I fatti di Nizza oggi offuscano ogni altra attualità e ci fanno ripiombare nell’abisso del terrore. La brutalità e la ferocia di questo gesto devono ormai interrogarci sulla natura umana, sui mostri che il nostro mondo sta producendo e che credevamo sepolti per sempre dopo il nazismo. Sul Corriere di oggi c’è però un commento di Massimo Bray sull’importanza della cultura per rifondare la nostra società che riguarda allo stesso modo populismo e terrorismo, crollo dei valori e sfiducia nelle istituzioni. Scrive Bray: “Quello che è accaduto con la Brexit è il rifiuto di una globalizzazione che ha impoverito le tradizioni, le storie e le lingue nazionali. (…)”.
La deriva dei populismi e la disperazione di giovani che sono disposti a sterminare innocenti nel nome di una religione, sono sicuramente da riportare almeno in parte alla perdita di ogni riferimento che la globalizzazione ha suscitato. Bray va avanti nel suo ragionamento sostenendo che dalla cultura tutto deve ripartire ma alla fine non dice molto di più e il suo come tanti altri resta l’ennesimo lamento senza sbocco, un accorato appello a non si sa chi né per fare cosa.
Il giovane franco-tunisino che si è scagliato con un camion su vacanzieri inermi non lo si ferma con la cultura. Non adesso almeno. Lo si sarebbe potuto fermare dieci anni fa, quando ancora era un ragazzino e aveva bisogno di una storia in cui credere, di una società di cui sentirsi parte. Le nostre società invece non hanno più una storia da raccontare ai loro cittadini. Il mito nazionale è morto con il nazionalismo e questo è solo un bene, ma non è stato sostituito con un’altra appartenenza, con un altro progetto di società. L’efficientismo economico, l’ossessione della produttività, della competitività, della capacità di resistere coi nostri prodotti ai concorrenti internazionali e poi batterli, il fanatismo del mercato che giustifica tutto, dalla chiusura delle fabbriche alla scomparsa di interi pezzi delle amministrazioni statali, ha reso insensata ogni pretesa di rispondere con la cultura alla deriva della società.
Abbiamo un bel dire che tutto passa per la scuola, l’istruzione, un nuovo modo di raccontare la realtà. Certamente questo conta e dovrà essere messo fra le priorità di una rifondazione delle nostre società, assieme a un aperto confronto sul ruolo della religione. Ma soprattutto bisogna ridare ai giovani una storia in cui credere, un gruppo a cui appartenere, farli sentire artefici del loro futuro, restituire valore allo studio e all’impegno. Quando un giovane si vede davanti un percorso che lo porta dalla scuola a un lavoro e a un progetto di vita, ha tutto quel che gli serve per essere un cittadino responsabile. Qui la cultura c’entra poco. Qui è in ballo tutto il nostro modo di vivere
Quanto alla cultura, nel senso di coltivazione di un interesse artistico, di fruizione di uno stimolo che ci stacchi dall’imminenza del quotidiano, anche lei ha bisogno d’altro. Non bastano grandi musei che sono oggi vere e proprie fabbriche di mostre o gigantesche sale di concerti e raffiche di festival che esibiscono grandi artisti. La cultura, quella che mette radice, quella che dura, alla fine ha bisogno di quel che il suo nome richiama: coltivazione, cura. Due parole che immediatamente ci portano all’altra, irrinunciabile componente: il tempo.
C’è bisogno di tempo vuoto, di tempo per incontrarsi, per non fare magari nulla ma stare insieme, di tempo per pensare o fantasticare, non tanto e non solo di tempo per coltivare un interesse o uno sport, ma di quel tempo che permette all’uomo l’esercizio dell’astrazione. È qui, in questo terreno vuoto del pensare fine a se stesso che fiorisce la cultura.
Ma la nostra società non ha tempo e quel che chiama tempo libero è diventato tempo da occupare subito, da rendere produttivo anche come hobby, soprattutto guai se rimane vuoto. Così ci scagliamo in palestra e in viaggio, anche al cinema o a un concerto, che in sé sarebbero cultura ma vissuti così diventano una corvée come un’altra, una voce sull’agenda.
C’era un mio compaesano che passava i pomeriggi d’estate su una panchina della piazza a costruire trottole di legno, di quelle che si lanciano con lo spago. Grandi o piccole, le scolpiva con lo scalpello, le ornava di figure e poi le colorava, ognuna in modo diverso. Quando erano pronte le lanciava sul selciato e noi ci accalcavamo a guardarle girare. Tempo perso, ore passate a fare niente, a scommettere quanto avrebbero girato. Ma tempo speso a stare insieme, a sentirci gruppo, comunità, dove nessuno veniva lasciato indietro.
Ora quelle trottole sono in un museo e la gente paga il biglietto per andarle a vedere; ma non c’è più nessuno in paese che le costruisce. Nessuno avrebbe più il tempo. Dobbiamo tutti lavorare, competere, produrre, essere efficienti, stare al passo con la globalizzazione. Così nel tempo libero crediamo di migliorarci andando al museo. È invece al cimitero che andiamo, a vedere i nostri morti. Al posto del biglietto dovremmo comperare fiori.
Così, come dice Bray, senza più storia, senza tradizione, si secca e muore la nostra società, in balia di disperati che sono rimasti chiusi fuori dal labirinto in cui noi invece ci compiacciamo di vivere.