alla rappresentanza di interessi, che però ricorda dinamiche tipiche dell’esperienza fascista. Non ricordano direttamente quest’ultima, ma se non altro la fase storica precedente il suo avvento, la descrizione dell’attitudine dell’ordine europeo verso la democrazia: valore forse non apertamente osteggiato, rispetto al quale si mostra però sostanziale indifferenza. Il tutto per tenersi le mani libere nel caso in cui, per riformare l’ordine economico e dunque sostenere il mercato, sia necessario reprimere quello politico e dunque reprimere la democrazia.
Questo è esattamente il senso dell’ordoliberalismo, i cui effetti sono ben descritti da Mair nel momento in cui afferma che il ridimensionamento della democrazia popolare costituisce la ragione di esistenza dell’esperimento europeo. Manca però, come abbiamo detto, una riflessione sulle cause di tutto ciò, e con essa l’esortazione a combattere il neoliberalismo in quanto ideologia capace di rendere precario l’equilibrio tra democrazia e capitalismo: producendo scenari troppo simili a quelli che hanno preceduto l’avvento del fascismo, per essere trascurati in un’analisi sulla crisi della democrazia.
Se poi volessimo passare dal piano della riflessione a quello della pratica politica, potremmo salutare con favore il fatto che in Italia la forza politica che al momento si oppone con più efficacia a tutto questo non è un partito xenofobo e nazionalista, e al limite fascistoide, come i molti che stanno fiorendo qua e là in Europa. Forse il Movimento 5 Stelle non è un baluardo contro il neoliberalismo, ma se non altro ha mostrato di possedere la forza per ridurre il Partito democratico alla marginalità politica. E senza questo esito, come documentano le molte sperimentazioni fin qui condotte, ogni tentativo di ricostruire un’alternativa di sinistra al neoliberalismo appare inesorabilmente destinato al fallimento.
Pubblicato su MicroMega online il 29 luglio 2016.
Note
[1] P. Mair, Ruling the Void. The Hollowing of Western Democracy, Verso, London 2013. In precedenza Id., “Ruling the Void”, in 42 New Left Review, 2006, p. 25 ss.
[2] P. Mair, Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016 (traduzione di Giovanni Ludovico Carlino).
[3] Citazioni in A. Somma, “Soft law sed law. Diritto morbido e neocorporativismo nella costruzione dell’Europa dei mercati e nella distruzione dell’Europa dei diritti”, in Rivista critica del diritto privato, 2008, p. 437 ss.
[4] Ad es. The World Bank, Managing Development: The Governance Dimension, The World Bank, Washington 1991.
[5] Per tutti C. Crouch, Postdemocrazia (2000), Roma e Bari, 2004, p. 22.
[6] Cfr. V. Giacché, La fabbrica del falso, nuova ed., Imprimatur, Reggio Emilia 2016.
[7] La nota frase venne pronunciata durante una conversazione con il periodico Women’s Own, pubblicata il 31 ottobre 1987.
[8] Der Weg nach vorne für Europas Sozialdemokraten. Ein Vorschlag von Gerhard Schröder und Tony Blair (8 giugno 1999), ad es. in www.glasnost.de.
[9] L. Erhard, “German’s Economic Goals”, in 36 Foreign Affairs, 1957-58, p. 614.
[10] M. Pianta, “L’Europa della finanza”, in Parolechiave, 48, 2012, p. 103 ss.
[11] Citazioni in A. Somma, La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito, DeriveApprodi, Roma 2014, p. 49 ss.
[12] V. da ultimo il Discorso di Jean-Claude Juncker sullo stato dell’Unione del 9 settembre 2015: http://europa.eu/rapid/press-release_SPEECH-15-5614_it.htm: «il Meccanismo europeo di stabilità dovrebbe assumere progressivamente un ruolo più ampio di stabilizzazione macroeconomica».
[13] Il riferimento è alla teoria della scelta pubblica, da ultimo riproposta dai fautori della nuova economia comparata: ad es. S. Djankov, R. La Porta, F. Lopez de Silanes e A. Shleifer, “The Regulation of Entry”, in 117 The Quarterly Journal of Economics, 2002, p. 1 ss.
[14] Hervé Algalarrondo e Daniel Cohn-Bendit, Et si on arrêtait les conneries. Plaidoyer pour une révolution politique, Paris, 2016.