Andiamo subito al sodo. Quando si parla di Stati Uniti d’Europa si è completamente fuori strada. Non è la mia idea. È quello che pensa Valentino Catricalà. La nostra identità è molto più stratificata. La nostra unione è fatta di cittadinanze che hanno delle stratificazioni identitarie molto più radicate e profonde di qualsiasi altra unione. Chiedo cosa intende. Identità nazionali, certo, ma anche regionali, di città, e addirittura di quartiere. Prima dell’Europa, del sentirsi europei, ci sono molti altri strati. E proprio queste identità sono il motivo di molti fondamentalismi, radicalizzazioni, in particolare nei riguardi di alterità di cui si ha spesso paura.
Valentino non è un costituzionalista, un sociologo, uno scienziato politico. Per quello che serve sapere al momento è un cittadino italiano, europeo, e, a suo modo, europeista, che sostiene che essere europei non vuol dire annullarsi, non vuol dire cancellarsi come italiano, francese, spagnolo, greco o tedesco. Per lui essere europei vuol dire proprio il contrario: vuol dire accrescere le nostre identità culturali attraverso lo scambio, il dialogo: l’apertura alla diversità. Unione nella diversità. A parole. In ogni dibattito sull’Europa qualcuno ad un certo punto afferma che essere europei significa essere uniti nella diversità. Potrebbe parlarne per ore. Ma non gli devi chiedere cosa significa e come può funzionare in concreto. Se glielo chiedi non aggiunge altro e cambia discorso. Non ho mai trovato nessuno che fosse convincente nello spiegarne il significato. Forse perché non ho mai trovato nessuno veramente convinto di ciò che dice al riguardo.
‘Unita nella diversità’ è il motto dell’Unione europea dal 2000, disponibile in 24 lingue, dal bulgaro Обединен в многообразието all’ungherese Egység a sokféleségben, al greco Ενωμένοι στην πολυμορφία, che i curiosi possono leggere qui. Esaurita la nostra carica di erudizione, abbandonata ogni ansia da prestazione, Valentino è pronto a gettarsi nella mischia sfidando i più eruditi e pedanti convegnisti dell’universo. Essere uniti nella diversità vuol dire fare in modo che la nostra italianità possa essere un valore aggiunto su questo nuovo piano di scambi – non solo economici! – che l’Europa rappresenta per noi nati negli anni ’80 e per quelli più giovani. Valore aggiunto che accresce le nostre identità. Identità e cultura. Due è il titolo di questo articolo in questo blog, Il secondo di una serie di articoli dedicati a delle conversazioni, più o meno politicamente scorrette, con chi ancora crede nella bellezza dell’idea di Europa e nella necessità pratica degli Stati Uniti d’Europa.
La seconda conversazione, non è un mistero, è con Valentino che ora possiamo presentare come merita. Il mio contatto più forte con l’Europa, con l’idea di viaggio europeo, di collaborazione lavorativa unita al divertimento, l’ho avuta sicuramente attraverso l’Università. Non tanto grazie ai programmi Erasmus, io, infatti, non ne ho fatti, ma grazie alle ricerche di dottorato, aiutato dai voli low cost. Voli che, come ha detto Matteo, giovane e Tor Più Bello, al bar all’incontro ‘Noi siamo Europa’, hanno aiutato gli scambi europei più di tanti altri programmi dell’Unione europea. Affermazione sicuramente estrema ma molto interessante. Quei viaggi mi sono serviti per capire meglio che cosa volesse dire Europa, che volesse dire italiano in Europa, che cosa fosse questo “nuovo” (nuovo?) mondo.
Lui ne fa una questione culturale. Identità vuol dire cultura: linguaggio, tradizioni, atteggiamenti, valori, ecc. Ie arti come il cinema, le arti plastiche, la musica, il teatro, e così via, non sono gli unici esempi di “cultura” come si pensa spesso; forse sono le espressioni più evidenti, e, in quanto evidenti, più radicali e più utili a farci capire che cosa vuol dire essere oggi noi nel mondo. L’arte ha sempre fatto questo: rielaborare continuamente i dati sensibili della nostra cultura per crearne di nuovi, per farci vedere e ragionare su cose che prima non vedevamo. D’altra parte, dirigendo un Festival che si occupa dei rapporti tra arte e tecnologia, non potrebbe essere altrimenti. Il Media Art Festival mostra bene il valore aggiunto che gli artisti, provenienti da Paesi diversi, possono dare all’innovazione, alla cultura e all’economia. Se solo l’Europa puntasse un po’ di più in questa direzione! Le grandi aziende se ne sono accorte. Apple, Google, Facebook, hanno tutte attivato residenze d’artista per sperimentare con gli artisti le loro tecnologie e scoprire mondi impensati prima. Impensare. Non sono sicuro che questa parola esista in italiano ma suona bene e Valentino se ne assume la responsabilità con l’Accademia della Crusca. Forse questo dovremmo iniziare a fare. Aiutiamo l’arte a farci impensare di più, aiutiamo a far in modo che l’Europa non voglia dire conflitto identitario, ma una spinta verso la conoscenza di un nuovo sentire sociale, di nuovi orizzonti che non siamo ancora in grado di comprendere.
Io credo che, più che averne paura, dovremmo trarre forza da questa molteplicità. Diversità che di per sé non rappresenta la migliore condizione per la realizzazione degli Stati Uniti d’Europa. Valentino ha perfettamente ragione. Lasciando da parte frasi fatte, la diversità non è comprimibile ed è per questo che in termini culturali è una ricchezza che non è riconducibile ad unità. L’unità può e deve essere ricercata altrove. Su un terreno politico. Nella comunanza di visione. Nel desiderare la stessa cosa. Nello spirito di comunità, a Bruxelles e a migliaia di chilometri di distanza. Nel sentirci europei. Nel ricordare che prima di chiamarci Unione eravamo Comunità. Nel sapere che oggi ci chiamiamo Unione e dobbiamo tornare ad essere prima di tutto comunità.