Calais – La tenda polverosa si scosta di un angolo appena: “It’s finished?”, chiede soltanto Abeed, senza muoversi dalla branda della sua baracca. Gli enormi occhi verdi scrutano la strada sconnessa e normalmente deserta, che si anima di un improvviso movimento. A creare scompiglio è il passaggio di una delegazione di eurodeputati in visita da Bruxelles, ma per tutti, qui, ogni evento inaspettato può voler dire solo una cosa: è finita, sono venuti a sgomberare la Giungla. Non c’è pace a Calais, da quando, alcuni giorni fa, sono iniziate a circolare, sempre più insistenti, le voci su un imminente sgombero totale del campo. “Dagli ultimi scambi che ho avuto con ambiente molto vicino a Cazeneuve, lo smantellamento della zona nord dovrebbe essere annunciato molto presto”, ha fatto sapere la sindaca della cittadina del nord della Francia, Natacha Bouchart. Secondo altre voci, la dismissione del campo sarebbe già programmata, addirittura a partire dal prossimo lunedì. Indiscrezioni rimbalzate sui giornali fino alle orecchie di chi, della Giungla, ha dovuto fare la propria casa.
Come Ali, che mi segue sciabattando nel fango per alcuni minuti prima di trovare il coraggio di avvicinarsi e chiedere: “Hanno deciso?”. È partito dal Sudan e arrivato qui sei mesi fa, passando dall’Italia, “un Paese buono”. Oggi vive in una piccola tenda da campeggio blu, arroccata su una duna di sabbia al centro della tendopoli. Come tutti, sogna Londra, il Regno Unito, ma intanto la Giungla è tutto quello che ha. I poliziotti li ha già visti arrivare, a marzo, quando è stata smantellata tutta l’area sud del campo e ha paura di vederli ricomparire di nuovo da un momento all’altro. Se vi mandano via cosa farai? Scuote la testa. Nessuna idea, nessuna prospettiva.
Nella Giungla le cose sono solo peggiorate, da quando ormai cinque mesi fa, lo Stato francese ha deciso di ridurre drasticamente l’area della tendopoli. “Oggi sono circa 7mila nel campo e considerando il turnover e i nuovi arrivi, ci sono circa 47 persone in più ogni singolo giorno”, fa i conti Annie Gavrilescu, volontaria nel campo con Help Refugees e L’Auberge des Migrants. Indica un campo di là dalla strada dove oggi crescono a ciuffi piccoli fiori gialli di colza: fino a pochi mesi fa era completamente coperto di tende. “Dopo lo sgombero abbiamo metà dello spazio che avevamo e circa 1.500 persone in più da ospitare”, spiega Annie, secondo cui oggi nel campo ci sono ben 608 minori non accompagnati. Ma dal giorno dello smantellamento, fa notare, la Giungla è sparita dalle pagine dei giornali, come se il problema fosse risolto. In molti pensano che non esista nemmeno più.
E invece è sempre lì, con le sue baracche, le sue vie, i suoi abitanti. Sì, perché ormai la Giungla si è trasformata in una piccola città. Brutta, certo. Sporca, povera, ma dove la vita prova impertinente a continuare. Lungo il “corso” principale tanti sorridono, hanno voglia di parlare. Come Abdul, che cucina cibo afghano, in un bel ristorante. Bello davvero: tessuti colorati a coprire le pareti della baracca, tavoli e sedie spaiati ma dignitosi e una vetrinetta piena di specialità. Come tutti, sogna di partire: di riuscire ad infilarsi in qualche camion e dire addio a queste baracche. Ma nel frattempo prova ad apparecchiarci una vita normale. Come lui, molti altri. Di ristoranti ce ne sono diversi, uno per ogni etnia. Un volontario mi racconta di avere incontrato, qualche sera fa, un gruppo di quindici persone che dall’esterno, si addentravano nella Giungla per cenare. A scandire le giornate c’è il canto del muezzin, che chiama alla preghiera nelle sei diverse moschee nate in questi mesi tra le tende. E poi c’è chi vende cibo, chi indumenti e scarpe, chi espone un cartello “lezioni di inglese”, chi per un euro cucina all’istante tre “London bread”, (che altro non sono che tipici pani arabi, ma è bello sognare un po’). In fondo alla strada, un barbiere ha adornato la sua vetrina con le bombolette di gas lacrimogeno che la polizia ha lanciato sui migranti negli scontri di questi mesi. Un bizzarro souvenir, per i pochi fortunati che riusciranno a partire. Sugli scaffali, anche qualche tinta per capelli, anche se di donne nel campo non c’è praticamente l’ombra.
La maggior parte di quelle che sono riuscite ad arrivare fino a Calais, si trova alcuni metri più in là, nel centro di accoglienza, Jules Ferry. Sorge ad appena pochi passi dal disordinato ammasso di tende della giungla, ma pare di essere in un altro mondo. Il vento forte ricorda che siamo ad appena un chilometro dal mare, invisibile in lontananza solo a causa dei bunker tedeschi costruiti sulla costa francese durante la seconda guerra mondiale. Qui tutto è più ordinato e funzionale, qui c’è lo Stato. È stato il governo, infatti, a decidere, ad aprile 2015, l’apertura di quello che tecnicamente è definito un “centro diurno” per migranti. In pratica qui, si può usufruire di una serie di servizi: “Pasti, docce, basi di ricarica per i telefoni, colloqui di orientamento e formazione e sono a disposizione anche alcuni autisti che possono accompagnare i migranti agli appuntamenti importanti, come all’ospedale o in prefettura”, spiega Barbara Jurkiewicz dell’associazione La Vie active a cui è stata affidata la gestione del campo. Qui, ogni giorno vengono distribuiti circa 3mila pranzi e 2mila 500 colazioni a chiunque si metta in fila, abitanti della Giungla oppure no. Nonostante l’ordine apparente, anche quest’isola non è esente dal rischio tensioni. Gli scontri ci sono e anche di frequente. A fine maggio, una rissa scoppiata tra afghani e sudanesi si è conclusa con sette feriti di cui due sono finiti in ospedale.
Per questo è stato pensato uno spazio separato per le donne e i bambini: chiuso da cancellate su tutti i lati, è protetto dal personale del centro come un santuario. All’interno dignitosi container bianchi, attorno a cui i bambini giocano e corrono sui loro piccoli tricicli. Potrebbero accogliere fino a 400 persone, ma le donne che ci dormono con i propri figli, per adesso sono appena 230. Non sempre i mariti, quando esistono, accettano di buon grado di lasciare spostare le mogli in un luogo in cui non possono accedere. Così le famiglie vengono spesso dirottate verso un’altra parte del centro, il cosiddetto CAP, centro di accoglienza provvisoria, anche questo composto di container bianchi, costruiti a spese dello Stato. Confortevoli certo non si possono definire, ma è un altro mondo rispetto alle tende della Giungla. I posti sono 1.500 e non bastano mai a soddisfare le richieste. Accanto all’entrata del centro, anche una piccola clinica, con tanto di farmacia, a cui si rivolgono circa 100-150 migranti al giorno. Ci lavorano due medici generalisti, uno psicologo, un infermiere e un traduttore, tutti dipendenti dell’Ospedale di Calais.
Il centro Jules Ferry non è l’unico angolo di costa francese in cui si è tentato di rendere più sopportabile la condizione dei migranti. Uscendo da Calais, percorrendo strade costeggiate da belle villette monofamiliari, che testimoniano che questa un tempo era zona turistica, si arriva a Grande-Synthe, altro comune della regione Nord-Pas-de-Calais affacciato sul mare. Anche qui, ci si è dovuti attrezzare, quando, a partire dallo scorso agosto, i migranti si sono improvvisamente moltiplicati e dalla sessantina che la cittadina era abituata ad ospitare si è arrivati a circa 2.800 nel giro di pochi mesi. “Vivevano nel fango, nell’acqua, c’erano 300 bambini, 200 donne e non potevo sopportare l’idea che qualcuno morisse di fame o di freddo nella mia città”. Così, Damien Careme, sindaco della città, in collaborazione con Medici Senza Frontiere, ha deciso di dare rapidamente vita ad un campo, ma che rispettasse tutte le norme internazionali. Un investimento non da poco: Msf ha sborsato due milioni di euro, il comune di Grande-Synthe, la cifra restante per arrivare ai tre milioni e mezzo di euro necessari ad approntare il cosiddetto camp de la Linière.
Inizialmente i migranti erano 1.300, oggi il campo è stato ridotto e c’è posto per 800 persone, per la grande maggioranza curdi iracheni. Tutti vivono in baracche di legno attrezzate, hanno a disposizione servizi sanitari, mensa e al centro del campo una piccola scuola, con maestre volontarie che arrivano un po’ da tutta Europa, tiene occupati i più piccoli. Da giugno, alcuni bambini sono stati inseriti anche nelle scuole della città e al rientro dalle vacanze altri dovrebbero fare lo stesso. Non c’è bisogno di polizia: probabilmente grazie all’omogeneità di etnia, gli incidenti sono davvero rari. Eppure, anche da qui, si pensa soltanto a scappare. Dani, trentenne iracheno, che nel suo Paese era un campione di sollevamento pesi, vive qui da nove mesi e ad arrivare nel Regno Unito ci ha già provato “molte molte volte”. Ma ogni volta, “no chance”, la polizia, i cani, e il sogno finisce. “Ma se starò qui altri nove mesi – mi assicura – ci proverò per altri nove mesi”.
A tutti, in questo angolo d’Europa, la fuga, sembra l’unica via. Ogni momento, ogni occasione, possono essere buoni. Mentre il pullman della delegazione degli eurodeputati si rimette in marcia per lasciare la Giungla e tornare verso Bruxelles un ragazzino, di nemmeno dieci anni si intrufola a bordo: “Bruuum bruuum”, ride. Non parla inglese, né francese, si riesce solo a fargli capire che il mezzo è diretto lontano, a Bruxelles. “Bilgium, bilgium”, grida sorridendo, per nulla scoraggiato. Un sogno di pochi minuti, poi qualche volontario viene a recuperarlo e lo riporta indietro. Verso le baracche, verso il fango. Nella direzione opposta alla strada che porta all’imbocco del tunnel, lontano dalla superstrada, ormai circondata dal filo spinato, che conduce al porto di Calais. Sotto il cavalcavia rimane beffarda la scritta: “London calling”.