di Riccardo Realfonzo
L’affermazione dell’“exit” al referendum britannico apre una crisi che oggi vede uscire il Regno Unito dall’Unione europea e che in breve tempo potrebbe vedere sgretolarsi l’eurozona. È il caso di dire che i nodi vengono sempre al pettine, e per una volta nessuno potrà dire che gli economisti non avevano avvertito.
Già nel giugno 2010, ai primi segni di crisi dell’eurozona, una lettera pubblicata da economiaepolitica.it e sottoscritta da trecento economisti italiani e stranieri, lanciò un allarme sul modo in cui i governi europei reagivano alla crisi e soprattutto sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità” imposte dai trattati, che avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. Ma quell’allarme rimase inascoltato.
Nel novembre 2013 il Financial Times pubblicò il “monito degli economisti”, con il quale insieme ad alcuni celebri studiosi di tutto il mondo sostenevamo che in assenza di una svolta espansiva e di uno sforzo concertato per la ricomposizione dei crescenti squilibri macroeconomici, l’Unione europea non avrebbe potuto reggere, e la stessa esperienza della moneta unica si sarebbe esaurita. Il “monito” sottolineava il “carattere asimmetrico” della crisi, evidenziava i processi di divergenza impetuosi tra paesi che traevano vantaggio dal quadro di regole europee (Germania in testa) e paesi che invece ne subivano le conseguenze. Il “monito” puntava il dito anche contro «le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale, che hanno contribuito per anni all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi». Le tesi del “monito” sono state riprese più volte all’estero e in Italia (si veda, tra l’altro, Eurocrisi: il conto alla rovescia non si è fermato) e anche innescando un dibattito teso a valutare gli effetti di una uscita dall’euro[1].
Ma nonostante questi allarmi, la politica europea, complice la cecità degli economisti più liberisti, ha brillato per ignavia, non pensando mai neppure di ipotizzare una revisione dei trattati e un cambiamento in senso espansivo delle politiche fiscali. Ci siamo già occupati di chiarire le ragioni economiche fondamentali della Brexit. In questi anni, il principale problema del Regno Unito è stato la crescita impetuosa del disavanzo commerciale, che ha reso il paese sempre più dipendente dai capitali stranieri. Lo squilibrio dei conti con l’estero britannico è dipeso in buona misura del surplus della bilancia commerciale tedesca, che lo scorso anno ha superato addirittura l’8% del PIL, ancora una volta sforando i limiti posti dalla stessa Commissione europea. Un avanzo commerciale tedesco reso possibile, si badi bene, dalla presenza dell’euro. Infatti, quell’avanzo è stato compensato dai disavanzi dei paesi periferici dell’eurozona e ciò ha tenuto relativamente stabile l’euro e pesantemente danneggiato gli altri partner commerciali, Gran Bretagna in testa. La politica deflazionista e “neo-mercantilista” tedesca, dunque, ha agito sotto l’ombrello del quadro delle regole europee e della moneta unica, accentuando gli squilibri nell’eurozona e in tutta l’Unione europea.
Ora la Brexit darà una spinta a tutte le forze politiche anti-euro. E ciò mentre il quadro macroeconomico dell’area euro appare più nero che mai. Infatti, al contrario di quanto sostenuto dalla Commissione Europea, il combinato di moneta unica e politiche di austerità ha continuato a intensificare gli squilibri e le divergenze tra le aree centrali e quelle periferiche.
Per verificare quanto appena affermato, misuriamo la disomogeneità nelle performance macroeconomiche all’interno della zona euro mediante il coefficiente di variazione del tasso di crescita del PIL pro capite. Si osserva che i paesi dell’euro sono sempre più distanti fra loro. Dal 1990 a oggi, infatti, il coefficiente passa da 0.30 a 0.42 con una marcata accelerazione dopo lo scoppio della crisi e l’intensificarsi delle politiche di austerità.
Fonte: nostre elaborazioni su dati AMECO-Commissione europea
Ancora, possiamo effettuare delle comparazioni sull’andamento del PIL, ponendo pari a cento il valore registrato da alcuni paesi nel 2007, anno precedente lo scoppio della crisi. Si vede bene in quale macroscopica misura le aree periferiche si siano allontanate dai valori medi dell’eurozona e naturalmente in particolare dalla Germania (ma anche dalla Francia).
Fonte: nostre elaborazioni su dati AMECO-Commissione europea
Queste analisi, confermano la tesi secondo cui i processi di centralizzazione dei capitali e di crescita della divergenza territoriale, favoriti dalla moneta unica, risultano aggravati dalle politiche di austerità e finiscono per pesare maggiormente proprio sulle aree periferiche d’Europa. Per controllare anche quest’ultima affermazione è sufficiente esaminare la dinamica degli investimenti pubblici, sempre ponendo il dato registrato da ciascun paese nel 2007 pari a cento.
Fonte: nostre elaborazioni su dati AMECO-Commissione europea
Il primo aspetto da rilevare, e che conferma il segno generale delle politiche economiche nell’Unione europea, è che dopo lo scoppio della crisi la spesa pubblica per investimenti nell’eurozona è diminuita in media del 15%. Il secondo aspetto è dato dalle importantissime differenze esistenti tra centri e periferie: in Germania, ad esempio, si registra un incremento degli investimenti pubblici del 16% rispetto al 2007, mentre in Italia si ha un calo del 29%[2].
Alla luce di queste evidenze, la nostra conclusione non può che essere ancora quella del “monito degli economisti”: il destino dell’euro è drammaticamente segnato. Solo una positiva e repentina svolta verso politiche fiscali coordinate ed ampiamente espansive, redistributive sul piano territoriale e pienamente assecondate dalle autorità monetarie, potrà arrestare il conto alla rovescia dell’euro.
Pubblicato su economiaepolitica.it il 24 giugno 2016.
Note
[1] Sul piano scientifico si vedano i seguenti contributi: Realfonzo R. e Viscione A., “The Real Effects of a Euro Exit: Lessons from the Past”, International Journal of Political Economy, 2015, vol. 44, n. 3, pp. 161-173; Realfonzo R. e Viscione A., “The Effecs of a Euro Exit on Growth, Employment and Wages”, Levy Economics Institute, working paper n. 840, giugno 2015, pp. 1-14.
[2] Persino il Fondo monetario internazionale e l’OCSE cominciano a domandare maggiori investimenti pubblici. Mi riferisco, ad esempio, alle raccomandazioni del FMI alla Germania in un recente G20, oltre che agli studi contenuti nel World Economic Outlook, Chapter 3: “Is it time for an infrastructure push? The macroeconomic effects of public investment”, 2014, pp. 75-114 ed al recente Outlook dell’OCSE, Interim Economic Outlook – Stronger growth remains elusive: Urgent policy response is needed, 2016, p. 7. Si tratta di aperture ancora prudenti, ma da quando è scoppiata la crisi nel 2008 è la prima volta che FMI ed OCSE riconoscono le proprietà espansive della spesa pubblica.