di Andrea Baranes
“Terremoto Brexit in Borsa”. “Brexit, i mercati bruciano 4.000 miliardi”. A Piazza Affari hanno impilato 4.000 miliardi in banconote e dato loro fuoco, mentre qualcuno preparava le bruschette da cuocere sul barbecue? Che significa “bruciati”? E perché per l’ennesima volta sono le conseguenze finanziarie a dominare il dibattito pubblico, con immagini che spaziano da “tsunami” a “catastrofe” a “panico”?
I mercati seguono la fondamentale legge della domanda e dell’offerta: se tutti vogliono le azioni della Pincopallino SpA (molta domanda) il prezzo sale; se tutti vogliono venderle (molta offerta) il prezzo scende. Se al mattino le azioni della Pincopallino valgono 10, ma nessuno le vuole, per liberarsene ci sarà chi proverà a venderle a meno. Se a fine giornata ci si è accordati per un prezzo di 9, la Pincopallino ha perso in Borsa il 10%. La mattina il totale delle azioni valeva magari un miliardo, la sera 900 milioni. «Sono stati bruciati 100 milioni» nel gergo tanto caro ai media.
Il discorso si può allargare a tutti i titoli in Borsa. A dispetto del barbecue citato sopra, non si è “bruciato” nulla. Il fatto che il valore delle azioni salga o scenda, in sé non significa nulla per l’economia produttiva. Nel momento in cui il valore delle azioni della Pincopallino scende, non diminuisce la capacità produttiva, non cala la qualità dei prodotti, non si perdono posti di lavoro. Non cambia la possibilità di ottenere credito in banca: solidità e affidabilità delle imprese quotate non dipendono dal capitale sociale quanto da parametri come l’indebitamento, la redditività e altri.
Questo è vero in assoluto, e a maggior ragione sui moderni mercati finanziari, dominati dalla speculazione e da operazioni di brevissimo termine, che hanno legami sempre più tenui con i fondamentali economici. Ed è vero a maggior ragione per il “sistema-Paese”, anche considerando che alla Borsa italiana sono quotate meno di 400 imprese.
È vero che gli azionisti perdono parte del loro investimento, ma questo fa di ogni crollo della Borsa la notizia più importante per tutti noi? I dati reali permettono forse di riportare le cose in prospettiva. Altreconomia ricorda come le famiglie italiane abbiano abitazioni di proprietà per 5.500 miliardi, mentre gli investimenti nelle imprese quotate a Piazza Affari ammontavano a quasi 100 volte di meno: 64,7 miliardi a fine 2014.
Non solo. Chi investe con un’ottica di lungo periodo – come dovrebbe essere per chi acquista azioni, non a caso definite “capitale di rischio” – dovrebbe potere fare fronte a bruschi cali, appunto perché non guarda all’andamento giorno per giorno, ma su un orizzonte di anni. Hai un problema se scommetti a breve come fa chi specula, molto meno se acquisti un titolo non in base ai singhiozzi del mercato ma guardando gli obiettivi di sviluppo di lungo periodo dell’impresa corrispondente, e magari ponendo attenzione alle ricadute sociali e ambientali del proprio operato, come fa la finanza etica.
Ancora, chi ha pochi risparmi solitamente non li mette in azioni, mentre i più ricchi in proporzione investono una parte maggiore del loro patrimonio. Lo stesso articolo di Altreconomia ricorda come il 30% delle azioni scambiate a Milano nel 2015 è riconducibile a cinque gruppi, tutti bancari. Il sito ZeroHedge segnalava in questi giorni che «la vera catastrofe del Brexit consiste nel fatto che le 400 persone più ricche del pianeta hanno perso 127 miliardi di dollari». Ci dispiace molto per loro, ma probabilmente la cosa ci riguarda fino a un certo punto.
Chi potrebbe davvero avere dei problemi, tanto per cambiare, è il mondo bancario, che già si trova in enormi difficoltà. In base alle regole attuali, la solidità e la capacità di concedere prestiti di una banca si misurano in base ad alcuni criteri patrimoniali. Se crolla la Borsa sono dolori per le banche quotate. Diverso il discorso per la finanza etica e cooperativa, fondata sulla partecipazione diretta delle persone che contribuiscono a un progetto acquistando delle quote il cui valore non dipende dai capricci dei mercati.
Il problema è che gran parte delle banche – almeno di quelle di maggiori dimensioni – è quotata in Borsa. Si rischia un effetto domino anche perché tanto a livello italiano quanto europeo la normativa si muove verso un modello bancario “a taglia unica”, cucito su misura per i gruppi di maggiore dimensione. Eccola allora, la vera catastrofe dei miliardi “bruciati” in Borsa: per l’ennesima volta la sfida è quella di tenere in piedi il sistema bancario, che non solo non riesce più a rilanciare e accompagnare lo sviluppo dell’economia, ma ne è la principale zavorra.
Ovviamente stiamo semplificando molto, probabilmente troppo, ma rimane il fatto che il crollo dei mercati è prima di tutto un problema per le banche quotate in Borsa. Come dire problemi interni alla sfera finanziaria che da una parte non sta in piedi e necessita per l’ennesima volta di salvataggi esterni, e dall’altra diventa il centro dell’attenzione politica e mediatica.
Dopo la Brexit già si parla di un “superfondo” per aiutare le banche, solo pochi mesi dopo il varo di Atlante, che avrebbe dovuto risolvere i loro problemi; si discute dell’art. 108 del trattato sul funzionamento dell’Unione che prevede di potere ricorrere ad aiuti di Stato in caso di “circostanze eccezionali”. La Brexit sicuramente lo è, eccezionale. Ma quello che davvero colpisce è che ancora una volta parliamo di come salvare il sistema finanziario da sé stesso. Ieri erano i subprime, oggi è la Brexit. Domani?
Servirebbe uno sforzo culturale per rimettere la finanza al suo posto, toglierla dal centro del mondo e riconsiderarla per quello che è: uno strumento al servizio dell’economia. Servirebbero regole diverse per cambiare alla radice questo sistema finanziario, invece di tenerlo artificialmente in piedi così com’è, piegando alle sue necessità l’intero funzionamento dei governi e dell’UE.
Servirebbe un approccio opposto a quanto si legge e si vede in questi giorni in una Europa dominata dalla finanza e nella quale diventa sempre più difficile riconoscersi. Purtroppo sembra che nemmeno questa lezione sia servita, e non riusciamo ad allargare lo sguardo per capire che tra titoloni, crisi di panico e fantastiliardi bruciati, le reazioni dei media e del mondo politico alla Brexit contengono probabilmente una delle principali spiegazioni per comprendere il perché nel referendum abbia vinto la Brexit.
Pubblicato su Sbilanciamoci! il 30 giugno 2016.