Bruxelles – Ci sono cose che non si possono capire, come quello che passa per la testa di un bambino di dieci anni che un giorno esce di casa per andare a scuola, vede il fumo nero venire della miniera e pensa alle parole della madre. “Peppino, non andare a lavorare domani, resta a casa”: così aveva detto al marito il giorno prima. Quasi una premonizione.
Ci sono cose che non possiamo spiegare. Eppure davvero quel giorno, il 7 agosto del 1956, lei gliel’aveva detto a Giuseppe Pinto di non scendere negli inferi di Marcinelle. Lui lo faceva da anni tutte le mattine, era la normalità. Lo era anche la sua casa: la baracca. Tante piccole baracche in un campo che prima degli immigrati italiani aveva ospitato i prigionieri di guerra tedeschi. Campi di concentramento che dopo il ’46 diventano le “case” degli italiani “volontari”, così erano definiti i tanti immigrati che dall’Italia “volontariamente” cercavano lavoro in Belgio per scappare dalla fame.
Giuseppe viveva lì come gli altri, “come in una grande famiglia”, racconta quel bimbo di dieci e anni oggi diventato grande, circondato da pochi oggetti essenziali e un letto per sei: lui, la sua donna e i quattro figli. Un letto per tutta la famiglia: così vivevano i minatori di Marcinelle con figli a carico. Era forse meglio vivere da soli? Molti lo dovevano fare: ancora non erano riusciti a portare in Belgio i loro familiari e alla polvere sporca della miniera mischiavano ogni giorno il sapore amaro della solitudine. Giuseppe no. Dopo tre anni era riuscito a far arrivare oltre le Alpi dalla lontana Mola di Bari, in cui era nato, anche i suoi affetti. Due di loro, Vito e Giacomina ieri, 8 agosto 2016, erano a Marcinelle a toccare con mano le mura che quell’8 agosto di sessant’anni fa imprigionò per sempre il loro padre a oltre mille metri di profondità nella miniera di carbone di Bois du Cazier, a Marcinelle.
“Voglio toccare queste pietre, che erano le stesse in cui lavorava mio padre”, dice Vito che si guarda intorno ricordando i suoi giorni felici dell’infanzia tra quelle mura e quegli uomini neri. Neri come il carbone della miniera. “Talmente neri che a volte venivo qui fuori per vedere mio padre che stava lavorando e alzavo lo sguardo per cercarlo, ma ogni volta non sapevo se fosse lui oppure no”, racconta Vito tornato ieri per la prima volta a Marcinelle dopo sessant’anni, “erano tutti neri, come potevo capire chi era mio padre?”, ripete.
Neri come i migranti di oggi, nero come l’aggettivo con cui i belgi chiamavano gli italiani, ‘nero maccherone” o ‘muso nero’. Nero come il buio in cui ogni giorno scendevano braccia, gambe e teste di gente povera venuta da terre lontane. Operai e ex contadini pugliesi, abruzzesi, siciliani avevano lasciato le loro colline per “i terril”, le colline nere nate dall’accumulo degli scarti carboniferi, nel “paese nero”, il distretto minerario di Charleroi, nella Vallonia.
Nera come la fame che si soffriva in quelle terre da cui fuggivano. Neri furono ritrovati quei 262 corpi sepolti dalla polvere della miniera che ogni giorno entrava nei loro polmoni e che alcuni si portano ancora oggi dentro, malati di silicosi. Erano neri i loro vestiti quando tornavano da lavoro ogni giorno, ma ancora più nero fu il dolore di famiglie intere lasciate da sole una mattina di agosto quando il sole era già alto in cielo.
D’estate poco dopo le 8 del mattino anche in Belgio, a Nord della calda Italia, il sole era nato, ma per 262 famiglie era iniziata una lunga notte. Nera. Dopo 60 anni quella notte dura ancora, nei cuori di chi è rimasto e nella memoria di chi ricorda, ma anche in chi dice di ricordare poco, pur avendo vissuto il lutto. Giacomina Pinto quando perse il padre era troppo piccola per averne memoria, ma quella storia l’ha conosciuta attraverso i racconti degli altri.
Negli abissi della terra è come se ci fosse già stata attraverso i racconti di una madre rimasta vedova a poco più di trent’anni, il ritorno in Italia qualche mese dopo la tragedia, per andare via da dove solo per lui, il minatore italo-belga, si erano trasferiti, e poi i libri e i documentari sulla tragedia di Marcinelle. Sono tornati dopo 60 anni i due fratelli, Vito e Giacomina, il figlio maggiore e la figlia minore di Giuseppe.
La cittadina belga del carbone ieri era avvolta nel silenzio. Il cielo era grigio e carico, come di tensione, sotto la terra invece morivano 262 minatori, di questi 136 italiani di cui 60 abruzzesi e 95 belgi. Solo dodici minatori riuscirono a salvarsi. Erano arrivati in quel posto che nessuno di loro conosceva su carri bestiame partiti da Milano, dove lo Stato italiano sottoponeva ai controlli medici questi uomini affamati di lavoro e speranza.
Venivano da ogni parte d’Italia, soprattutto dal Sud. Erano la contropartita con cui il governo avrebbe ottenuto più carbone, fondamentale per far ripartire l’economia del magro dopo guerra italiano. Il Protocollo italo-belga del 23 giugno 1946 prevedeva che l’Italia mandasse 2.000 operai italiani a settimana 50 mila in tutto in Belgio in cambio di carbone a un prezzo di favore. In realtà il carbone non arriverà mai in Italia. Quando la povera Penisola potette permettersi di comprarlo, i prezzi non erano più favorevoli. L’accordo prevedeva uomini al posto di combustibile, ma quella mattina di sessant’anni fa ritrovarono tra le macerie della miniera di Marcinelle combustibile invece di uomini.
Le famiglie però aspettarono. Per giorni interi donne e bambini vissero davanti ai cancelli di Bois du Cazier, attendendo inutilmente di vedere i minatori uscire dal loro posto di lavoro. Elio Di Rupo, il cui padre italiano era un minatore morto quando lui aveva solo un anno, ex premier belga e ora sindaco di Mons parla di quei giorni. “Avevo cinque anni e ricordo che tutte le donne piangevano e che tutti gli uomini erano preoccupati”. Erano ferme ai cancelli, chiedevano, gridavano, si disperavano e non potevano fare niente.
Il 22 agosto uno dei componenti della spedizione di soccorso disse semplicemente: “Sono tutti cadaveri”. Tre parole che si ripeteranno, dopo diciassette giorni dalla tragedia, sui titoli di tutte le prime pagine dei giornali locali. Tre parole che sono tornate ieri con i 262 rintocchi con cui alle 8 e 20 si è svegliata Marcinelle. Uno per ogni minatore morto. Questo l’omaggio, seguito da deposizioni di fiori, processioni, discorsi e minuti di silenzio, con cui Bois du Cazier, luogo della memoria dal 2002 e patrimonio dell’Unesco, ha ricordato i suoi 262 morti insieme alle autorità belga, italiane e alle associazioni dei minatori di tutta Europa.
Un rintocco seguito da un nome francese, italiano, polacco, greco, tedesco. Venivano da 12 nazioni diverse i minatori di Marcinelle, ma in realtà da un solo grande paese: l’Europa. Proprio negli anni in cui stava nascendo la Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, i minatori che provenivano da tante culture, si scoprivano uguali nella vita di tutti i giorni, come poi nella morte.
“Dobbiamo rispettare gli emigranti, perché loro partono dal loro paese per venire a fare sacrifici, per aiutare la famiglia e certa gente non arriva neanche a destinazione, perché muore prima. Quanti cadaveri ci sono nel mare?”, si chiede Giacomina, figlia di emigrante. Per mare arrivano molti più migranti di quelli che riposano a Marcinelle, ma forse sono non troppo diversi da loro. “Ancora oggi l’emigrante viene un po’ emarginato ed è sempre mal visto”, ricordano i figli di Giuseppe Pinto, a cui insieme agli altri italiani erano indirizzati i famosi cartelli “interdit aux chiens et aux Italiens”, “vietato ai cani e agli italiani”, appesi fuori dai locali del distretto minerario di Charleroi.
“Questa tragedia non ci deve far dimenticare cosa è stata la povertà dopo la guerra per milioni di italiani e che tanti sono andati fuori per dare da mangiare alla loro famiglia”, dice l’ex primo ministro belga Di Rupo, “loro qui hanno dato un grande contributo all’economia. E se oggi si vive meglio è anche grazie a quei minatori che hanno pagato con la vita”.
“Ripensare come eravamo e vivevamo, rafforza la nostra determinazione ad accogliere con spirito di solidarietà chi oggi è costretto a migrare e ha diritto alla protezione internazionale”: questa la convinzione del presidente del Senato italiano Pietro Grasso presente ieri a Marcinelle.
Disperati, ma decisi a rischiare tutto pur di vivere dignitosamente, affamati, ma convinti che valga la pena cercare un’esistenza migliore. Erano gli italiani di ieri, sono i migranti di oggi, “qui non per il loro piacere, ma per fuggire la morte nel loro paese”, aggiunge Di Rupo, un altro figlio di un minatore italiano emigrante.