di Danilo Carullo
Lo spettro della deflazione, il più temuto indicatore di crisi economica, continua ad aggirarsi per l’Europa. In più occasioni il presidente della BCE Mario Draghi ha riconosciuto che le politiche monetarie espansive attuate nei mesi scorsi non sono riuscite a frenare la tendenza dell’eurozona verso la deflazione. Egli tuttavia ha insistito sull’efficacia delle manovre attuate dalla banca centrale e si è detto fiducioso sulla possibilità che la tendenza al calo dei prezzi si interrompa entro la fine di quest’anno e che l’anno prossimo l’inflazione torni stabilmente in territorio positivo. L’obiettivo, per la BCE, resta dunque quello di sempre: raggiungere e mantenere un tasso d’inflazione annuo prossimo al due per cento.
Questo modello di comportamento si chiama “inflation targeting”. Esso è contemplato negli statuti di varie banche centrali ed è alla base della cosiddetta “regola di Taylor”, una delle più comuni interpretazioni del funzionamento della politica monetaria. Tale linea di condotta, tuttavia, è oggi fortemente criticata da vari studiosi. Cristina Romer, sul New York Times, ha sostenuto che in fasi storiche come l’attuale, caratterizzate da grave instabilità macroeconomica, le autorità monetarie non dovrebbero fissarsi sul solo andamento dell’inflazione ma dovrebbero guardare anche all’andamento della produzione, dell’occupazione e del reddito. Per questo motivo sarebbe preferibile che le banche centrali perseguissero obiettivi più flessibili: ad esempio, esse potrebbero puntare su un dato obiettivo di crescita del reddito nominale complessivo, una variabile che al suo interno comprende sia la dinamica della produzione che dei prezzi. Il vantaggio di questa soluzione consiste soprattutto nel fatto che la politica monetaria diventerebbe espansiva al primo cenno di calo della produzione e dell’occupazione, senza dover attendere che la crisi si prolunghi a tal punto da generare pure un calo dei prezzi. Questo cambio di obiettivi, dal vecchio “inflation targeting” a un nuovo e più flessibile “nominal income targeting”, trova oggi numerosi sostenitori: l’Economist, tra gli altri, lo considera necessario per far tornare l’Europa e le altre economie occidentali lungo il sentiero di crescita antecedente al tracollo del 2008.
Altri studiosi sono però decisamente più scettici riguardo alla possibilità che un mero cambio di obiettivi delle banche centrali, dall’inflazione al reddito nominale, possa risolvere i problemi dell’economia europea. Gli esponenti delle scuole di pensiero keynesiane, in particolare, ci ricordano che il modo in cui le espansioni monetarie della banca centrale possono influire sulla spesa aggregata e quindi sull’andamento conseguente della produzione, dell’inflazione e del reddito nominale, è molto incerto. Nella storia del pensiero economico questo tipico limite della politica monetaria è stato talvolta sintetizzato nell’antico adagio britannico secondo cui si può portare il cavallo dinanzi all’acqua, ma non lo si può forzare a bere: in altre parole, puoi espandere la moneta quanto vuoi, ma non è detto che la massa di liquidità aggiuntiva si trasformi in domanda effettiva. Intorno a questa problematica Keynes sviluppò la teoria della preferenza per la liquidità, e sullo stesso filone di ricerca si sono poi mossi i contributi che hanno enfatizzato il carattere incerto e asimmetrico della politica monetaria: che chiudendo i rubinetti della liquidità magari la banca centrale può provocare una recessione, mentre aprendoli non è detto che sia in grado di rilanciare l’economia. Gli esponenti delle scuole di pensiero economico keynesiane ritengono che tali problemi siano inaggirabili: la politica monetaria, da sola, non può governare né l’inflazione né il reddito nominale, per cui è inutile e persino fuorviante dibattere sulla scelta tra l’una o l’altra variabile come obiettivi delle banche centrali. L’andamento della produzione, del reddito e dei prezzi dipendono da un insieme ben più complesso di fattori, tra i quali un ruolo rilevante spetta alle politiche fiscali del governo e alle politiche salariali.
Riguardo invece al banchiere centrale, essi sostengono che il suo compito principale è un altro: esso consiste nel fissare i tassi d’interesse in funzione degli andamenti del reddito al fine di gestire la solvibilità delle unità economiche ed eventualmente garantire la stabilità finanziaria del sistema. Su questi aspetti hanno insistito soprattutto gli economisti di orientamento post-keynesiano, tra cui Paul Davidson e Hyman Minsky, e oggi vari studiosi, appartenenti sia alle scuole di pensiero critico che al mainstream, ritengono che bisognerebbe lavorare su questa diversa chiave di lettura per fornire una rappresentazione più realistica del ruolo e del comportamento effettivo delle banche centrali.
Questa interpretazione alternativa della politica monetaria ha trovato un recente riscontro empirico in un saggio di Emiliano Brancaccio, Giuseppe Fontana, Milena Lopreite e Riccardo Realfonzo appena pubblicato sul prestigioso Journal of Post-Keynesian Economics. Utilizzando un modello VAR in differenze prime con dati trimestrali relativi all’area euro nel periodo 1999-2013, gli autori hanno rilevato che non sussiste una significativa relazione causale che leghi l’andamento dei tassi d’interesse (decisi o influenzati dalla BCE) alla dinamica del reddito nominale rispetto al suo trend di lungo periodo. Al variare dei tassi d’interesse, in altre parole, non si registra un impatto statisticamente significativo sul reddito nominale. Al tempo stesso, i risultati dell’analisi sembrano supportare il nesso opposto: sussiste una relazione causale significativa che va dalle variazioni del reddito nominale rispetto al suo trend ai movimenti dei tassi d’interesse (decisi o comunque influenzati dalla BCE), nel senso che al crescere del reddito i tassi aumentano e viceversa.
Tra le varie analisi riportate nel paper in questione, riproduciamo qui il test di causalità di Granger. Dalla prima riga si evince che l’ipotesi di assenza di una relazione causale dal reddito nominale al tasso d’interesse deve essere rifiutata con una notevole significatività statistica, quale che sia il ritardo temporale fissato tra le due variabili. La seconda riga mostra, invece, che l’ipotesi di assenza della relazione causale opposta, dal tasso d’interesse al reddito nominale, non può essere rifiutata a nessun livello di significatività e per nessun ritardo temporale considerato.
Fonte: Brancaccio, Fontana, Lopreite, Realfonzo (2015)
I risultati empirici dell’analisi entrano evidentemente in contrasto con le interpretazioni convenzionali della politica monetaria secondo le quali, agendo sui tassi d’interesse, il banchiere centrale dovrebbe essere in grado di influenzare il reddito nominale e al limite anche l’inflazione. Lo studio sembra invece dare conforto alla visione alternativa della politica monetaria suggerita dagli studi di orientamento keynesiano. La verifica di un legame causale positivo dal reddito nominale al tasso d’interesse può essere infatti interpretato in base all’idea che la BCE cerca di regolare il tasso di interesse in funzione del reddito nominale allo scopo di tenere sotto controllo la differenza tra i redditi d’esercizio delle unità economiche e gli oneri finanziari dei debiti che esse hanno contratto. Quando il reddito nominale aumenta, la banca centrale può accrescere i tassi e i relativi oneri dei debitori, mentre se il reddito diminuisce occorre ridurre corrispondentemente il costo del denaro e il connesso peso dei debiti. Un aspetto da notare è che l’analisi empirica evidenzia che il tasso d’interesse è influenzato dall’andamento medio del reddito nominale all’interno dell’eurozona. Il problema è che tra i paesi membri dell’Unione sussiste una forte variabilità nella dinamica dei redditi nominali. Se dunque la BCE regola i tassi d’interesse in base alla media europea dei redditi nominali, ciò implica che le unità economiche dei paesi che registrano andamenti macroeconomici maggiormente sostenuti risulteranno più facilmente solvibili, mentre un gran numero di imprese situate nei paesi caratterizzati dagli andamenti peggiori del reddito risulteranno insolventi.
Non ha molto senso imputare i fallimenti nella lotta alla deflazione a Mario Draghi e agli altri membri del direttorio di Francoforte, perché questi insuccessi dipendono dall’orientamento restrittivo di tutto l’assetto delle politiche economiche europee e non semplicemente dagli indirizzi di politica monetaria. Piuttosto, al board della BCE bisognerebbe forse chiedere lumi sulla drammatica crescita delle insolvenze delle imprese che si registra in numerosi paesi dell’Unione monetaria, tra cui l’Italia. E’ questo il vero obiettivo che rientra nel perimetro d’azione della banca centrale e che dovrebbe essere contemplato tra le sue responsabilità effettive.
Pubblicato su Economia e Politica il 6 giugno 2016.