[di Maurizio Franzini]
Jonathan Ostry – vicedirettore del dipartimento economico del Fondo monetario internazionale formatosi a Oxford, alla London School of Economics e alla Università di Chicago – dopo avere prodotto, con diversi coautori, importanti studi empirici sul rapporto tra disuguaglianza e crescita, poche settimane fa ha pubblicato sulla rivista trimestrale dell’FMI, Finance and Development, un breve paper scritto con Prakash Loungani e Davide Ferceri, dal titolo Neoliberalism: Oversold? la cui principale conclusione è che alcune politiche distintive del neoliberismo – fortemente sostenute in passato dall’FMI – hanno sortito effetti opposti a quelli che ci si attendeva. Non sorprendentemente, il paper ha catturato l’attenzione dei media mondiali che lo hanno largamente interpretato come una smentita di se stesso da parte dell’FMI. Maurice Obstfeld, il capo economista dell’FMI, ha replicato a queste interpretazioni, parlando di evoluzione e non di rivoluzione del Fondo.
Ciascuno potrà valutare quanto convincenti siano i suoi argomenti. Queste note non sono dedicate alla coerenza dell’FMI – che naturalmente non è questione di cui ci si possa disinteressare – ma ai contenuti del paper e al loro legame con precedenti analisi condotte dallo stesso Ostry con altri coautori. La tesi è che questi lavori forniscano, nell’insieme, un quadro interpretativo molto interessante dei nessi tra politiche, disuguaglianza e crescita in grado di incidere se non sulle politiche concretamente adottate almeno sull’apparato concettuale ed empirico che, in un mondo razionale, dovrebbe ispirarle.
Inizierò ricordando che le due politiche neoliberiste sulle quali Ostry e i suoi coautori si soffermano sono: la liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali (specificamente quelli di breve termine), ottenuta rimuovendo gli ostacoli alla loro libera circolazione, e il consolidamento fiscale, o come si dice più di frequente le politiche di austerità. Queste due politiche si collegano a quelli che i nostri autori considerano i temi dominanti del neoliberismo, del quale, come è noto, possono darsi interpretazioni e definizioni molteplici e raramente convergenti (si veda, tra gli altri, R. Venugopal, in Economy and Society, maggio 2015). Tali temi sono: i) la maggiore concorrenza da realizzare attraverso la deregolamentazione e l’apertura dei mercati nazionali; ii) il ridimensionamento del ruolo dello Stato attraverso le privatizzazioni e l’imposizione di regole severe ai deficit pubblici.
Nel paper (che a sua volta si basa su altri lavori degli autori) si sostiene che queste due politiche hanno nel complesso mancato di raggiungere l’obiettivo – che si dava per certo avrebbero raggiunto – di elevare il tasso di crescita dell’economia in un sostanziale contesto di stabilità. Con riguardo alla liberalizzazione, l’effetto che viene sottolineato è quello della forte instabilità introdotta dai movimenti di capitale a breve termine, il cui ulteriore effetto sarebbe stato quello di determinare, a partire dal 1980, circa 150 ondate di afflusso di capitali nei paesi emergenti tradottesi, nel 20% dei casi, in crisi finanziarie alle quali spesso ha fatto seguito una vera e propria crisi economica. Il fenomeno è di entità tale da non poterlo considerare un effetto “minore” e secondario di quella politica.
Quanto al consolidamento fiscale, Ostry, Prakash e Ferceri pur muovendosi con cautela e tracciando distinzioni tra situazioni diverse, sostengono che la fortunata tesi dell’austerità espansiva – cioè, sostanzialmente, l’idea che alla riduzione della spesa pubblica seguirà un aumento della domanda e del reddito – non ha molto fondamento perché episodi di consolidamento fiscale sono stati seguiti più frequentemente da contrazioni che non da espansioni della produzione e dell’output. Secondo le loro stime un consolidamento della grandezza di 1 punto percentuale del PIL determina un peggioramento di 0,6 punti percentuali nel tasso di disoccupazione di lungo termine.
Questi elementi sono sufficienti per trarre la prima importante conclusione e cioè che non è facile individuare i benefici di queste politiche in termini di maggiore crescita. Dunque, questo è il loro primo difetto e in questo consiste il primo errore di chi – a iniziare proprio dall’FMI – ha sollecitato la loro adozione.
Il secondo punto di non minore importanza ma forse di maggiore novità riguarda l’attenzione per gli effetti di queste politiche sulla disuguaglianza. Con riferimento alle politiche di austerità, nel paper si afferma che un consolidamento della dimensione già ipotizzata di 1 punto percentuale fa peggiorare l’indice di Gini dell’1,5% nell’arco di 5 anni (un effetto tutt’altro che lieve). Gli effetti delle ondate di afflussi di capitali sulla disuguaglianza sono più consistenti, in modo particolare quando sfociano in una crisi: in questo caso il peggioramento dell’indice di Gini può superare il 3% nell’arco dei 5 anni successivi. Dunque, la seconda conclusione è che queste politiche, cosi poco efficaci nel favorire la crescita, determinano un peggioramento della disuguaglianza. La nota (e ben poco solida) teoria del trade-off secondo cui il prezzo per avere più crescita sarebbe rappresentato da una maggiore disuguaglianza è completamente invalidata da queste politiche che sembrano avere assicurato il peggio in entrambe queste dimensioni. Viene una certa nostalgia per il trade-off.
Ma vi è di più. I nostri autori sostengono che la maggiore disuguaglianza ha contribuito di per sé alla riduzione della crescita aggravando gli effetti del “peggio di tutto” che queste politiche hanno prodotto. Nel richiamare l’attenzione su questo aspetto, il paper fa riferimento a precedenti e importanti lavori di Ostry con vari coautori dai quali risulta, appunto, che, in generale, la maggiore disuguaglianza danneggia la crescita e, inoltre, che una riduzione della prima, soprattutto se deriva da minori disparità nei redditi di mercato e non da una più intensa azione redistributiva, può avere significativi effetti positivi sulla seconda. Dunque, niente trade-off, e ciò vuol dire che se la disuguaglianza peggiora anche la crescita peggiora. Esattamente quanto sembra essere successo a causa delle due politiche neoliberiste ricordate in precedenza.
Difficile negare che siamo di fronte a risultati di grande interesse e si deve anche riconoscere che quest’ultimo contributo di Ostry con i suoi coautori va a completare un mosaico interpretativo avviato nei precedenti lavori. Il primo passo è stato quello di negare il trade-off tra disuguaglianza e crescita (peraltro in linea con un gran numero di precedenti contributi teorici ed empirici) affermando, come Ostry e Berg fecero già nel 2011, che quel trade off non esiste. La crescente disuguaglianza era causa di crescita meno duratura e, dunque, anche più bassa nel lungo periodo.
Allora, si cercò di dare conto di questa relazione sostenendo che la disuguaglianza favorisce le crisi finanziarie, crea instabilità politiche che indeboliscono gli investimenti e può rendere più difficile per i governi prendere decisioni impopolari ma necessarie in presenza di shocks, come il taglio della spesa pubblica o l’aumento delle tasse per evitare una crisi di debito. Queste interpretazioni appaiono un po’ limitate anche a causa della mancanza di un preciso giudizio sulle politiche e le loro responsabilità. Anche in questo senso il paper più recente marca un passo in avanti perché permette, in vario modo, di tracciare legami più completi e più complessi tra politiche, disuguaglianza e crescita.
Questo passo avanti consente, peraltro, di giungere a una conclusione che può essere così sintetizzata: le politiche neoliberiste (o almeno alcune di esse) sono state causa di maggiore disuguaglianza senza assicurare maggiore crescita e, a causa della mancanza di trade-off, hanno anche contribuito al rallentamento della crescita. Di nuovo, non si tratta di un risultato da poco. È anche importante che si inizi a valutare l’impatto che le politiche hanno sulla disuguaglianza; queste valutazioni diventano specialmente necessarie in assenza del trade-off, cioè se ridurre la disuguaglianza è un mezzo per sostenere la crescita e, dunque, per raggiungere quelli che dovrebbero essere due beni (meno disuguaglianza e più crescita).
Un segnale positivo in questa direzione viene anche dall’OCSE. Un intero capitolo dell’ultimo Economic Outlook è, di fatto, dedicato proprio a questo tema, troppo a lungo trascurato. Lo sforzo è quello di verificare gli effetti che varie politiche hanno sulla disuguaglianza nei redditi e sulla produttività, la cui dinamica, nell’interpretazione dell’OCSE, è strettamente collegata a quella della disuguaglianza. Le politiche a cui si fa riferimento non sono soltanto quelle redistributive e l’attenzione è rivolta agli effetti che esse possono avere sulla disuguaglianza nei redditi di mercato. Si potrebbe dire che si cerca di determinare gli effetti pre-distributivi delle politiche, riconoscendo almeno implicitamente importanza alla pre-distribuzione, sulla quale ci siamo soffermati di recente sul Menabò.
Le politiche esaminate dall’OCSE sono, ad esempio, quelle relative alla composizione della spesa pubblica, quelle di regolazione dei mercati del lavoro, quelle di innovazione e quelle di tassazione. I risultati in molti casi non sono robusti e ulteriori analisi sono necessarie. Ma emerge con chiarezza l’importanza del disegno specifico delle singole politiche e la fecondità di questa linea di analisi. Cito un solo esempio interessante: le politiche per l’innovazione possono avere effetti forti di riduzione delle disuguaglianze se favoriscono la crescita della produttività delle imprese più lontane dalla frontiera tecnologica e nelle quali le retribuzioni sono in media, e in modo generalizzato, più basse.
Questi lavoro aprono, dunque, nuove prospettive e indicano due fattori che possono portare all’abbandono delle peggiori politiche neoliberiste, che rischiano di avere come esito l’aggravarsi di due mali. I due fattori sono una revisione dell’importanza da assegnare alla riduzione della disuguaglianza, una maggiore conoscenza e consapevolezza degli effetti che le politiche (non soltanto redistributive) esercitano sulla disuguaglianza.
Naturalmente si tratta di una possibilità. La certezza che questo avverrà non siamo autorizzati a nutrirla. E vi è, in realtà, da chiedersi come l’FMI e l’OCSE potranno spendere politicamente il prezioso tesoretto di conoscenze che stanno contribuendo a creare. Ad esempio, vi è da chiedersi come si combini con tutto questo il ruolo che l’FMI sta svolgendo nella gestione del debito greco (e nella condizionalità conseguente). Daniel Gros ha recentemente documentato alcuni aspetti paradossali di questo ruolo, che tali sono malgrado la dichiarazione da parte dell’FMI di essere a favore di una riduzione del debito greco. Particolarmente significativo è il fatto che l’FMI sia un creditore particolarmente oneroso in termini di tassi interesse. Il terribile dubbio è che esso possa trarre diretto vantaggio dall’applicazione delle politiche che generano i mali di cui si è ampiamente discusso in queste note. E che anche altri, chissà quanti, possano continuare a imporre i propri vantaggi anche ora che le teorie in grado di giustificare quei vantaggi sembrano nude come il re.
Pubblicato su Etica ed Economia il 19 giugno 2016.