Londra – Quando il referendum su Brexit, l’uscita o meno del Regno Unito dall’Unione Europea, si avvicina è forse il momento di capire gli scenari possibili, gli schieramenti e le posizioni delle varie fazioni, in vista anche di un risultato incerto dovuto a sondaggi non chiari e a repentini cambi di fronte.
I britannici, è bene ricordarlo, hanno votato in un referendum nel 1975 per decidere se rimanere in quella che allora si chiamava la Comunità Economica Europea (Cee), il precursore dell’Unione Europea, formata tra i sei paesi fondatori nel 1957 per facilitare la circolazione delle merci e dei lavoratori tra i suoi membri e di cui l’Uk faceva parte dal 1973.
40 milioni di elettori britannici, irlandesi e del Commonwealth residenti nel Regno Unito, insieme con i cittadini residenti all’estero che sono stati nelle liste elettorali nel Regno Unito negli ultimi 15 anni dovranno rispondere alla domanda: “Vuole che il Regno Unito faccia parte dell’Unione Europea o lasci l’Unione Europea?”.
Il referendum del 23 giugno è stato indetto da David Cameron, primo ministro britannico del partito conservatore, sotto la pressione di diversi partiti favorevoli all’uscita dall’Unione Europea dopo aver sottoscritto un accordo a Bruxelles che chiarisce alcuni contenuti delle regole dello “stare insieme” europeo, pur senza modificare nella sostanza alcunché, anche se si insiste molto sulle regole per l’immigrazione, vero punto caldo della campagna elettorale. La motivazione principale portata dai sostenitori del referendum è che l’Ue è cambiata molto dal 1975 e quindi è necessaria una nuova consultazione dei cittadini.
Chi sostiene cosa
Il sostegno sia verso il Leave che verso il Remain è trasversale e, ad eccezione dello Ukip (United Kingdom Independt Party) e di Britain First, compatti per abbandonare l’Unione, i partiti hanno vissuto profonde divisioni durante gli ultimi mesi, in particolare i Tories, il partito conservatore.
Proprio il partito conservatore si è rivelato un Giano bifronte, da una parte la faccia di David Cameron, che non è mai stato un europeista entusiasta e ora si ritrova a sostenere l’Unione Europea come non mai, dall’altra quella di Boris Johnson, ex primo cittadino di Londra, che è uno dei leader della campagna del Leave e aspirante primo ministro nel 2020 o nel caso di elezioni anticipate.
L’altro maggiore partito britannico, il Labour, anche se più compatto, ha visto divisioni interne dovute alle critiche a Jeremy Corbyn, il leader, sul suo poco spendersi a favore del Remain, e dall’altro da alcuni grassroots movements come LabourGo, che sono favorevoli all’uscita dall’Ue e vedono Bruxelles come la patria del capitalismo e la morte del welfare state.
L’Ukip invece, partito che da questa campagna ha tratto il maggior beneficio, è solido e unito e sta spingendo le proprie idee in testa alla campagna, promuovendosi, in caso di vittoria del Leave, come vero vincitore di questa tornata referendaria e salvatore del Grande Regno Unito.
I movimenti a sostegno di un fronte e dell’altro sono innumerevoli, ma i principali Vote Leave, per l’uscita, e Britain Stronger IN Europe, per rimanere, raccolgono diverse sigle. Per rendersi conto di quanto sia spaccato il panorama, basti pensare che ogni associazione di categoria ha creato il proprio movimento, favorevole o contrario.
La campagna per il Remain ha visto diversi endorsement di personaggi autorevoli, tra i quali Barack Obama, Donald Tusk, Tony Blair, Gordon Brown, Christine Lagarde, Bill Gates e non ultimo, ovviamente, Jean Claude Juncker.
Le motivazioni del Leave
Vote Leave è una campagna trasversale che trova l’appoggio di parlamentari conservatori di spicco come Michael Gove e Boris Johnson, più qualche parlamentare laburista, tra cui Gisela Stuart e Graham Stringer, e di Douglas Carswell e Suzanne Evans dell’Ukip, oltre al Dup (Democratic Unionist Party) in Irlanda del Nord. L’ex cancelliere Tory Sir Nigel Lawson e il fondatore del Sdp (Social Democratic Party) Lord David Owen. Ha una serie di gruppi affiliati come gli agricoltori per la Gran Bretagna, i musulmani di Gran Bretagna e Out and Proud, un gruppo di gay anti-UE, finalizzato alla costruzione di supporto in diverse comunità. Inoltre la campagna vede anche il leader Ukip Nigel Farage che non fa parte del Vote Leave ma porta avanti una campagna direttamente con il proprio partito.
Il punto forte dei Brexiters è l’immigrazione, in particolare quella dei cittadini europei, accusati di “rubare” il lavoro ai britannici e di sfruttare il welfare state mettendo a dura prova i servizi pubblici.
Proprio sui servizi pubblici si gioca un’importante battaglia. Vote Leave in ogni suo discorso ricorda come l’Uk invii 350 milioni di sterline a settimana a Bruxelles e di come questi soldi possano essere reinvestiti per migliorare il National Health System (la sanità pubblica) e costruire nuove scuole e ospedali. Sull’immigrazione, invece, non è solo quella europea il problema, ma la vera paura è una possibile entrata nell’Ue di Macedonia, Albania, Montenegro, Serbia e Turchia e dell’arrivo, sempre secondo i Brexiters, di 5,2 milioni di immigrati regolari sull’isola britannica.
A questo va aggiunto il pensiero delle sigle di sinistra, che sono profondamente contrarie al TTIP e vedono Bruxelles la causa della diminuzione dei diritti dei lavoratori, la patria della finanza e si sentono vicine ai manifestanti francesi contro la Loi Travaille (legge su lavoro) e in solidarietà con i paesi del Sud Europa.
Il punto centrale, in ogni caso, è quello di riprendere il controllo sulla propria legislazione, sull’immigrazione, la sovranità, e l’accountability, ovvero quel processo per cui i parlamentari sono responsabili di fronte ai propri elettori delle proprie azioni, fondamento questo che con l’Ue, secondo i Leavers, è venuto meno.
Le motivazioni del Remain
Britain Stronger IN Europe, il principale comitato che fa campagna per la Gran Bretagna nell’Ue, è guidato da Sir Stuart Rose, Ceo di Marks & Spencer, grande catena di abbigliamento. È sostenuta da figure chiave del partito conservatore, tra cui il primo ministro David Cameron e il Cancelliere George Osborne, la maggior parte dei parlamentari laburisti, tra cui il leader del partito Jeremy Corbyn e Alan Johnson, che è a capo di Labour In for Britain campaign, i Lib Dems, l’Alliance Party e il Sdlp (Social Democratic Labour Party) in Irlanda del Nord, e il partito dei Verdi. Oltre a Britain Stronger IN Europe anche lo Scottish National Party sta portando avanti la propria campagna in Scozia indipendentemente, in quanto non vuole collaborare con i conservatori. Del movimento fanno parte Students For Europe, movimento studentesco, e altre sigle legate al mondo accademico.
Gli unionisti sostengono che rimanere in Europa darebbe un forte impulso all’Uk oltre ai benefici che già ne trae, tra i quali la libertà di commerciare liberamente all’interno del mercato unico e il poter beneficiare dell’immigrazione, catalizzatore per l’economia britannica e che aiuta a pagare i servizi pubblici. Infine, i Remain ritengono che un’uscita dall’Ue danneggerebbe l’immagine del Regno Unito che sarebbe più sicuro all’interno dei 28 e porterebbe ad una instabilità finanziaria, non solo per il fatto che l’Ue crea 3 milioni di posti di lavoro in Uk.
Le sigle dell’IN hanno poi avvertito che un’uscita dall’Ue porterebbe ad una rinegoziazione dei diritti dei lavoratori dando di fatto maggiore potere al partito conservatore e andando ad intaccare la regolamentazione della giornata lavorativa imposta dall’Ue.
Se fosse Brexit
Nel caso di un voto per il Leave, David Cameron ha dichiarato che applicherebbe immediatamente l’articolo 50 del Trattato di Lisbona che darebbe avvio ai negoziati per l’uscita dell’Uk dall’Ue, negoziati che secondo la clausola avrebbero la durata di due 2 anni con la possibilità di essere estesi con il voto unanime degli altri 27 stati membri, periodo nel quale gli accordi attuali rimarrebbero ancora validi.
Le previsioni sono molto incerte, ma diversi studi della Bank Of England, del ministero del Tesoro britannico e della Lse (London School of Economics) e del Fondo Monetario Internazionale, hanno messo in luce il pericolo di uno shock economico che porterebbe ad un abbassamento dei prezzi delle proprietà, ad un aumento delle tasse, a circa 10 anni di incertezza economica, con un probabile effetto negativo sul Pil tra il 3% e il 6% oltre alla svalutazione della sterlina.
La Gran Bretagna si troverebbe a dover rinegoziare tutti gli accordi commerciali con l’Ue ed il tempo stimato per questo processo è tra i 2 e i 10 anni. Questo lungo periodo creerebbe incertezza nei mercati rendendo di fatto gli investimenti in Uk meno affidabili. Inoltre, diverse aziende che hanno stabilito la propria sede a Londra per poter accedere al mercato libero potrebbero spostarsi nell’Europa continentale per poter continuare ad avere accesso al mercato Ue, sottraendo tasse all’Uk e diminuendo i posti di lavoro.
Dal punto di vista politico, poi, le acque sono molto agitate. Nelle ultime settimane il premier Cameron è stato minacciato di una possibile sfiducia e di elezioni anticipate, con Boris Johnson pronto a prendere il suo posto in un esecutivo con Nigel Farage. Il referendum UE è solo consultivo, in pratica, tuttavia, il risultato – in entrambi i casi – sarà impossibile da ignorare. Se ci dovesse essere una maggioranza a favore dell’uscita, la fase successiva comporterebbe la formazione di un governo in grado di avere una maggioranza alla camera dei Comuni a favore di Brexit. Possibilmente, una coalizione di qualche tipo tra i conservatori e laburisti sostenitori di Brexit.
Infine, non bisogna sottovalutare il caso scozzese e quello irlandese. Nicola Sturgeon, leader dello Scottish National Party, ha dichiarato che in caso di Brexit indirebbe un secondo referendum per l’indipendenza scozzese e per poter aderire all’Unione Europea. Sul fronte occidentale invece, gli irlandesi potrebbe vedere la nascita di una frontiera tra Irlanda del Nord e Eire.
E nel caso di pareggio?
Sebbene un pareggio non sia possibile, la possibilità che i due fronti vincano per una manciata di voti sono molto alte. In questo caso il Leave ha già annunciato che nel caso in cui il Remain vincesse per pochi voti, farebbe richiesta per indire un altro referendum. Cameron nel caso di una vittoria minima da parte dei Brexiters ha già dichiarato che il processo di uscita sarebbe ammorbidito.
Le urne
Si voterà dalle 07.00 alle 22.00 (ora locale) di giovedì 23. Non ci saranno exit poll. Lo scrutinio inizierà immediatamente dopo la chiusura della urne. Il risultato del conteggio delle schede dovrebbe cominciare ad essere chiaro dalle 04.00 del mattino del 24 giugno. Gli elettori che hanno scelto il voto postale hanno già iniziato ad esprimere la loro preferenza, ed hanno tempo fino alle 22 del 23 giugno per far giungere le loro buste elettorali alle loro sezioni.