Bruxelles – Mentre finisce il giorno più lungo e lentamente passano l’ubriacatura dei commenti e la frenesia delle dichiarazioni a caldo, Bruxelles torna silenziosa e inizia a realizzare cosa è davvero successo. Davvero lo spauracchio degli ultimi mesi si è concretizzato, davvero, come sognavano gli euroscettici, l’Europa comincia a perdere i pezzi, davvero, da ora in avanti, ci troviamo nel campo dell’ignoto, nel tentativo di governare un processo senza alcun precedente, la cui eventualità è esaurita dai trattati in poche sintetiche righe. E in effetti, così come si fa nei terreni inesplorati, per adesso si procede a tentoni, a piccoli passi incerti. Ma l’incertezza in questo momento è quanto di più dannoso. I vertici europei lo sanno bene e così ora si invertono le parti: adesso è Bruxelles a spingere perché l’uscita ci sia e sia conclusa nel più breve tempo possibile, mentre Londra inizia a trascinare i piedi.
Che Londra non abbia nessuna fretta di chiudere la pratica di divorzio è stato chiaro fin dalla mattinata, fin dalle prime parole del premier David Cameron che hanno fatto storcere il naso a molti: lascio, sì, ma soltanto tra tre mesi e non sarò io a condurre i negoziati. E allora cosa dovrebbe accadere in questi tre mesi? Tutto come niente fosse? Impossibile immaginare uno scenario del genere: “Ora ci spettiamo che il Regno Unito dia effetto a questa decisione del popolo britannico il prima possibile, per quanto doloroso possa essere”, hanno chiesto all’unisono il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, quello del Parlamento europeo, Martin Schulz, del Consiglio europeo, Donald Tusk e la presidenza di turno olandese. Stesso appello ripetuto, come un mantra, dalle principali forze politiche al Parlamento europeo. “I negoziati devono cominciare immediatamente, non possiamo aspettare che i Tory eleggano un nuovo premier”, ha chiesto, tra i tanti, il popolare Manfred Weber.
Il problema è che per avviare i negoziati per l’uscita, serve una notifica ufficiale del governo britannico a Bruxelles. Solo allora scatteranno i due anni di tempo, previsti dall’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea, trascorsi i quali, i trattati smetteranno di applicarsi al Regno Unito. Peccato, che non esista alcuno strumento legale che possa costringere Londra a presentare questa notifica, né che stabilisca in quali tempi si debba fare questo passo. Insomma ora la palla è nelle mani di Cameron che sembra non avere alcuna voglia di lanciarla. A smuovere le acque potrà essere forse il Consiglio europeo di martedì e mercoledì prossimi quando il premier britannico si troverà faccia a faccia con i ventisette quasi ex colleghi. Ai margini della riunione, i leader si ritroveranno anche nel futuro formato a ventisette per definire, ha anticipato Tusk, “i dettagli” del procedimento di uscita e per iniziare a riflettere sul futuro di quello che resta dell’Unione europea che, a questo punto, per sopravvivere deve mostrarsi più integrata che mai.
L’aria che si respira in alcune capitali europee, però, pare essere un’altra. L’inaspettato successo della Brexit ha ringalluzzito le forze euroscettiche che ora chiedono a gran voce di seguire la strada tracciata da Londra. Dal francese Front National di Marine Le Pen alla Lega di Matteo Salvini, all’olandese Fpo di Geert Wilders, è tutto un fiorire di aspiranti ex-europei che assicurano che presto otterranno il proprio referendum.
E se l’Europa rischia di perdere pezzi, il Regno Unito non sembra stare meglio. La Scozia, che ha votato a grande maggioranza per la permanenza nell’Ue, ora vuole una sua consultazione per staccarsi da Londra e restare con Bruxelles. “L’ipotesi di un secondo referendum sull’indipendenza è sul tavolo, e lo si farà se il Parlamento lo deciderà”, ha dichiarato il primo ministro scozzese, Nicola Sturgeon. Ma l’idea della Scozia non è isolata: in Irlanda del Nord già si immagina un altro referendum per riunirsi con Dublino, che continua ad appartenere fedelmente all’Unione. E non è finita, visto che la Spagna ha iniziato a corteggiare Gibilterra, che ha sostenuto in massa (ben 96%) la permanenza nell’Ue. “Spero che una formula di co-sovranità, per essere chiari, la bandiera spagnola sulla Rocca, sia molto più vicina di prima”, ha commentato il ministro degli Esteri spagnolo, Josè Manuel Garcia Margallo.
Insomma i prossimi giorni non saranno facili per nessuno. Senza dubbio non lo saranno per i funzionari britannici al lavoro nelle istituzioni europee la cui posizione si fa alquanto delicata. Le prime conseguenze potrebbero ricadere sul commissario britannico della Commissione Juncker, il responsabile del pesante portafoglio alla Stabilità finanziaria, Lord Jonathan Hill. La sua permanenza alla guida di un ufficio tanto importante, non sembra piacere alla maggioranza dei deputati europei che hanno messo a punto una risoluzione, da approvare in una Plenaria straordinaria fissata per martedì, che chiede anche di “riassegnare il portafoglio del Commissario del Regno Unito con effetto immediato”, per conferire al rappresentante di un Paese che dell’Ue non ne vuole sapere un incarico meno cruciale. Il progetto di risoluzione è stato concordato da popolari, socialisti, liberali e verdi: insomma a meno di defezioni dell’ultimo minuto dovrebbe essere cosa fatta. Incerta la sorte degli eurodeputati che, legalmente, potranno restare al loro posto con pieni poteri fino all’uscita definitiva. Ma alcuni, spontaneamente o su richiesta del proprio gruppo, potrebbero decidere di fare un passo indietro come ha già fatto l’eurodeputato scozzese, Ian Duncan. Meno immediato dovrebbe invece essere l’impatto per i funzionari britannici della Commissione ai quali Juncker ha garantito di fare il possibile per salvare, almeno per ora, il posto di lavoro.