di Tonino Bucci
Di colpo è come trovarsi proiettati all’indietro di cento anni e passa. Era l’Europa del 1914 e nelle trincee cominciavano a tuonare i cannoni. Ma prima ancora avevano cantato le bocche da fuoco della propaganda culturale. Nei paesi belligeranti, inglesi e francesi da un lato, tedeschi dall’altro, era iniziata la mobilitazione di intellettuali e organi d’informazione. Nella Germania guglielmina persino i nomi più prestigiosi della cultura tedesca finirono per scendere in campo, se non direttamente al fronte, nel Kulturkampf dell’epoca, Thomas Mann in testa.
In questi giorni si è sentito un po’ di tutto sul conto degli scenari che si aprirebbero dopo il referendum sulla Brexit: allarmi, semplificazioni, toni apocalittici, banalità, in un clima di isteria generale. Molti degli strali lanciati agli inglesi, rei di tirarsi fuori per sfuggire ai doveri, hanno riportato in auge i vecchi schemi mentali dei nazionalismi contrapposti.
Brexit o meno, la Germania teme il futuro. Per quanto la cancelliera Merkel ostenti calma e tranquillità, i tedeschi non possono dormire sonni tranquilli. L’economia va, ma fino a reggono le esportazioni, che sono state il motore del surplus commerciale accumulato dalla Germania in tutti questi anni. Anche i conti pubblici sono in ordine, grazie in parte agli interessi negativi sui titoli di Stato. Ma qualche increspatura si vede. Proprio in questi giorni il Fondo monetario internazionale ha corretto al ribasso le previsioni di crescita dell’economia tedesca. Senza neppure tenere conto delle conseguenze della Brexit, il report dell’FMI riconosce alla Germania ancora per quest’anno una crescita di segno positivo dell’1,7 per cento, ma per quello futuro dovrebbe scendere sotto quota 1,5. Pochi investimenti, soprattutto nelle infrastrutture, ed età pensionabile da rivedere al rialzo, sarebbero le cause secondo quanto scritto nel documento.
Qualche mese fa il famigerato ministro delle finanze Wolfgang Schäuble si recò a Londra, ospite della camera di commercio britannica. Alla domanda quale sarebbe stata la reazione della Germania a un’eventuale uscita degli inglesi dall’UE, il ministro rispose, «piangeremmo». Soprattutto negli ambienti economici affiora un certo nervosismo gli effetti della Brexit sulla Germania. «La Gran Bretagna potrebbe essere la prima tessera di un domino» e da qui potrebbe nascere «un meccanismo che spingerebbe la Germania verso la recessione», ha ammesso in questi giorni il presidente del DIW (l’istituto tedesco per la ricerca economica). Il contrasto del nervosismo dei think thank finanziari con la calma ostentata da Angela Merkel è evidente. «La Gran Bretagna – per dirla con le parole di Michael Wohlgemuth, direttore del think thank Open Europe – è il terzo partner commerciale per importanza della Germania. Molte imprese tedesche come Siemens, Bosch e BMW sono massicciamente impegnate con investimenti in Inghilterra».
Insomma, a rimetterci sarebbe soprattutto l’economia tedesca legata alle esportazioni, «in primo luogo l’industria automobilistica, seguita a ruota dal settore degli elettrodomestici, da quello dei servizi finanziari e, infine, dalle banche», secondo i dati della Camera di commercio britannica in Germania. L’uscita della Gran Bretagna porrebbe di nuovo all’ordine del giorno la creazione, come un tempo, di dazi e barriere doganali. La bilancia commerciale tra britannici e tedeschi ammonta a 177 miliardi di euro (dati della Bundesbank che si riferiscono al 2014). Il segno più è attualmente a favore della Germania. Il paese di Angela Merkel esporta merci e servizi in Gran Bretagna per un valore di 91,9 miliardi e ne importa da questa per un corrispettivo di 44,1 miliardi, per un saldo positivo di 47,8 miliardi.
Qualche preoccupazione, però, riguarda le possibili novità negli equilibri politici dell’Europa. Fino a oggi gli inglesi si sono ritrovati spesso fianco a fianco con i tedeschi nelle decisioni all’interno della istituzioni europee. «Senza la Gran Bretagna i rapporti di forza nel consiglio dei ministri e nel consiglio europeo si spostano platealmente a favore dei paesi dell’Europa del sud». Su temi come la liberalizzazione dei commerci e liberi mercati la Germania ha potuto sempre contare sull’appoggio della Gran Bretagna. Calme, ma dure, del resto, suonano le dichiarazioni che la stessa Angela Merkel è andata ripetendo in più occasioni in questi giorni. «Noi garantiremo che le trattative non vengano condotte secondo il principio del prendere solo ciò che piace. Deve essere chiara la distinzione se un paese vuole essere membro della famiglia dell’Unione europea oppure no. Chi vuole uscire da questa famiglia non può aspettarsi che i doveri decadano, mentre i privilegi continuino a sussistere. Quel che posso consigliare agli amici britannici è di non farsi illusioni riguardo alla necessità delle decisioni che devono essere prese».
Il messaggio lanciato dalla cancelliera è che il governo britannico debba attivare la richiesta di recedere dall’Unione europea – secondo quanto previsto dall’articolo 50 del Trattato – senza che ci siano prima trattative sugli equilibri della futura UE, né formali, né informali. Il timore è che la vicenda vada per le lunghe. Prima che vengano fissate le modalità per l’uscita dei britannici, l’economia dell’UE rischia di rimanere paralizzata a mezz’aria. I vertici dell’Unione temono conseguenze negative per i mercati finanziari, gli investimenti, il mercato del lavoro e gli accordi in campo internazionale, TTIP innanzi tutto. Angela Merkel manda anche un messaggio agli altri paesi membri per rassicurarli che nel corso della vicenda i loro interessi verranno tutelati dalla Germania. «Questo significa che le trattative con un futuro Stato terzo non porteranno in nessun caso a mettere in discussione le conquiste dell’unità europea per i 27 Stati membri». Ma, a vederla da un’altra prospettiva, il messaggio suona anche come una sorta di avvertimento proprio ai paesi membri che in futuro potrebbero essere tentati dal percorrere la stessa via dei britannici e uscire dall’UE. Chi esce non può illudersi di ottenere vantaggi – è la sintesi della posizione tedesca. Ai tedeschi, in particolare, si rivolge la cancelliera. «Nella trattativa il governo federale avrà sempre gli occhi rivolti agli interessi dei cittadini e delle imprese tedesche».
Anche chi, in teoria, tra le forze politiche tedesche guarda con favore al risultato britannico e potrebbe, sempre in teoria, proporre una strategia di uscita dall’UE anche per la Germania, è in questi giorni stranamente cauto oltremisura. Il partito che non ha mai fatto mistero del proprio euroscetticismo, che propone nientemeno il ritorno al marco, non pigia sull’acceleratore. Parliamo della AfD (Alternativa per la Germania), un movimento populista di destra, in forte ascesa come dimostrano le recenti elezioni in alcuni Länder del paese. La presidente del partito, Frauke Petry, sostiene che la Brexit è un segnale che occorrono riforme radicali dell’UE, eppure non si è sbilanciata nel proporre un referendum analogo anche in Germania. Fino a ieri la posizione ufficiale dell’AfD era la richiesta di referendum in tutti gli Stati membri per decidere la permanenza o meno nella moneta unica. Ora sembra che nel partito ci sia preoccupazione per l’ostilità di gran parte dell’opinione pubblica nei confronti della Brexit e che questi umori possano indirizzarsi anche contro l’antieuropeismo della stessa AfD. Così si è messo a punto un programma in tre fasi: dapprima occorre avviare trattative “amichevoli” con la Gran Bretagna per la sua uscita; in seguito, l’UE dovrebbe trasformarsi in un’associazione di stati nazionali sovrani con un mercato interno comune; solo a questo punto, qualora le condizioni precedenti non fossero soddisfatte, si dovrebbe tenere un referendum.
Come non notare, infine, la differenza di trattamento che, appena un anno fa, venne riservato alla Grecia, ad un passo dall’abbandonare l’Unione europea per rischio fallimento. I toni con i quali allora ci si rivolgeva ai greci erano spigolosi, come quelli di chi preferirebbe abbandonare l’interlocutore al proprio destino. In quell’estate di un anno fa nessuno sentì battere il cuore europeista della cancelliera che, di fronte a un governo di sinistra radicale, scelse un comportamento intransigente, punitivo, non negoziabile, praticamente un ultimatum: o mandar giù la minestra o uscire dalla finestra. Oggi, a differenza di allora, si sprecano invece le esternazioni affrante e di rammarico per la crudele decisione dei britannici di abbandonare la casa comune. E se, almeno a parole, nessuno vuol fare sconti alla Gran Bretagna e l’UE chiede agli inglesi di avviare la procedura di uscita senza perder tempo, dall’altro lato, la tentazione di aggirare i risultati del referendum con qualche trucco è forte. Una strategia alla quale l’Europa ci ha abituato.