La vicenda delle atlete cicciottelle e del siluramento del direttore di QS per averle definite tali è un altro eclatante segno dello smarrimento di significato che colpisce la nostra società.
La punizione del direttore non è un atto di giustizia e ancor meno la riparazione di un torto. È invece la conferma che essere cicciottelle è un difetto, anzi una colpa, una deviazione dal modello fisico ideale che la morale dominante ci impone.
Una morale dettata dal nuovo mercato del bello, dei cosmetici elisir di giovinezza, dell’apparenza, della prestanza fisica, della televisione dove vediamo spot pubblicitari di prodotti contro l’incontinenza urinaria, problema tipico della vecchiaia, inscenati da ventenni arrapanti in succinti vestitini che mal nasconderebbero un pannolone. Per non dir nulla delle protagoniste di quegli altri spot sulle creme contro i cattivi odori vaginali, sbarbine appunto inodori, tutte acqua e sapone, chissà forse neppure ancora mestruate.
Nella società della prova bikini, del personal trainer e della dieta come stile di vita, tutto quello che si discosta dal modello dominante è diventato innominabile e suona come un insulto. Un tempo la caratteristica fisica non solo era la prima cosa che si notava di una persona ma acquisiva anche un valore caratterizzante. Ci individuava, ci dava un’identità. In fin dei conti era un segno di libertà. Eravamo liberi di essere come eravamo e non obbligati a correggerci il naso o il mento o le natiche o le labbra o la stempiatura per conformarci a un imposto modello di beltà come invece accade oggi.
Quand’ero giovane un mio compaesano si tagliò un baffo per una scommessa. Con estrema disinvoltura ostentava la sua eccentricità, anche lontano dal paese. Non aveva bisogno di giustificarsi o di spiegare e nessuno lo avrebbe mai preso in giro. Ma il suo gesto lo connotava, diceva tutto di lui, era una dichiarazione di libertà, di volontà di essere, di possesso del proprio corpo. “Bafìn” cominciarono a chiamarlo e così finché visse, anche quando il baffo reciso ricrebbe, tanto fu memorabile la sua asserzione di se stesso.
A me da bambino mi chiamavano “ucialìna”, perché ho sempre portato gli occhiali. Un appellativo che mi scocciava un po’, ma tant’è, gli occhiali ce li avevo, sono da sempre parte della mia faccia. E il mio nomignolo mi autorizzava a chiamare “panzòn” il compagno grassone, “patciòn” quello che aveva due piedi come due pinne, “tégula” un altro che aveva la testa a forma di cuneo, “pitòna” uno che aveva il portamento ondeggiante di un tacchino.
Non c’era cattiveria nell’identificazione dei nostri connotati fisici. I nostri difetti erano così sdoganati, i nostri corpi parlavano, si distinguevano, venivano accettati per quel che erano e in fin dei conti affettuosamente riconosciuti.
Per fortuna sotto la crosta delle falsità, lo spirito di chi si taglia un baffo per scommessa sopravvive ancora nel nostro animo represso dal conformismo. È per questo che alle atlete cicciottelle alla fine vogliamo bene non tanto perché vincono, ma perché sono cicciottelle e con la ciccia rivendicano la libertà di essere quel che sono.