Roma – Il secondo turno delle elezioni amministrative, domenica prossima, chiamerà alle urne oltre otto milioni e mezzo di elettori che si esprimeranno sui ballottaggi in 126 comuni. Le loro scelte stabiliranno chi amministra la città, ovviamente, ma avranno risvolti sul quadro politico nazionale. Non tanto sulla tenuta del governo, che non è a rischio, quanto sulle strategie che il presidente del Consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi, metterà in campo in vista del referendum costituzionale di ottobre, l’appuntamento sul quale lo stesso premier ha deciso di giocarsi il proprio futuro politico.
Escludendo Napoli, dove il Partito democratico ha subito la peggiore battuta d’arresto al primo turno, non riuscendo neppure a raggiungere il ballottaggio. Sono le altre grandi città quelle in cui si misurerà il peso del voto. In ballo ci sono Roma e Torino, dove i candidati dem Roberto Giachetti e Piero Fassino sfidano le pentastellate Virginia Raggi e Chiara Appendino, oltre a Milano e Bologna, che vedono i renziani Giuseppe Sala e Virginio Merola contrapposti a Stefano Parisi e Lucia Borgonzoni, espressione del centrodestra in formato unitario con la Lega Nord.
Per il Campidoglio, molti osservatori mettono in conto una sconfitta sicura per il partito del premier, sul quale pesano ancora le vicende dell’inchiesta ‘Mafia Capitale’ e la forzatura fatta per costringere l’ex sindaco Ignazio Marino alle dimissioni. Un’affermazione del M5s non sarebbe dunque un vero e proprio dramma per Renzi.
Diverso il discorso per Milano, dove il segretario del Pd ha investito molto con la candidatura del manager che ha gestito l’Expo 2015. Il primo turno è finito in un sostanziale pareggio. Ha vinto Sala, ma con meno di un punto percentuale di distacco sul rivale Parisi. Anche al ballottaggio si preannuncia un testa a testa, e in caso di sconfitta il segnale sarebbe molto più preoccupante rispetto a una eventuale sconfitta a Roma.
Ancor più importante, per Renzi, è riuscire a confermare i sindaci uscenti del Pd a Torino e Bologna, due città storicamente orientate a sinistra e dove il partito del segretario premier è fortemente radicato. Perderle all’ombra della Mole e delle Torri vorrebbe dire che qualcosa non ha funzionato non solo nell’attività delle amministrazioni uscenti, ma anche nello stesso Pd.
Gli scenari che si aprono sono diversi. In caso di vittoria su tutti fronti, a Roma come a Milano, a Torino e a Bologna, il premier avrebbe la certezza di un Pd in salute e in grado di risalire la china anche nelle realtà più difficili. Potrebbe dunque proseguire con la propria strategia aggressiva che sta lasciando poco spazio alla riottosa sinistra dem.
Anche se dovesse perdere solo a Roma cambierebbe poco. Tutti si aspettano una sconfitta di Giachetti, e dunque già arrivare con un distacco ridotto da Raggi sarebbe un risultato tutto sommato positivo. Perdere anche a Milano porrebbe qualche dubbio in più al premier. Sala è il suo uomo, e se venisse sconfitto sarebbe una sconfitta personale di Renzi. Ciò lo indurrebbe probabilmente a correggere i toni della campagna per il referendum costituzionale – cosa che per la verità sta già facendo da qualche settimana – impostandola più sui contenuti della riforma e sfumando l’accento personalistico che ha dato all’inizio, quando ha dichiarato di volersi ritirare dalla politica se gli italiani bocceranno il nuovo assetto della Costituzione.
Non basterebbe invece una semplice correzione di rotta nel caso in cui a capitolare fossero i sindaci Pd di Torino e Bologna, o anche solo uno di loro. Al di là dei meriti o demeriti dei singoli candidati, sarebbe il segnale che il partito del segretario-premier non marcia unito verso obiettivi comuni, e che il malcontento nella minoranza dem è tale da indurre gli esponenti locali a non spendersi nella campagna elettorale pur di dare una spallata a Renzi. A quel punto, per ricompattare le fila del partito, il numero uno di Largo del Nazareno dovrebbe fare qualche concessione ai dissidenti interni, e il terreno sul quale si muoverebbe non può che essere quello della legge elettorale, non gradita da una parte del Pd a cui non piacciono i capilista bloccati che danno al segretario il potere di scegliere sostanzialmente chi far entrare in Parlamento e chi no.
Dopo aver dichiarato di non essere soddisfatto del risultato al primo turno, Renzi ha cercato di intervenire il meno possibile nella campagna per i ballottaggi, quasi a voler mettere una distanza tra sé e una eventuale sconfitta alle urne. Se questa scelta avrà pagato lo si saprà nella notte tra domenica e lunedì prossimi, quando le urne avranno dato il loro responso e il premier dovrà trarre le proprie valutazioni su come procedere nei prossimi mesi.