di Giorgio Gattei e Antonino Iero
Abbiamo cominciato a pensare che la Brexit avrebbe potuto farcela quando abbiamo letto la notizia sorprendente che anche «nella City la finanza si spacca» (F. Giugliano, la Repubblica, 21.6.2016). Era mai possibile? Allora non c’erano soltanto anziani popolani spaventati dall’immigrazione straniera oppure industrialotti preoccupati dalle importazioni tedesche! Qui c’era dell’altro che andava ricercato e che finalmente abbiamo trovato.
Tra febbraio e marzo 2016 compare sulla stampa l’annuncio che la Borsa di Londra (tra l’altro proprietaria del 100% della Borsa di Milano) è prossima a fondersi con quella di Francoforte a realizzazione di un vecchio progetto tedesco testardamente perseguito da almeno una decina d’anni. Intervistato da la Repubblica (17.3.2016) commenta Davide Serra della Algebris Investments: «Vedo in questa operazione una grandissima lezione per l’Europa politica, continuamente divisa e inefficiente in mille campi… La creazione di questa holding unica indica la strada da seguire: presentarsi al resto del mondo, dagli americani ai cinesi, con una struttura forte e un vero mercato europeo… È una scelta logica che suona a merito dei tedeschi».
Ma quali sono le condizioni dell’accordo? Pur affermando platealmente che sarebbe stata una «fusione tra eguali», addirittura con la sede centrale a Londra «in omaggio alla legge di Wimbledon: non importa la nazionalità dei giocatori, il tennis che conta si gioca qui», tuttavia le partecipazioni azionarie sarebbero andate per il 54,4% ai tedeschi e per il 46,6% ai britannici; inoltre l’ad del London Stock Exchange, Xavier Polet, sarebbe stato sostituito da Carsten Kengeter, attuale ad della Deutsche Börse, «che non vede l’ora di trasferirsi sulle rive del Tamigi dove ha famiglia e domicilio» (U. Bertone, Il Foglio, 25.2.2016). C’è perciò da restarne perplessi e qualcuno nella City prende a parlare della «fine della indipendenza della Borsa londinese dopo 250 anni: per mano tedesca, per di più» (E. Franceschini, la Repubblica, 17.3.2016).
Che sia anche per questo che una testata “europeista” come l’Economist può avanzare la necessità che le autorità pubbliche blocchino la fusione, in quanto l’unione delle clearing house di proprietà delle due borse (LCH.Clearnet e Eurex) creerebbe un operatore con una spropositata concentrazione di rischio finanziario (The Economist, 2.4.2016)? Come che sia, quella fusione borsistica non può che impattare pesantemente con la campagna elettorale referendaria, tanto che il Daily Mail, decisamente schierato per la Brexit, intitola su due pagine: “Salviamo la nostra Borsa” (E. Franceschini, la Repubblica, 20.3.2016).
Naturalmente il referendum sulla Brexit era stato preannunciato indipendentemente ed anticipatamente dalla fusione. Il premier Cameron l’aveva proposto allo scopo di vincere le elezioni del 2015 convogliando anche i voti degli euroscettici sul partito conservatore (come poi è stato). Ma quando la notizia della Superborsa diventa di pubblico dominio, come pensare che non finisse dentro lo scontro tra exit or remain? C’è addirittura chi ha pensato che il momento dell’annuncio non sia stato fallimentare: dopo i tentativi falliti nel 2000 e nel 2004, «oggi Deutsche Börse torna alla carica entrando di fatto in campagna elettorale: una mossa calcolata o una clamorosa svista politica? Difficile dirlo, ma le probabilità che questa volta la fusione vada in porto non sembrano elevatissime» (P. Fior, Il Fatto Quotidiano, 23.2.2016). Poi la finanza ci ha messo anche del suo col Financial Times che, proprio a ridosso del voto, informa che, per favorire le economie di scala «determinanti per ottenere il sostegno degli azionisti delle due Borse», sarebbero stati licenziati 1.200 dipendenti nella sola City di Londra (Giornale del Popolo, 2.6.2016). Risultato? Nella opposizione alla fusione finiscono per coagularsi non soltanto sentimenti patriottici del tipo Britannia first, ma pure la sacrosanta difesa dell’occupazione.
Sappiamo poi che i sostenitori dell’uscita dalla UE hanno vinto (anche con l’adesione parziale della City?). E già si avvertono le conseguenze della Brexit che rischiano «di mandare a monte quelle nozze ad un passo dall’altare» (A. Olivieri, Il Sole 24 ore, 29.6.2016). Intanto i tedeschi, facendo la faccia feroce, insistono che adesso il quartier generale della Superborsa non potrà più stare a Londra bensì a Francoforte, essendo «difficile immaginare che la Borsa più importante nell’eurozona sia controllata da una città che si trova all’esterno dell’Unione» (come ha “esternato” il presidente della BaFin, che sarebbe la Consob tedesca). E poi si è rifatto vivo l’altro pretendente alle nozze con il LSE, da tempo in pista ma senza essere preso in considerazione, ossia l’americano Intercontinental Exchange che controlla (guarda un po’!) la Borsa di New York. Insomma, al momento attuale e come nel 1940 Londra è presa in mezzo tra il risucchio germanico e la fedeltà atlantica e c’è rischio (rischio?) che la “battaglia (per la Borsa) d’Inghilterra” finisca come allora. Sarà così? Parafrasando una poesia di Bertolt Brecht (che citiamo a memoria), «la Germania è molto esigente: vuole tutto o niente. Spesso penso che il mondo le risponda: niente!».
Pubblicato su Economia e Politica il 5 luglio 2016.