di Pierluigi Fagan
[Sono le 09.30 del 24 Giugno, quindi questo è un commento “a caldo”. Privo cioè di note e di immagini. Segue quanto scritto dieci giorni fa, qui].
Una delle principali caratteristiche dell’era complessa è che affrontando fatti unitari da molti punti di vista reciprocamente escludenti si crea un enorme caleidoscopio di opinioni e giudizi frammentati. Questi pezzi irrelati che trattano approfonditamente solo un aspetto del fatto sono il materiale di costruzione del labirinto. Il labirinto è il luogo in cui siamo invitati e spinti dal rumore delle opinioni, il luogo in cui entriamo per cercare la verità e l’ancoraggio di un nostro giudizio ed in cui ci perdiamo girando per un tempo infinito, senza trovare mai l’uscita dal dubbio. Questa è la condizione della biblioteca di Babele che ospitava tutti i possibili libri di 410 pagine del grande J.L. Borges, la condizione del paradosso del bibliotecario del matematico norvegese Thoralf Skolem ed anche del paradosso del barbiere di Bertrand Russell.
Fatta semplice e brutale, c’è un problema di gerarchia, si deve porre un sopra sopra il quale non c’è più altro e sotto il quale c’è tutto il resto, altrimenti si gira in tondo all’infinito. Fu lo stesso Russell, assieme ad A.N. Whitehead a risolvere il paradosso logico (in realtà un’antinomia) che lui stesso aveva scoperto nella teoria degli insiemi e lo fece con la teoria dei tipi logici, una legge che impone una gerarchia che permette di dare ordine alla logica di modo che non fagociti se stessa riflettendosi internamente all’infinito.
Persa già la metà dei lettori con questa introduzione, per i pochi rimasti, procediamo ad illustrare il caso pratico: cosa significa la Brexit? Della faccenda della Brexit si sono illuminate diverse facce. All’inizio sono arrivati i politici e le loro diverse considerazioni. La prima, intuitiva, è il rapporto tra UK ed Unione europea. La seconda è il significato cosmopolitico che alcuni si ostinano a vedere nel progetto europeista (un tipico caso di confusione tra forma e sostanza), da cui per rimbalzo, si è visto la Brexit come scelta isolazionista. La terza è il significato politico che la Brexit avrebbe avuto per gli altri europei ed in conseguenza i timori per l’effetto imitazione che potrebbe portare altri paesi a seguire la Gran Bretagna.
Come nel caso precedente, si è sovrapposto un significato a queste scelte, si è diviso l’opinione tra pseudo-progressisti che sarebbero stati gli unionisti e pseudo-conservatori o addirittura reazionari che sarebbero stati coloro che tifavano per la Brexit. In Italia, si è distinto il noto teorico politico Mario Monti che ha sentenziato che il referendum indetto da Cameron era un abuso di democrazia ed infine Renzi che, dall’alto del suo peso influente ed della sua capacità di visione da statista navigato, ha scritto ai britannici via il Guardian spiegando loro con tipica lievità diplomatica che in caso di Leave sarebbero diventati piccoli, isolati ed ininfluenti.
Poi sono arrivati gli economisti. La stragrande maggioranza ha profetato catastrofe e sciagura nel caso di exit, verso la fine sono comparsi i più ragionevoli semi-neutralisti per i quali, alla fine, non sarebbe cambiato un granché. Assenti gli entusiasti, ovvero coloro che eventualmente avrebbero letto un possibile vantaggio. Accanto, i monetaristi e gli esperti del mercato, più estremizzanti sul pericolo sciagura-catastrofe-cavallette-diluvio-inverno nucleare. Si deve dire che i giudizi degli economisti sono stati tutti sul breve periodo, sono stati tattici. Nessuno pare (o pochissimi) si sono avventurati sul fall-out strategico di una tale evenienza e ciò denota come tra economisti e concetto di strategia (ovvero tempo medio-lungo) vi sia una sorta di incompatibilità concettuale. Del resto, questa epidemia di short-termismo derivante dall’idolatria della slot machine che chiamiamo “borsa” o “mercati”, con la sua ossessione per lo status quo e la prevedibilità necessaria a instradare gli investimenti è concettualmente l’esatto opposto del concetto di strategia. Se aveva ragione Braudel e la storia è mossa da fenomeni di lunga durata, ben si capirà che ordinare il mondo con le borse che scambiano conati d’ansia è la scelta più demenziale che si possa fare. Keynes, che due o tre libricini non di economia li aveva letti, l’aveva ben capito, a suo tempo.
Poi sono arrivati i sociologi a dirci che in gioco c’era la paura dell’Altro, il migrante in sé per sé o forse come considerazione più sofisticata tipo «perché sì ad un ennesimo barista italiano e no ad un qualificato chirurgo indiano?». I geo-sociologi avvertivano che scozzesi, irlandesi e forse anche gallesi avrebbero votato compatti per il Remain e la profonda campagna inglese per il Leave (effettivamente), il che avrebbe creato l’ennesima spaccatura nell’unità del regno, foriera di ulteriori exit. I socio-sociologi hanno avvertito una sorta di strano assortimento tra due insiemi bizzarri, uno fatto di élite e popolo europeisti e l’altro fatto di élite e popolo nazionalisti, insiemi cioè tagliati non dalla categoria di “classe”, forse da quella anagrafica, non da quella di genere.
Poi sono arrivati i confondenti l’opinione ed hanno iniziato il gioco «ah, stai con Murdoch eh?», di modo da sentirsi rispondere «ah e tu stai con Soros, eh?» e via con dicotomie circolari che hanno dato l’impressione, sarebbe meglio dire la fotografia perché la faccenda ha una sua oggettività, che non ci si raccapezza più, i “cattivi” stanno da entrambi le parti e quindi non si vede approdo sicuro per i “buoni”.
Questo del cercare di capire cosa fare e pensare osservando il tuo opposto, un portato della fede mistica nella dialettica hegeliana, è il motivo principale del nostro permanere in uno stato di subordinazione mentale e culturale proprio verso coloro da cui vorremmo emanciparci, una trappola logica. Ad un certo punto, si è presentato anche il fatto di cronaca nera della deputata laburista e progressista uccisa dal nazista pazzo e sembrava che almeno questo permettesse finalmente di mettere un punto fermo da cui ordinare tutti gli altri ma non ha funzionato un granché, se non a rialzare gli indici di borsa. Fatto che ha costretto i giornalisti ad introdurre la categoria del “rialzo triste”, una sorta di erezione malinconica che gli psicologi faranno fatica a spiegare.
Per ultimi, in ordine sparso, opinionisti di varia taglia hanno tirato in ballo Shakespeare, Carnaby Street, i Beatles, Agatha Christie, i nazisti, i fish-and-chips, la regina, Churchill… Churchill? Hai detto Churchill? Winston Churchill?
Beh Churchill ha il suo peso poiché gestì l’interesse nazionale nel secondo peggior momento della storia di quell’entità che tecnicamente si dovrebbe chiamare Regno Unito (since 1800-1) e prima Gran Bretagna, (1707) e prima ancora Inghilterra. Il primo lo aveva gestito Elisabetta I. Churchill ci lasciò una bottiglietta di memoria con questo ammonimento:
If Britain must choose between Europe and the open sea, she must always choose the open sea.
Il lettore attento a questo punto obietterà: perché dare a Churchill un rilievo maggiore di un economista o un sociologo o un politico o un letterato o di un Monti e Renzi. No, forse il lettore attento questi ultimi due non li citerebbe ma gli altri, forse, sì. Diciamo subito che Churchill dimostrò di sapersela cavare al tavolo in cui gli altri avevano fiches e poker, con pochi spicci ed una coppietta aspirante tris minore. Il che, nel mondo inflazionato di chiacchiere, essendo un “fatto”, ha il suo peso. Ma Churchill in fondo, dava voce e pensiero ad una vecchia, vecchissima preferenza degli isolani, risalente anche ad un misconosciuto ed invece influentissimo libricino che si chiama Fable of Bees (1705) di un medico olandese trapiantato sull’isola, alle scelte strategiche fatte dalla regina vergine e prima di lei allo strappo di Enrico VIII e poi giù fino alla guerra dei cent’anni ed addirittura al rifiuto dei baroni di seguire Giovanni nella sua paranoia crociata, tanto da imporre un trattato che fece storia: la Magna Charta Libertatum (1215) di cui sono, visto la data, giustamente orgogliosi.
L’espressione «Tornado nella Manica, il continente è isolato», che mi ha ricordato recentemente un mio contatto Facebook, dà ben l’idea di come si vede il mondo da un’isola. Da un’isola, il timore proviene dal grosso continente dirimpetto che ti vuole fagocitare nel suo disordine annientante, la libertà (intesa come autonomia) proviene da remote terre al di là degli oceani che sono troppo lontane per esser temibili ma raggiungibili per fare affari. I primi a scoprirlo furono invero i portoghesi che erano bloccati dagli spagnoli, e gli spagnoli che erano bloccati dai genovesi, veneziani e francesi, e gli olandesi bloccati da francesi e tedeschi. Poi la cosa prese piede e ne venne fuori la modernità europea che colonizzerà il mondo intero ed affermerà quello strano modo di stare al mondo che chiamiamo “capitalismo”, previo colonialismo prima ed imperialismo poi.
Insomma, Churchill sembra darci la chiave per aprire un pertugio nel labirinto confondente, il punto di vista superiore dal quale tutti gli altri dipendono, l’oggettiva condizione geo-storica del soggetto in esame. La condizione geo-storica è una sorta di ontologia delle nazioni, la categoria prima che anticipa tutte le altre possibili letture politiche, economiche, di classe, culturali, militari e financo religiose, quelle che ricorrono a ieri e quelle dell’altro-ieri e quelle post-qualcosa, l’unica che influisce sulle altre più di quanto ne sia influita. La categoria che determina tutte le altre condizioni di pensabilità e possibilità, il tipo logico primo. Ecco il nostro insieme di cui sopra non c’è n’è uno più rilevante, le 410 pagine con senso e significato che cercava Borges, il catalogo che include tutti i cataloghi senza includere se stesso di Skolem, il barbiere che può radere tutti quelli che non si radono da soli ma anche se stesso di Russell. Che poi sarebbe il cretese che può dire che tutti i cretesi mentono senza auto-contraddirsi, del cretese Epimenide.
Ma lasciamo da parte i dilemmi logici che fanno venir il mal di testa e concentriamoci su consiglio di Churchill.
Come precedentemente scritto a 10 giorni dal voto (qui), la Brexit è stata una scelta geopolitica. La scelta di dar retta a Churchill e non a tutti i portatori di opinioni in favore del Remain. Questi peroravano una causa contingente che non ha radici nella geo-storia britannica, l’innaturale (per i britannici) afflato unionista con una terra di cui loro sarebbero diventati la periferia. Strali ed ammonimenti di Obama, G7, NATO, FMI, Bruxelles, la City, l’intera cupola della banco-finanza mondiale nulla hanno potuto contro quelle nervature dell’essere che Platone diceva che si debbono seguire “per forza”, intendendo che vi sono delle forme delle cose che non si possono contraddire, senza contraddire la cosa stessa. Le forme geo-storiche sono appunto natura profonda dell’essere che poi noi leggiamo ed analizziamo con i filtri politici, economici, monetari, ideologici, culturali, ecc.
E adesso? Lasciamo allo sviluppo della storia a breve, della cronaca e dell’altrui acuto commento che certo non mancherà il clamoroso sviluppo della traumatica fenomenologia da abbandono. Noi, in prospettiva, vediamo il sorgere di un nuovo polo del mondo multipolare, l’anglosfera di un nuovo Commonwealth, quello che si trova oltre “il mare aperto” di Churchill. Vediamo gli oceanici, gli indiani, alcuni africani, forse il Canada coagularsi intorno ad un nuova forza, terza o quarta o quinta, che potrebbe andar a sommarsi alla UE (la cui storia sarà però tutta da scrivere), agli USA, alla Cina, alla UEE euroasiatica con centro in Russia. È possibile, è congruo, è adattivo per i britannici e per i loro partner. Se accadrà o meno non lo sappiamo; la Storia, si sa, è un evento caotico quindi non prevedibile.
Il mondo transita ad una nuova era, l’era complessa. Per muovere il mondo in accordo ad una transizione così grande e profonda, nulla di meglio che articolarsi, produrre snodi, vertebre. I britannici, crediamo, proveranno a fare il loro snodo. Noi, speriamo, digerito il fallimento delle nostre impostazioni analitiche subalterne alle impostazioni date dai padroni del gioco da cui pur vorremmo emanciparci ma di cui condividiamo lo sguardo ossessivamente tarato sulla cronaca, reagiremo e, prima o poi, faremo anche noi qualcosa. Magari una comunità mediterranea dei greco-latini. Domenica c’è la Spagna, poi gli USA, l’anno prossimo elezioni in Francia e Germania e chissà se anche in Italia. I tempi cambiano, accadono fatti, le cose si muovono. Questo è bene. Alziamo lo sguardo, usciamo dalla babele dei punti di vista frammentati nelle varie discipline di cui siamo gli “esperti” e cerchiamo di comprendere il lento e profondo movimento unitario delle cose là fuori. Magari capiremo meglio dove dirigere i nostri sforzi.
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Nota: Questo blog contesta l’utilizzo della frase di Churchill, nel senso che gli hanno dato i supporter della Brexit. Noi però usiamo la stessa frase solo come “simbolo” di un certo, ci pare longevo, punto di vista tipicamente britannico. Sono i fatti storici e culturali di lungo periodo che lo sostengono. Churchill viveva in un tempo in cui non c’era l’euro, la EU, Bruxelles e la Merkel; è quindi improprio poggiarsi sulla sua autorità sia per sostenere l’idea del Leave, sia quella del Remain se non uscendo dalla cronaca ed entrando nei tempi più corposi della Storia. Tra l’altro, e lo abbiamo scritto dieci giorni fa e lo hanno sostenuto anche gli economisti e commentatori meno isterici, nessuno sostiene che il Regno Unito non rimanga uno Stato (a modo suo) europeo, legato da rapporti di forte interesse congiunto col continente.