Bruxelles – “What’s the story? What’s the story today?” Erano le prime parole che Boris Johnson pronunciava ogni giorno, a mezzogiorno, quando arrivava nella sala stampa della Commissione europea per seguire il briefing quotidiano dei portavoce dell’Esecutivo comunitario. Era l’inizio degli anni ’90, il presidente della Commissione si chiamava Jacques Delors, non c’era ancora la moneta unica (ma era già in cantiere) e si stava completando il mercato unico. Johnson, appena nominato ministro degli Esteri dalla nuova premier britannica, Theresa May, era il corrispondente a Bruxelles del Daily Telegraph (dal 1989 al 1994), dopo aver lavorato in precedenza per il Times, che lo aveva licenziato per aver inventato una citazione.
A quell’epoca, nella sala stampa della Commissione europea si parlava solo una lingua, il francese. Boris, come lo chiamavano tutti, il francese lo conosceva, ma lo parlava con un accento inglese esagerato, forse di proposito, perché tutto quello che faceva poteva essere letto in chiave goliardica, come se non avesse mai lasciato i banchi di Eton e di Oxford, dove aveva studiato dopo essere stato alla scuola europea di Bruxelles (suo padre era stato funzionario della Commissione europea dal 1973 al 1979).
Era l’epoca di un altro conflitto fra il Regno Unito e la Comunità europea, fra Jacques Delors (che aveva dietro di sé l’appoggio di due pesi massimi come Miterrand e Kohl) e Margareth Thatcher: la “lady di ferro” aveva appena ottenuto il “rebate”, lo sconto sui contributi britannici al bilancio comunitario, ma aveva appoggiato il progetto del mercato unico, e con il sostegno di Londra era stato possibile affermare (con la riforma dell’Atto unico europeo) il principio della maggioranza qualificata per le decisioni del Consiglio dei ministri, invece della paralizzante unanimità, per tutte le materie riguardanti l’unificazione del mercato.
Ma Thatcher era profondamente contraria a qualunque progetto di ulteriore integrazione, si opponeva alla moneta unica, non voleva neanche sentir parlare di federalismo e di “ever closer union”, l’unione sempre più stretta dei popoli europei prospettata dai padri fondatori.
Boris Johnson era il giornalista favorito di Thatcher, la voce dell’euroscetticismo in seno alla sala stampa di Bruxelles, che era per lo più “simpatizzante” di Delors. Con perfetto humour britannico, il corrispondente del Daily Telegraph confezionava storie su storie, esagerando, ridicolizzando, caricaturizzando le tante proposte di direttive, le norme per l’armonizzazione e la standardizzazione che Bruxelles sfornava ogni giorno proprio per realizzare il mercato unico, tanto caro a Londra.
Raramente inventava di sana pianta, ma le sue storie grottesche (mai vere al 100%) sulla taglia unica dei preservativi imposta a tutta l’Ue, sulla curvatura massima imposta per i cocomeri, sulla messa al bando dei croccantini da cocktail ai gamberetti (una leccornia per gli inglesi), sul divieto di vendere i palloncini ai bambini, sul divieto di riciclare le bustine di tè usate, sulla limitazione della potenza degli aspirapolvere, hanno appassionato l’opinione pubblica britannica, sono diventate un vero e proprio mito, una rappresentazione falsa ma potente e fermamente radicata nell’immaginario collettivo inglese, dell’Unione europea: estranea al Regno Unito, ridicola, pretenziosa, burocratica, invadente.
L’Ue, per Johnson, è una pseudo potenza continentale che cerca di imporre la propria dominazione all’ex Impero britannico, alla potenza geopolitica commerciale e marittima che aveva dominato il mondo intero durante la prima globalizzazione e che darebbe il meglio di sé tornando a navigare in mare aperto, aprendosi al commercio mondiale senza i legacci e gli ostacoli burocratici di Bruxelles.
Proprio per questo, sbaglia chi considera Boris Johnson come un nazionalista primario, anti europeo, pronto a fermare le frontiere e a chiudere le porte agli immigrati e persino agli studenti non britannici nel Regno Unioto. Non è questo che lo interessa, lui non vuole chiudere, ma aprire le frontiere; guarda all’Impero, alla supremazia britannica che gioca su tutto lo scacchiere internazionale, forte della sua egemonia linguistico-culturale. Il nuovo ministro degli Esteri britannico sorprenderà tutti, ci potete scommettere.