La storia, sperano gli ottimisti tra i quali ci piace essere anche noi, forse non è finita. Forse ci sono ancora spazi per un passo indietro della Gran Bretagna verso l’Unione europea. I segnali però non sono dei migliori, e comunque c’è stato un voto popolare esplicito, che va rispettato in maniera assoluta, qualche che sia il giudizio sull’esito o sulla sua genesi.
Passata la tempesta della prima settimana dopo il voto non possiamo andare avanti così, con una guerra senza sangue latente e un futuro troppo incerto. Le imprese sono preoccupate e rallentano investimenti e assunzioni, le agenzie di rating stanno iniziando a penalizzare la Gran Bretagna e da oggi anche l’Unione europea, il clima sociale e politico si scalda istituzioni comuni e bilaterali rischiano di rimanere ingessate. Non si può assolutamente favorire un clima del genere, Unione europea e Gran Bretagna, i politici responsabili di Ue e Uk, devono assumersi la responsabilità di gestire al meglio quel che è accaduto, senza pensare di lavorare ai fianchi l’ex partner per ottenere o un passo indietro verso il remain o vantaggi ingiusti pur realizzando il leave. Il messaggio da mandare ai cittadini non è quello “di far paura”, di punire coloro che hanno scelto di uscire o terrorizzare quelli che pensano che sia opportuno farlo in altri paesi.
L’unica risposta seria, ora, che può anche essere portatrice di frutti positivi, è che Londra e Bruxelles si siedano a un tavolo e programmino la gestione della separazione. Certo, qualche collega oggi ci diceva che nella parte britannica del tavolo le sedie sono vuote. David Cameron si è dimesso e il suo successore con ogni probabilità non siederà sulla poltrona di leader conservatore, e quindi su quella da primo ministro, prima del nove settembre. E’ vero. Ma è anche vero che Cameron ora è un primo ministro in carica, che pur se (vigliaccamente) rifiuta di essere quello che dà corso al referendum che lui stesso ha indetto, in queste poche settimane che restano, consultandosi con il partito e i candidati che probabilmente resteranno nel duello finale, Theresa May e Michael Gove, almeno un’agenda di lavori di massima, un documento che attesti la volontà di collaborazione con Bruxelles può lavorarlo.
Non si tratta di violare il principio, giusto secondo noi, fissato da Jean-Claude Juncker del “no negotiations without notification”, si tratta solo di porre delle basi politiche per la separazione tra due amici che soltanto non vogliono più vivere insieme, ma che non si stanno facendo la guerra. Questo è il rischio, che esacerbando gli animi, lavorando per stringere Londra nell’angolo o, dall’altra parte, esasperando l’attesa di Bruxelles, i rapporti più che amichevoli stabiliti da decine di anni e rafforzati in questi quaranta di convivenza, pur difficile, nell’Unione si trasformino in un’acredine dannosa, evidentemente, per tutti. O anche solo in una perdita di tempo prezioso, e tempo non ne abbiamo, né noi né i britannici. Le sfide dell’economia, della finanza, del terrorismo, delle guerre e anche dei diritti civili non possono essere messe in attesa neanche un giorno. Certo, la scelta dei britannici porta inevitabilmente ad un rallentamento, non fosse altro perché cambierà il primo ministro e dunque ci sarà un periodo di stallo. Ma possiamo fare in modo che questo non diventi troppo grave.
Collaborare, da subito, da oggi, per organizzare il percorso di uscita non può che far del bene a tutti, può permettere di scoprire al più presto le tante cose che ancora nessuno sa su cosa davvero significa la separazione per Gran Bretagna e Unione europea, sugli effetti che potrà avere sciogliere quei mille legami che ci sono e a riflettere su cosa potrebbe voler dire perdere magari l’unità con Scozia e Irlanda del Nord. Può aiutare i leavers a rendersi conto di cosa vuol dire andare da soli (magari è un gran bene, anche se non ci crediamo), può aiutare l’Unione a capire alcuni degli errori fatti e che hanno allontanato i cittadini, non solo oltremanica. E per noi, inguaribili, forse illusi ottimisti, magari potrebbe anche aiutare a un ripensamento e portare ad un nuovo referendum.