Bruxelles – Il Regno Unito può esigere che i beneficiari (cittadini dell’Ue) degli assegni familiari e del credito d’imposta per i figli a carico dispongano di un diritto di soggiorno in tale Stato, ebbene tale condizione sia considerata una discriminazione indiretta, “essa è giustificata dalla necessità di proteggere le finanze dello Stato membro ospitante”. Lo afferma la Corte di Giustizia dell’Unione europea in una sentenza emanata oggi, che di fatto da un piccolo sostegno agli oppositori della Brexit.
Il regolamento sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale stabilisce una serie di principii comuni che devono essere rispettati dagli Stati membri, affinché alle persone che esercitano il diritto di libera circolazione e di soggiorno all’interno dell’Unione non sia arrecato un pregiudizio dai diversi sistemi nazionali. Uno dei principii comuni che gli Stati membri devono rispettare è quello di uguaglianza. Nello specifico ambito della sicurezza sociale, il principio di uguaglianza si traduce nel divieto di qualsiasi discriminazione in base alla cittadinanza.
La Commissione europea ha ricevuto numerose denunce di cittadini dell’Unione non britannici residenti nel Regno Unito, i quali lamentavano il fatto che le autorità britanniche competenti avessero negato loro la concessione di determinate prestazioni sociali a motivo del fatto che essi non erano titolari di un diritto di soggiorno in tale paese. La Commissione ha proposto un ricorso per inadempimento contro il Regno Unito, sulla base del rilievo che la normativa britannica non sarebbe conforme alle disposizioni del regolamento.
La Commissione ha rilevato che la normativa britannica impone di verificare che i richiedenti determinate prestazioni sociali – fra cui prestazioni familiari quali gli assegni familiari e il credito d’imposta per figli a carico, oggetto di causa – soggiornino legalmente nel territorio britannico. Secondo la Commissione, tale condizione sarebbe discriminatoria e contraria allo spirito del regolamento, in quanto questo prenderebbe in considerazione unicamente la residenza abituale del richiedente.
Il Regno Unito sostiene invece che lo Stato ospitante può legittimamente esigere che le prestazioni sociali siano concesse soltanto ai cittadini dell’Unione che soddisfino le condizioni per disporre di un diritto di soggiorno nel suo territorio, condizioni sostanzialmente previste da una direttiva dell’Unione. Peraltro, pur ammettendo che il soddisfacimento delle condizioni cui consegue il diritto alle prestazioni sociali di cui si tratta sia più agevole per i propri cittadini (i quali godono per definizione del diritto di soggiorno), in ogni caso, la condizione relativa al diritto di soggiorno è una misura proporzionata al fine di garantire che le prestazioni siano versate a persone sufficientemente integrate nel Regno Unito.
La Corte ha dato ragione a Londra ed ha respinto il ricorso della Commissione.
Secondo i magistrati europei anzitutto questo tipo di prestazioni sono prestazioni di sicurezza sociale e rientrano quindi nell’ambito di applicazione del regolamento.
La Corte respinge poi l’argomento principale della Commissione, secondo il quale la normativa britannica impone una condizione aggiuntiva a quella della residenza abituale, contenuta nel regolamento.
In proposito, la Corte ricorda che il criterio della residenza abituale, ai sensi del regolamento, non è una condizione necessaria per poter beneficiare delle prestazioni, ma una “norma di conflitto” il cui scopo consiste nell’evitare l’applicazione simultanea di diverse normative nazionali e di evitare che le persone che hanno esercitato il diritto di libera circolazione restino senza tutela. Secondo la Corte, il regolamento non organizza un regime comune di sicurezza sociale, ma lascia sussistere regimi nazionali distinti. Esso non stabilisce quindi le condizioni sostanziali per la sussistenza del diritto alle prestazioni, poiché spetta in linea di principio alla normativa di ciascuno Stato membro determinare tali condizioni. In tale contesto, la Corte rileva che nulla osta a che “la concessione di prestazioni sociali a cittadini dell’Unione economicamente inattivi sia subordinata al requisito che essi soddisfino le condizioni per disporre di un diritto di soggiorno legale nello Stato membro ospitante”.
Per quanto riguarda l’argomento della Commissione secondo il quale il controllo del diritto di soggiorno costituisce una discriminazione, la Corte dichiara che “la condizione del diritto di soggiorno nel Regno Unito crea una diseguaglianza, poiché i cittadini nazionali la soddisfano più agevolmente dei cittadini degli altri Stati membri”. Tuttavia, la Corte considera che tale differenza di trattamento possa essere giustificata da “un obiettivo legittimo come la necessità di proteggere le finanze dello Stato membro ospitante, a condizione che essa non vada al di là di quanto necessario per conseguire tale obiettivo”.
A tale proposito, la Corte accerta che le autorità nazionali procedono alla verifica della regolarità del soggiorno conformemente alle condizioni enunciate nella direttiva sulla libera circolazione dei cittadini. Tale controllo non viene quindi effettuato sistematicamente dalle autorità britanniche per ogni domanda, ma soltanto in caso di dubbio. Ne risulta che la condizione non va al di là di quanto necessario per conseguire l’obiettivo legittimo perseguito dal Regno Unito, ossia la necessità di proteggere le proprie finanze.
“La commissione ha costantemente sottolineato che la libertà di movimento riguarda la libera circolazione e non la libertà di accedere ai sistemi sociali dei diversi Paesi e la sentenza della Corte lo ha riaffermato”, ha dichiarato il portavoce dell’esecutivo comunitario Margaritis Schinas che ha rivendicato che “la Commissione Juncker ha sempre applicato questo principio che è confermato nell’accordo raggiunto con Cameron” per una riforma delle regole Ue e ha ribadito che sull’argomento “verranno proposti due emendamenti alle regole sull’accesso ai benefici sociali per i cittadini comunitari che lavorano all’estero”. Questo però, ha precisato, sei i britannici “voteranno per restare nell’Unione europea”.