di Carlo Clericetti
La stragrande maggioranza dei deputati del Labour, 176 contro 44 – ossia oltre l’80% – ha sfiduciato il segretario del partito Jeremy Corbyn. Un voto che non ha un valore istituzionale, perché non è previsto che lo abbia dallo statuto del partito, ma che sembrerebbe avere un valore politico definitivo. Se l’80% dei tuoi deputati non ti vuole, con che coraggio puoi rifiutarti di dimetterti?
Guardando un po’ più a fondo, però, se ne può ricavare qualche riflessione utile a interpretare anche un fenomeno apparentemente senza connessione con le vicende del Labour, ma che, ciò nonostante, risponde alla stessa logica. Come mai le varie teorie economiche che indichiamo comunemente con il nome generico di neoliberismo continuano ad essere seguite dalla maggior parte degli economisti nonostante le pessime prove che hanno dato nella pratica?
Cominciamo dal Labour. La segreteria Corbyn deve ancora fare i conti con più di un quindicennio in cui il partito era stato dominato da Tony Blair (che ne era arrivato alla guida nel 1994) e poi da Gordon Brown. In realtà una prima cesura c’è stata con il segretario precedente, Ed Miliband, in carica dal 2010 al 2015. Miliband, fratello dell’ex ministro degli esteri con Brown – e blairiano – David, è già una svolta e tenterà di mandare in soffitta il New Labour e la sua resa pressoché completa al neoliberismo. Non riuscirà, però, a cambiare in maniera sostanziale l’establishment del partito, e soprattutto i parlamentari, che resteranno – e sono tuttora – in larghissima maggioranza quelli selezionati dal partito di Blair e in consonanza con le sue posizioni. Otterrà, però, una modifica del sistema di elezione del segretario, riducendo il peso del gruppo parlamentare e aumentando quello dei militanti. È grazie a questo che Corbyn ha conquistato la guida del partito contro tutte le previsioni, che gli assegnavano possibilità di vittoria inesistenti. Insomma, la base del Labour è ancora in maggioranza socialdemocratica, mentre per i parlamentari è il contrario, sono quasi tutti figli della presunta “terza via” blairiana. Hanno accolto Corbyn come un cane in chiesa e hanno cominciato immediatamente a fargli la guerra, fin dalla formazione del primo “governo ombra”.
Il tentativo di contrattacco dell’ala blairiana era iniziato con le elezioni del 2015, vinte dai Tory di Cameron, che avevano provocato le dimissioni di Miliband. «Spostandoci a sinistra non torneremo mai al governo», è il ritornello fin da allora. Qualcosa di simile ai critici italiani della “sinistra che fa perdere”. Una posizione che sembra trascurare del tutto un dettaglio: vincere è importante, certo; ma se la sinistra per vincere deve trasformarsi in destra – come aveva fatto Blair, come ha fatto Renzi – non si vede quale sia il vantaggio del risultato finale, se non per le persone che in questo modo riescono a conquistare una poltrona.
In realtà, il Labour di Miliband non era andato male. Aveva perso, è vero, 25 seggi rispetto a quelli precedenti, ma il fatto era dovuto interamente al successo degli indipendentisti scozzesi (ancora più a sinistra del Labour di Miliband) che avevano conquistato tutti i collegi della Scozia, strappandone molti proprio al Labour. Ciò nonostante, come numero assoluto di voti il Labour era aumentato dell’1,5%: quasi il doppio dello 0,8% dei Tory, che però grazie a questo – e soprattutto al sistema elettorale britannico – avevano preso ben 28 seggi in più. Alle successive primarie del Labour quasi tutti i candidati erano blairiani: immaginarsi lo scorno per la vittoria di Corbyn con il 59,5% dei voti al primo turno. Non l’hanno digerito, e ogni pretesto è buono per un nuovo attacco: anche l’accusa a Corbyn di non aver fatto abbastanza per il “Remain”, nonostante le ricerche che dicono che il 68% dei laburisti ha rispettato le indicazioni del partito, mentre oltre metà dei Tories non ha seguito le indicazioni di Cameron. Insomma, la vecchia guardia, perdente nel partito – cioè tra gli elettori – non avendo buone carte in mano continua a tentare di rovesciare il tavolo.
Che c’entra questo con gli economisti di cui dicevamo all’inizio? C’entra perché funziona lo stesso meccanismo. Negli ultimi 40 anni gli economisti neoliberisti hanno conquistato l’egemonia, hanno invaso le università, i posti di comando, i posti di “consigliere del principe” (anche perché agli attuali “principi” la loro visione del mondo piace molto, si accorda con le politiche di destra come il cacio con le pere). E dunque non solo l’economia che si insegna nelle università è prevalentemente quella, ma soprattutto se vuoi far carriera è meglio che tu sia omogeneo a quella visione. Anche l’economia, dunque, è prigioniera di chi ha vinto nel passato e non ha intenzione di tener conto delle conseguenze di quelle teorie. Ma come la base del Labour a un certo punto ha detto basta ai blairiani, oggi i cittadini hanno cominciato a dire basta alle politiche che assumono come alibi quelle teorie economiche: dovunque la cosiddetta “governabilità” è sempre più difficile, perché crescono le forze politiche che si oppongono ai partiti di governo. Purtroppo la storia ci dice che nella maggior parte dei casi l’uscita da queste situazioni non è nel segno della democrazia. Speriamo che non ci tocchi di vedere di nuovo anche questo.
Pubblicato sulla Repubblica il 29 giugno 2016.