di Anonimo Keynesiano
Dal 2013 un antico spettro è tornato a percorrere le stanze del Fondo monetario internazionale e delle principali istituzioni economiche occidentali: quello della stagnazione secolare. Il concetto, battezzato dall’economista keynesiano Alvin Hansen nel 1939, si riferisce alla possibilità che un rallentamento nella crescita della popolazione e/o nel progresso tecnologico e nella scoperta di nuovi territori fertili ed abitabili possa determinare una tendenza dell’economia alla stagnazione nel lungo periodo.
L’idea che vari fattori di carattere strutturale, al di là della crisi finanziaria scaturita nel 2007-2008, siano all’origine della bassa crescita della produttività registrata negli USA e nell’eurozona, così come della scarsa crescita del PIL soprattutto in quest’ultima area, è stata recuperata proprio nel 2013 dall’economista Larry Summers, già segretario al Tesoro degli Stati Uniti per l’ultimo anno e mezzo della presidenza Clinton. Nelle varie occasioni in cui Summers ha trattato il tema della stagnazione secolare, è interessante notare come un esponente di spicco di quel pensiero mainstream che ha contribuito a demonizzare la politica fiscale come possibile strumento di abbattimento della disoccupazione e lotta alle disuguaglianze veda ora in essa l’unica via d’uscita dal tunnel.
La spiegazione che Summers fornisce si basa sull’idea che la crescita potenziale del PIL nelle economie mature superi di gran lunga quella effettiva a causa della diminuzione del tasso di interesse naturale associato alla piena occupazione. In altri termini, secondo Summers, l’incremento su scala globale dei risparmi liquidi, inutilizzati e non investiti, ha causato una diminuzione di quel livello del tasso di interesse (teorico) che consentirebbe di incentivare i capitalisti ad investire fino a giungere al livello di piena occupazione della forza lavoro. Questo eccesso di risparmi, per Summers, è dovuto all’incremento delle disuguaglianze sociali registratesi in seguito alla svolta neoliberista di metà anni ’70: esse hanno portato ad un incremento della quota di reddito detenuta dalle famiglie più ricche e dalle imprese, entrambe caratterizzate da una minore propensione al consumo.
La soluzione a tutto ciò, secondo Summers, è un utilizzo attivo della politica fiscale al fine di dare impulso alla domanda aggregata, canalizzando così la liquidità ferma verso investimenti e creando opportunità di aumento della produttività grazie a questi ultimi. Non viene escluso, ma anzi incoraggiato, anche l’investimento pubblico diretto in infrastrutture, in grado di arrecare benefici presenti e futuri all’attività economica.
Si tratta di posizioni importanti all’interno di un mainstream economico e politico che negli ultimi 30 anni ha generalmente combattuto il ruolo degli investimenti pubblici in quanto foriero di inefficienze, corruzioni di vario genere, inflazione, e che ha avversato qualsiasi politica di equa redistribuzione del reddito in ossequio all’idea che essa diminuisca gli incentivi e la produttività complessiva del sistema.
Tuttavia, come accaduto anche in occasione dell’uscita del Capitale di Thomas Piketty, il dibattito non ha abbracciato quegli autori “eterodossi” che hanno trattato approfonditamente il tema della stagnazione: dai marxisti come Rosa Luxemburg, Paul Sweezy, Paul Baran e Michal Kalecki, passando per lo stesso John Maynard Keynes e per il post-keynesiano Josef Steindl.
Questi autori, infatti, sottolineano in modi diversi come l’insorgenza della stagnazione all’interno di un’economia capitalistica non sia una “patologia” del capitalismo, bensì una sua possibile evoluzione. Innanzitutto, la teoria del tasso di interesse naturale sottostante al discorso di Summers si fonda sulla teoria dei fondi prestabili, che non descrive accuratamente il funzionamento del sistema bancario in quanto è la domanda di credito a generare un certo livello degli investimenti in un dato periodo[1]. Inoltre, autori come Steindl sottolineano che l’evoluzione di determinati settori di mercato da un contesto di maggiore concorrenza ad un contesto di oligopolio può essere una potenziale fonte di stagnazione della domanda aggregata e di instabilità. Se da un lato la crescita dimensionale dei leader di mercato può assicurare maggiori disponibilità finanziarie e quindi investimenti, dall’altro è fisiologico che essa porti gli stessi leader ad utilizzare l’arma della capacità produttiva in eccesso come strumento deterrente per i potenziali concorrenti. Ne consegue che gli investimenti, nel lungo periodo, possono essere scoraggiati dai comportamenti strategici delle imprese, e pertanto l’effetto depressivo di episodi di crisi economiche può esserne fortemente amplificato.
A questo ragionamento di carattere generale e teorico possiamo legare altri due fatti, ampiamente discussi e riconosciuti dal mainstream, che configurano una vera e propria politica della stagnazione perseguita con particolare vigore in seguito alla svolta neoliberista di metà anni ’70: l’incremento delle disuguaglianze reddituali, l’aumento del differenziale fra produttività e crescita dei salari reali e l’aumento della fragilità del sistema industriale in seguito alla crescente finanziarizzazione dell’economia.
Ciò significa che, lungi dal costituire un fenomeno ineluttabile, la stagnazione corrente è il frutto di scelte di politica economica ben precise, volte ad ignorare l’obiettivo della piena occupazione per focalizzarsi invece su quello della stabilità dei prezzi, e pertanto ridurre al minimo le possibilità di intervento pubblico nell’economia, massimizzando invece la libertà di movimento dei capitali e la flessibilità del lavoro. Abbandonata la possibilità di intervento del settore pubblico in investimenti a carattere sociale, una forma privatizzata di gestione della domanda, come fa notare ad esempio Riccardo Bellofiore, è stata però affidata alle politiche monetarie espansive e all’utilizzo del credito bancario come sostegno ai consumi delle famiglie. Ciò ha configurato l’emergere di una profonda instabilità finanziaria, culminata nella crisi dei subprime del 2007, e la totale prevalenza dello sviluppo di settori a diretta valorizzazione di mercato[2] a fronte di un abbandono del ruolo sociale della spesa pubblica per investimenti in settori come i trasporti, l’edilizia pubblica, la sanità e la cura della persona, la bonifica energetica delle abitazioni dei ceti medi e medio-bassi e molti altri.
Se la produzione di beni capitali ha quindi potuto beneficiare di grandi investimenti in ricerca e sviluppo e conseguenti aumenti di produttività del lavoro – spesso a discapito dell’occupazione manifatturiera – la produzione di beni e servizi “sociali” avviene oggi a costi reali troppo elevati, con il risultato che la loro fruizione è ancora ampiamente sottodimensionata.
In un contesto di perdurante crisi economica, mai realmente superata dal 2007 e pertanto definita da molti come una vera e propria ristrutturazione capitalistica, la ripartenza di una crescita economica trainata dagli investimenti privati non sembra vicina né desiderabile. La sfida che le forze progressiste hanno davanti a sé sembra piuttosto essere quella di uno sviluppo della produttività sociale, attraverso la pianificazione di investimenti pubblici in quei settori caratterizzati da lavori concreti nella definizione marxiana ripresa da Giorgio Lunghini; quei settori, cioè, che diminuiscono il costo reale della vita delle classi lavoratrici e sono in grado di produrre valori d’uso a beneficio della comunità. Il vantaggio collaterale, ma non secondario, di questa strategia di pianificazione pubblica è che sono proprio questi settori a poter permettere un assorbimento dell’occupazione che sia disgiunto dalle aspettative di profitto legate alla produzione di valori di scambio.
La condizione di esistenza di una transizione verso politiche pubbliche di questa portata è però necessariamente la possibilità per gli Stati di gestire in maniera autonoma le proprie finanze pubbliche, libera da vincoli arbitrari al rapporto deficit/PIL come quelli stabiliti dalle istituzioni economiche dell’eurozona. La necessità di simili politiche di pianificazione sociale può essere dunque il vero elemento che distingue una forza progressista favorevole alla rottura dell’eurozona dalle voci reazionarie e regressive che in questo momento chiedono a gran voce il recesso dalla zona euro e dall’UE.
Pubblicato su Marx21.it il 29 luglio 2016.
Note
[1] Come già noto a Joseph Schumpeter, Augusto Graziani, Basil Moore e molti altri economisti eterodossi – e recentemente confermato da un report del 2014 della Bank of England – i tassi di interesse a breve termine sono fissati dalle banche centrali in maniera discrezionale, mentre la quantità di moneta presente nel sistema economico non è controllabile dall’istituto di emissione. Poiché le banche commerciali creano direttamente credito nel momento in cui emettono un prestito, e non si limitano semplicemente a trasferire denaro già esistente nelle proprie riserve, è possibile comprendere come la quantità di moneta presente nel sistema dipenda principalmente dalla domanda di credito che imprese e lavoratori rivolgono alle banche a fini di investimento e di consumo. Naturalmente, la domanda di credito può essere influenzata dalle variazioni dei tassi di interesse da parte delle banche centrali, in quanto queste hanno effetti sui tassi di interesse praticati dalle banche private ai clienti: ed è esattamente questo che si tenta di fare con le politiche monetarie non convenzionali come il quantitative easing. Tuttavia, l’unica grandezza che è direttamente modificabile dalla banca centrale resta il tasso di interesse.
[2] Ovvero di tutti i settori relativi a beni di consumo e beni di investimento che vengono prodotti dalle imprese a fronte di un’aspettativa di profitto; ne sono esclusi, ad esempio, “beni sociali” come la conservazione del patrimonio pubblico e la cura della persona.