di Maurizio Sgroi
Nel confuso succedersi di ragionamenti che provano a dar senso a ciò che non ce l’ha, non mi stupisco più di tanto nello scoprire che ciò che fino a pochi mesi fa era stato giudicato una panacea per l’economia internazionale – il calo del petrolio – oggi viene osservato come una preoccupante fonte di problemi. Col senno di poi potevano anche immaginarlo: in un’economia che bordeggia la depressione completando spaventata l’abisso del cosiddetto new normal, ogni spinta deflazionista aggiunge attrazione gravitazionale verso il basso. E il petrolio non poteva certo fare eccezione. Siano i corsi di borsa, o i rendimenti obbligazionari, le materie prime o quel che volete voi, ogni qual volta una classe di asset si deprime rischia di contagiarsi agli altri.
Nel caso in ispecie, l’alert lo ha lanciato di recente la BCE, nel suo ultimo bollettino economico, dove ha dedicato un box all’analisi delle implicazioni globali sostanzialmente negative del basso costo del petrolio, che fa da controcanto ai tanti che le banche centrali hanno rilasciato da inizio del 2015 per dire che il petrolio low cost era una manna dal cielo, salvo magari per gli effetti sull’inflazione, ma a quella ci avrebbero pensato loro con il QE.
Un po’ di storia recente aiuta a inquadrare il problema. Dalla metà del 2014 i prezzi del petrolio hanno iniziato a collassare raggiungendo, ai primi del 2016, il livello più basso degli ultimi dieci anni. Dal giugno del 2016 al gennaio del 2016 il prezzo del Brent, che è uno dei benchmark dei prezzi petroliferi, è diminuito di 82 dollari al barile, circa il 70%. Da allora il barile ha recuperato circa 17 dollari e i future vedono solo timidi rialzi all’orizzonte.
Il punto saliente dell’analisi della BCE è che nel frattempo sono cambiati i driver che hanno determinato questo calo. Mentre nella prima parte del periodo il calo fu guidato dall’abbondanza dell’offerta, almeno secondo la ricostruzione della BCE, mentre nella seconda fase a guidare il calo è stato l’indebolimento della domanda. combinandosi i due movimenti hanno avuto effetti sia a livello microeconomico che a livello macro.
L’abbondanza di offerta, infatti, è stata provocata dalla massiccia attività di investimenti in alcuni settori innovativi come lo shale oil, che fra le altre cose ha determinato un pesante aumento dell’indebitamento delle imprese di settore (anche se questo la BCE non lo dice). Ma ciò che conta è che il presunto effetto benefico, determinato dal trasferimento di ricchezza dal paesi produttori a quelli importatori – che nella convinzione comune avrebbero dovuto aumentare la domanda aggregata in virtù della loro maggiore propensione alla spesa – adesso si è invertito. «Dalla seconda metà del 2015 il driver del calo del petrolio è la domanda debole – spiega – e questo suggerisce un impatto meno positivo sull’economia globale». E il fatto che la spesa degli importatori possa essere favorita da questo calo non è detto che compensi «l’effetto globale di una domanda più debole».
Per supportare questo ragionamento è stato costruita una simulazione, secondo la quale un 10% di calo dei corsi petroliferi guidato da un eccesso di offerta aumenterebbe il PIL mondiale fra lo 0,1 e lo 0,2%, mentre lo stesso declino, guidato però da un calo di domanda, diminuirebbe il PIL di più dello 0,2%. «Se ipotizziamo che il 60% del calo iniziato nel 2014 sia stato guidato dall’offerta e il resto dalla domanda, il modello suggerisce che l’impatto combinato di questi due shock sarebbe vicino a zero per il PIL mondiale o leggermente negativo». Il che sarebbe comico, se non fosse tragico. O il contrario, se preferite.
Peraltro l’esperienza di questi anni, aggiunge ancora, «potrebbe aver danneggiato le aspettative che ipotizzavano un impatto positivo del basso costo del petrolio sull’economia». Forse perché «l’impatto avverso del calo del petrolio sui paesi esportatori appare esser stato piuttosto grave, ed è stato accompagnato da ricadute negative su altre economie di mercato emergenti» e al tempo stesso «la ripresa della domanda in diversi paesi importatori di petrolio causata dai prezzi del petrolio più bassi è stato finora piuttosto limitata». Ciò perché non è accaduto, come era stato ipotizzato, che il maggior reddito si trasformasse in consumo. Il modello, evidentemente, non prevedeva che quella maggiore disponibilità fosse risparmiata o venisse utilizzata per pagare i debiti. «Per esempio – osserva ancora – un aumento dei risparmi personale in alcuni paesi potrebbe essere collegata al bisogno di deleveraging che può aver spinto le famiglie a risparmiare di più».
Al tempo stesso alcuni governi dei paesi esportatori, che hanno risparmiato risorse diminuendo i sussidi, hanno utilizzato questi risparmi non per stimolare la domanda, ma per consolidare la situazione fiscale. E gli esempio potrebbero continuare.
Vale la pena intrattenersi solo sull’ultimo, che riguarda gli USA, che per stazza economica e geopolitica si può dire faccia la differenza. Ebbene, negli USA «uno dei più grandi importatori di petrolio», i benefici per il consumo derivanti da un costo del petrolio «sono stati più piccolo di quanto inizialmente anticipato e largamente controbilanciati dalla drastica caduta negli investimenti energetici» che sono crollati del 65% generando un impatto avverso significativo sul USA (vedi grafico). Tuttavia, in termini netti, conclude, l’impatto del calo petrolifero è stato «modestamente positivo».
Se pensate che sulla convinzione che il petrolio low cost avrebbe giovato all’economia gli Stati (e i privati) ci hanno costruito i bilanci, presenti e futuri, queste osservazioni della BCE dovrebbero restituirci una maggiore consapevolezza del tempo in cui viviamo. Un tempo bugiardo.
Pubblicato sul blog dell’autore il 27 giugno 2016.