di Dario Guarascio, Federico Bassi, Francesco Bogliacino, Valeria Cirillo
A meno di un anno dal referendum greco, una nuova scossa ha investito il processo di integrazione europeo. Il 23 di giugno, la maggioranza assoluta dei votanti del Regno Unito ha deciso di abbandonare l’Unione europea. Si chiude così una vicenda iniziata con la mossa di Cameron, che nella campagna elettorale del 2015 promise il referendum per contenere il deflusso di voti verso gli estremisti dello UKIP.
Difficile negare che si tratti di una sorpresa: il leave ha vinto nonostante l’impatto emotivo dell’omicidio della deputata laburista Jo Cox e l’appoggio dato al remain da parte dei grandi partiti e dalla maggioranza degli intellettuali. Tuttavia, come segnalava Krugman sul suo blog, bisognava essere ciechi per non vedere arrivare una crisi di questo genere nel progetto europeo. L’analisi del voto mostra infatti risultati interessanti: da un punto di vista geografico, a votare per il leave sono stati per lo più i cittadini dei grandi centri urbani delle Midlands come Birmingham e vecchi distretti industriali delle West (59,3%) e East Midlands (58,5%). Aree che hanno sofferto intensi processi di deindustrializzazione e smantellamento di interi comparti produttivi, a seguito dell’applicazione delle ricette neoliberiste di origine thatcheriana portate avanti negli ultimi decenni con la benedizione dell’UE. I voti a favore del leave schizzano in centri medio-piccoli quali Mansfield (70.86%), Doncaster (68.98%), Sunderland (61.34%), Middlesbrough (65.48%), Scunthorpe (66.30%) in cui disoccupazione e povertà registrano valori superiori alla media nazionale. Città contro periferie, ricchi contro poveri, dirigenti e funzionari contro operai e lavoratori precari.
È bene chiarire quali sono i termini della questione. Il referendum non è vincolante: il parlamento è sovrano e può decidere di ignorarlo. Sarebbe una pessima decisione, che segnerebbe ancor di più il solco tra il popolo del leave e i rappresentanti politici nazionali. Inoltre, si profilerebbe come un regalo politico allo UKIP di Nigel Farage, da sempre antagonista alla costruzione politica ed economica della UE. Tuttavia, non sarebbe la prima volta che l’UE, o gli Stati membri direttamente, prendono la decisione di ignorare gli esisti dei referendum consultivi (il no danese contro Maastricht nel 1992, le sconfitte nei referendum sulla costituzione del 2005 in Francia e Olanda, e l’oxi greco). Adottando questa linea, alcuni parlamentari del Labour hanno già formalmente chiesto di ignorare il risultato, un dato che la dice lunga sulla “sintonia” che lega alcune componenti del partito di Corbyn e settori importanti della classe operaia britannica, che in larga parte ha votato per l’uscita.
Se si decidesse di andare avanti e appellarsi all’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea, che regola l’uscita di uno Stato membro dall’UE, da un punto di vista giuridico inizierebbe una negoziazione con la UE e verosimilmente una contemporanea adesione all’EFTA, l’area di libero scambio europea, di cui sono membri, oltre ai paesi dell’UE, l’Islanda, la Svizzera e la Norvegia. Il processo durerebbe un massimo di due anni ma la reale durata del processo potrebbe variare sensibilmente a seconda di come la situazione evolverà.
Le conseguenze economiche sarebbero, invece, determinate dai termini dell’adesione. Al momento, la linea di tensione più forte per l’economia del Regno Unito è il deficit esterno di circa il 5% del PIL, squilibrio che (sebbene di dimensione variabile) si trascina dal 1985. Il finanziamento di questo deficit non è in principio problematico, per tre ragioni: 1) la City di Londra è un polo attrattivo per i capitali; 2) il Regno Unito ha la propria moneta e si indebita in sterline, eliminando eventuali problemi di bilancio per la svalutazione in atto; 3) Londra condivide con la UE la strategia fallimentare fatta di austerità di bilancio e lotta all’inflazione. Basti ricordare che dal 2010 Cameron e Osborne han ridotto di 5 punti di PIL la spesa pubblica pur non essendo stretti nel cappio dell’euro.
Tuttavia, se si imponessero ai britannici dei termini “punitivi” di accesso all’EFTA, si potrebbe generare una pericolosa recessione nel Regno Unito moltiplicando le conseguenze economiche negative per la UE e alimentando ancor di più i rispettivi spiriti di rivalsa nazionalistica. Innanzitutto, il 5% del deficit esterno del Regno Unito si spiega per il 53% con l’import dall’UE (dati Eurostat), quindi non è nell’interesse economico dell’Europa castigare Londra, che copre il 10% dell’import intra-UE. Inoltre, questa sorta di rappresaglia suonerebbe come una minaccia imperialista che rappresenterebbe un ulteriore regalo elettorale allo UKIP. Tutte le altre proposte abbozzate, come castigare la City o offrire accordi tributari speciali per dirottare le sedi delle multinazionali verso la UE sono o inutili – i servizi finanziari sono il 7% del PIL inglese e si spiegano soprattutto con vantaggi comparati – o dannose, perché approfondirebbero la disuguaglianza che cresce ogni volta che aumenta la quota del capitale nel reddito. D’altra parte, anche il populismo inglese dovrà fare i conti con la realtà: l’accesso all’EFTA implica l’adozione di regolamenti e standard europei, l’accettazione delle norme sulla circolazione delle persone e un contributo economico, sebbene inferiore a quanto pagato alla UE oggi.
E l’Europa? Chi si preoccupa del progetto europeo in fieri, sa bene che le contraddizioni esistenti sarebbero esplose prima o poi. Che sia accaduto in Inghilterra, che tra tutti i paesi ha sempre avuto una certa resistenza ai processi di integrazione europea, si deve alle contingenze storiche. Il sistema istituzionale europeo è incapace di far fronte agli shock asimmetrici, con il risultato che ogni scossone aumenta le divergenze interne. La crisi del 2008 lo ha mostrato in modo chiaro, con l’austerità imposta ai paesi in crisi e i paesi più forti favoriti dai bassi tassi di interesse.
Dal 2009, il processo d’integrazione è andato avanti come mai prima d’ora. Tuttavia, ciò è avvenuto solo nella direzione di garantire un ambiente favorevole al capitale a dispetto delle montanti disuguaglianze e dei crescenti rischi di disintegrazione. Regole costituzionali contro il deficit di bilancio, ma non la mutualizzazione dei debiti; un’unione bancaria con regole di salvataggio, ma non l’assicurazione sui depositi. Una schizofrenia istituzionale che fa temere per quel che potrebbe accadere con un ministro delle finanze comune.
La stessa schizofrenia istituzionale è la causa prima degli esistenti problemi di gestione dell’immigrazione. Il turismo del welfare contro cui si scagliano i sostenitori del leave sono in effetti esacerbati dalla mancata convergenza dentro l’Unione, generando insofferenza nell’opinione pubblica. La legislazione e gli accordi recenti circa la gestione dei flussi migratori di cittadini non comunitari si stanno dimostrando incompatibili con i divari di reddito e le tensioni sociali crescenti negli Stati membri. Infine, paesi deboli come Grecia e Italia si trovano nella folle posizione di dover gestire la frontiera comune essendo nello stesso tempo vittime di austerità, e dunque privi delle necessarie risorse per farlo.
A questo punto, con un possibile effetto domino alle porte e ulteriori tensioni sulla strada dell’integrazione rimangono due sole strade possibili. Una maggiore integrazione, ancora una volta fondata su presupposti neoliberali e con la capital union a fare da perno; o un arretramento del medesimo processo di integrazione, con gli Stati membri a recuperare parte della loro sovranità politica ed economica. Nel primo caso, le garanzie che una maggiore integrazione non soffra degli stessi problemi di disegno istituzionali denunciati finora sono oggettivamente nulle. Politicamente, questo rischierebbe anche di favorire in modo sostanziale la crescita dell’estrema destra come le ultime elezioni hanno dimostrato.
Nel secondo caso, potrebbe aver luogo un accordo di cooperazione politico-economica, teso ad arretrare rispetto al processo di integrazione stesso, rimettendo in discussione, ad esempio, la libera circolazione dei capitali. Di fronte ad una destra arrembante e sempre più efficace nell’intercettare la rabbia antieuropea delle classi popolari, ogni opzione merita di essere presa in considerazione e valutata. Con l’unico metro possibile: quello delle condizioni di vita, di lavoro e soprattutto di agibilità politica delle classi che più stanno subendo le conseguenze dell’attuale configurazione europea.
Pubblicato su Sbilanciamoci! il 29 giugno 2016.