di Pierluigi Fagan
Il riepilogo del sondaggio dei sondaggi del Financial Times (qui) dà la Brexit al 43% vs. l’opzione del rimanere in EU, data al 45%, ad oggi. È una media di vari sondaggi e ce ne sono di molto sbilanciati in un senso o in quello opposto. Non ho approfondito le metodologie, posso solo dire che quelli a base intervistati più ampia (sui 2-3.000 casi ) sono preferibili, in linea di principio. I sondaggi non sempre possono fotografare le reali intenzioni, manca ancora del tempo e comunque sembra che la questione sia in bilico. Ma non è del come andrà che vorremmo parlare ma capire il cosa potrebbe succedere nell’un caso o nell’altro e cosa possiamo noi augurarci che accada.
La ragione più forte per la Brexit è geopolitica, a riprova del fatto che è questo il gioco che ordina e dà le condizioni di possibilità a tutti gli altri. Il valore geopolitico della Brexit è la libertà, l’autonomia di sviluppare qualsiasi strategia tra quelle più convenienti, attività nella quale i britannici hanno sviluppato – da qualche secolo – uno storico attaccamento e preferenza. Ad esempio, dal trattare o non trattare, e se trattare farlo alle proprie condizioni, gli eventuali trattati di libero scambio, soprattutto scegliendo il “chi”. Non è un mistero che i britannici ritengano strategicamente gli USA una potenza in declino e sanno che una potenza declinante può diventare molto ingombrante da avere come partner, ancor più se dominante nella reciproca relazione. Occorre riconoscere ai britannici di aver saputo gestire abbastanza bene la loro contrazione di potenza nei primi decenni del secolo scorso anche se in un certo senso facilitati dal chiasso delle due guerre mondiali che, in quanto stato di eccezione, ha sopravanzato i dolori della contrazione e qualche volta, ha aiutato anche a dargli un causa nobile per il pubblico interno.
Non sembra che gli americani mostrino pari capacità ed è quindi saggio per i britannici, che sanno di che si tratta, prendere un po’ il largo. Questo “mettersi in proprio” ha già preso le forme di una costante apertura all’Asia, la Cina in particolare. Oggi la Gran Bretagna è la prima destinazione per gli investimenti cinesi in Europa, la prima piazza extra-asiatica per la trattazione dello yuan e Londra è stata la prima, tra gli europei, ad aderire alla Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) oltre a molto altro di cui diamo per scontata la conoscenza del lettore.
In caso di Brexit, Londra potrebbe ancora reclamare un proprio seggio nelle istituzioni internazionali nelle quali i posti per gli europei, potrebbero ridursi a quello dato alla sola Unione (a cominciare dal Consiglio di sicurezza dell’ONU) visto che tener fuori Cina e India (e Germania e Giappone) diventa sempre meno possibile. Potrebbe altresì liberarsi normativamente, nel senso che le aziende che guardano all’UE manterrebbero gli standard specifici imposti dalla UE ma le molte altre che guardano ad altri mercati sarebbero più libere di uniformarsi ai diversi contesti. E non è detto che la Gran Bretagna possa anche porsi a centro di riferimento diplomatico-economico della ex galassia del Commonwealth, venendo a formare una nuova “anglosfera” e dando alternative anche a tutti coloro che, al pari dei britannici, cominciano a sentire la presenza USA come un po’ troppo opprimente e vincolante. Inoltre, lanciati sui servizi avanzati e bisognosi di energia, cibo e materie prime, è certo che i britannici hanno i loro partner commerciali strategici nel vasto mondo e non certo negli europei continentali e negli americani che per molti versi sono a loro omologhi.
Altresì i britannici sono anche ben in grado di far tesoro delle esperienze passate, soprattutto quelle negative che denunciavano il permanere di un mentalità colonial-imperiale e di aver, a suo tempo, presuntuosamente ristretto la leadership del Commonwealth ai soli anglosassoni. Insomma, un po’ meno rule Britannia ed un po’ più primus inter pares, perno di un’alleanza che avrebbe insospettabili potenzialità di ampliamento. Se poi metti a sindaco di Londra un post-pakistano, beh, ti presenti davvero bene… Per omogeneità storica, culturale e giuridica, ha quasi più possibilità di riformarsi un neo-Commonwealth che unificarsi la litigiosa Europa, in cui tra l’altro i britannici sarebbero condomini con francesi, tedeschi ed italiani, non proprio una passeggiata tra amici.
Naturalmente, quanto vale in termini economici e geopolitici di questa ipotesi vale per la parte militare (in cui la Gran Bretagna è dotata di nucleare e di seggio permanente al Consiglio di sicurezza ONU) e soprattutto per la sterlina, che dalla ripresa della vecchia idea del paniere di valute avrebbe tutto da guadagnare. J. M. Keynes ai tempi di Bretton Woods ben intuì la necessità di articolare al plurale le valute (bancor) e le compensazioni di mercato (clearing union), necessità che coincideva per altro con l’oggettivo interesse britannico che come ex impero volgeva e volge al multipolare per definizione (se non comandiamo noi, allora che non comandi nessuno).
In breve, il massimo punto di obiettivo interesse per l’ipotetica Brexit, interesse per i britannici che la debbono decidere e per noi che la stiamo commentando, è la previsione ormai certa che il futuro del mondo sarà multipolare e ben si troverà chi si porrà come uno dei possibili poli, con un buon posizionamento ovvero con un buon assetto tra ciò che può offrire agli altri e ciò che pretenderebbe di ricevere in cambio, oltre al “peso” sprigionato dalla propria consistenza economica-culturale-militare e politica.
Certo che la UE, che è solo un mercato e mai e poi mai sarà un soggetto geopolitico, da questo punto di vista, è un cavallo morto, e data la nota passione che i britannici hanno per le corse dei quadrupedi difficilmente vorranno rimanere attaccati al ronzino stanco. Tant’è che anche le concessioni di eccezioni pretese da Cameron nelle trattative con la UE hanno teso appunto a mantenere il massimo dei vantaggi di permanenza nell’unione mercantile, liberandosi quanto più è possibile da quella politica e giuridica (siamo poi sicuri che Cameron sia poi così contrario ad una possibile exit?; se sei così contrario, vai proprio tu ad indire un referendum?).
Non è poi detto che al di là dei ricattatori e catastrofisti proclami, le relazioni UE-Gran Bretagna, per la loro parte “naturale” che indubbiamente c’è, a prescindere da più contorte considerazioni, possano rimanere non poi molto afflitte da una eventuale rescissione dei patti unionisti. Questa dei trattati è, come nel caso del TTIP, più una faccenda giuridica a sfondo politico-geopolitico che strettamente commerciale. Una Gran Bretagna atomica, non più minaccia imperiale e quindi collegata ad una catena di “liberi amici”, amica ma autonoma da USA ed UE, liberale e democratica per fondazione ma molto realista nella relazioni internazionali, moderna, dotata della massima legittimità, forse il paese in cui si è storicamente concentrato il maggior know how di mondo (saper come avere a che fare col mondo), ancora centrale piazza finanziaria e vogliosa di riprender peso nell’intricata ragnatela che si verrà a formare nel mondo multipolare (immagino un 100% di Brexit al seggio del Foreign Office e dell’MI6), è davvero un ottimo posizionamento.
Sull’altro piatto della bilancia, oltre alla City (che pesa poco in termini di voti reali anche se qualcosa in più per quelli che influenza), alcune multinazionali, la pancia dei due principali partiti (o forse solo quella dei loro funzionari), la paura di una possibile catena di secessioni (subito gli scozzesi, ma forse anche gli irlandesi), l’instabilità politica, i contraccolpi e la destabilizzazione pilotata dall’esterno (non è che gli americani certe cose non le sappiano fare e, come dimostra il caso Panama Papers-padre di Cameron, non staranno alla finestra a guardare), la lunghezza e la complessità delle procedure di ritiro dall’UE che aumenterebbero l’incertezza, gli strali delle élite globali che potrebbero meditare qualche ritorsione anche per frenare il contagio da “voglia di autonomia”.
Certo, una UE rifiutata, con tutti i populisti e nazionalisti sul piede di guerra, con una sequenza certa di richieste di altri referendum ed il rischio concreto di implosione, non parteciperebbe alla procedura di divorzio con piglio consensuale. Ma chissà se, a parte i gelatinosi burocrati di Bruxelles, ci sarebbe poi veramente chi vuole insistere nella inconcludente e contraddittoria impresa unitaria. Chissà se in Germania dove, secondo chi scrive e non solo, i sentimenti di ritorno all’autonomia del marco e di una geopolitica coltivata in piena autonomia sono molto più forti dei risultati elettorali dell’AfD, non si pensi di prender la palla al balzo, dar per persa la sempre più complicata gestione della scombinata banda euro e riquadrarsi finalmente in una più ordinata “Unione del Mar del Nord”, una Lega anseatica che correrebbe prontamente a far accordi commerciali con gli stessi britannici lasciando i mediterranei al loro destino africano-mediorientale con supervisione americana. Questo del continente frantumato dal “tana libera tutti” di Londra sarebbe un eterno ritorno per i britannici, la cui posizione storico-geopolitica è stata – da sempre- dedicata a contro-pesare la pluralità congenita dell’Europa attraverso il classico divide et impera , anche per evitare di farsi imperare, ciò che i britannici non potranno mai ed in nessun modo accettare, almeno per i prossimi immediati due-tre secoli.
Naturalmente, tutto ciò non è affatto oggetto del pubblico dibattito britannico sul referendum del prossimo 23 giugno, impegnato in migranti, paura di clash finanziario, delegittimazioni tra leader ed altre risse minori. Non lo è e non lo potrebbe essere dato che questo tipo di questioni sono strutturalmente fuori dalla portata della mentalità media, del tutto impreparata a partecipare democraticamente alle scelte politiche dell’era complessa.
Ma a giudicare da questo intervento di Slavoj Zizek (qui), che consiglia ai britannici di rimanere nell’UE sebbene come alleati alla critica al neoliberismo e bastione contro il populismo nazionalista delle destre, forse tali questioni sfuggono anche a menti che si presumerebbero ben più preparate. Si può condividere senz’altro il giudizio del filosofo sloveno di sostanziale inutilità e totale subordinazione che ogni nazione da sola (ma questo vale per la Slovenia, l’Italia, la Spagna, non per chi da solo non rimarrebbe e magari sarebbe ben meglio accompagnato) avrebbe nel panorama mondiale dell’era complessa ma solo se accompagnato da un pari giudizio di impossibilità verso una unione politica e geopolitica degli europei. Solo le menti che disegnano il mondo su fogli privati e lisci, quelli in cui non ci sono i confini storico-culturali, la oggettiva complessità e divergenza degli interessi Stato-nazionali, continuano a coltivare questo disegno impossibile. Il buco nero mentale che alberga nelle mentalità marxiste a proposito dell’entità Stato-nazionale, dà questa cecità geopolitica, semplicemente mancando il concetto, manca l’attitudine a leggere l’ordito.
La battaglia per un’Europa di sinistra, anticapitalista, ecologica e democratica non è di per sé sbagliata sul piano ideale; è semplicemente irrealistica poiché accetta l’unità continentale come dogma indiscusso, dogma che come tutti i dogmi nasconde una inconsistenza di principio. Si può certo convenire che sarebbe bello e desiderabile un soggetto così e colà ma se l’oggetto è impossibile di cosa stiamo parlando esattamente? E se stiamo parlando di un oggetto che non è politicamente possibile, il nostro dire che effetto ha su quelle condizioni di mondo che dovremmo cambiare e non più solo interpretare? Ma, a volte, sembra che il pensiero marxista sia più interessato a sopravvivere in forme pubblico-accademiche che danno lustro ai suoi portatori che effettivamente a impegnarsi in quella modifica del mondo che muoveva con forza il suo fondatore.
Quanto alle reazioni geopolitiche all’eventuale Brexit, scontata la contrarietà della attuale UE e degli USA, che per altro si sono espressi con chiare parole per bocca del presidente uscente che forse non ha ben capito a chi stava parlando, scontata la positività da parte russa,meno facile intuire le reazioni cinesi. Gli analisti occidentali, per lo più conformi al giudizio negativo delle élite da cui sono stipendiati, hanno abbondantemente riportato giudizi negativi, anche in ragione dei copiosi investimenti fatti nel Regno Unito che sono letti come strategicamente orientati a ritenere l’UK un avamposto strategico di collegamento all’Unione europea che, in parte, i cinesi certo preferirebbero intendere come un mercato unico e non un rompicapo giuridico-politico di pezzi di puzzle indecifrabili. Queste considerazioni sono legittime, però se ne potrebbero affiancare altre anche perché presupporre che i britannici siano più stupidi degli analisti che li studiano è abbastanza improbabile. Una Gran Bretagna esterna all’UE non sarebbe necessariamente contro la UE ed i rapporti commerciali, come detto, sarebbero facilmente mantenuti tali e quali a quelli storici, cioè intensi. E forse, l’idea di avere un polo in più, un nuovo attore importante sullo scacchiere mondiale, potrebbe non dispiacere ai cinesi. Certo, i britannici non si farebbero troppi problemi dell’espansione asiatica del Paese di Mezzo, a differenza degli americani, e potrebbero anzi stornare le intenzioni geopolitiche neozelandesi ed australiane in favore dello “sviluppo armonioso” del Pacifico, in luogo del ben più minaccioso TPP.
Come piazza di banca-finanza-assicurazione, Londra non avrebbe conflitti d’interesse con lo sviluppo cinese sia per le due vie della seta, sia in Africa e financo in Sud America, anzi. La relativizzazione degli USA, forse più come principio che non subito come sostanza, è la precondizione di possibilità per avviare una nuova stagione di relazioni multipolari che è il futuro voluto da Pechino, e un nuovo polo britannico, magari costellato da alcuni paesi in cerca di una occidentalità meno militarista ed unilaterale di quella di Washington, creerebbe questa multipolarità di fatto.
Infine, la carambola degli effetti eventualmente disgreganti sull’Unione europea, se da una parte è certo un fastidio di non poco conto per le relazioni bilaterali, dall’altro scompaginerebbe quel monolite acefalo che è passivamente diretto geopoliticamente da Washington. Magari, scompaginandosi, poi si riformula… Una Brexit potrebbe realmente dare una svolta storica ai processi geopolitici, a partire proprio dal puzzle europeo. Nonostante i meno avveduti pensino ancora possibile in Europa un ritorno delle nazioni ottocentesche e solo i più testardi si immaginano un futuro per la UE, nuove e diverse unioni potrebbero formarsi. In fondo l’Europa ha tre-quattro blocchi costituenti fondamentali (esclusi i britannici che vanno comunque considerati a parte): quello tedesco-scandinavo, quello mediterraneo e quello balto-slavo, eventualmente divisibile in due con diverse possibilità di dove porre la linea di faglia.
Questa Europa del molteplice,che non ripiomba nel delirio degli Stati-francobollo tra loro in rovinosa ed inconcludente competizione, avrebbe la concreta possibilità di formattarsi in poche, ampie e significative federazioni. Federazioni concretamente possibili perché basate su forti consistenze storiche, linguistiche, culturali, religiose e geografiche comuni (che sono poi quelle che maggiormente influenzano l’interesse geopolitico) che sono l’ineludibile precondizione per avere una unione politica. Il non compreso dell’ipotesi Unione europea/euro, è che non si sono mai fatte né mai si faranno nuove entità politiche basate su forme date dagli interessi economici semplicemente perché la complessità di uno Stato e sottostanti popoli non ha la stessa natura della complessità di un mercato. C’è anzi una ontologia divergente, geografica per gli Stati, meta-geografica per i mercati. Vere federazioni, cioè Stati, sono unità giuridiche, politiche, geopolitiche, quindi entità stabili orientate dal legittimo giudizio popolare democraticamente espresso e con potere di decisione e consistenze, comunque, non trascurabili. Per una eventuale federazione mediterranea che includa la Francia, parliamo di più di 200 milioni di persone per quella che sarebbe comunque la terza economia-mondo dopo USA e Cina.
Per PIL, l’UE è oggi prima ma la UE è un’entità statistica, non politica. L’UE potrebbe diventare così felicemente ed utilmente per gli stessi europei una confederazione, magari con unità militare che al contempo liberi dalla dipendenza NATO ed immunizzi preventivamente da ritorni di fiamma della storica competitività armata che ci affigge dalla guerra del Peloponneso in poi. Naturalmente potrebbe benissimo riformulare un proprio naturale mercato comune e, se ci tiene, anche un serpente monetario che leghi un po’ ma non troppo le sue nuove tre quattro nuove valute.
Siamo convinti che prima o poi, questa sarà la strada che ci riserva il futuro. Nel frattempo, tempo triste in cui unionisti e nazionalisti si contendono la verità che sfugge ad entrambi, può darsi che la Brexit non passi, ma visto che comunque il risultato non dovrebbe essere così chiaro (una forte affermazione dei “sì”) e stante una forte regionalizzazione degli stessi “sì” in Scozia, Irlanda e forse Galles e quindi dei “no” in Inghilterra, che rimane la pancia storica dell’unione dei britanni, l’ambiguità e l’agonia delle relazioni tra UK ed UE e quelle interne all’Europa non potranno che aumentare (il quesito referendario è: Should the United Kingdom remain a member of the European Union?).
Ci risparmieremmo volentieri questo “tanto peggio tanto meglio” ma è evidente che lo stato delle idee e delle intenzioni tra gli europei, tra le élite, anche quelle intellettuali, non possa dare altro esito che continuare ad aspettare e, purtroppo, soffrire della nostra mancanza di spirito nel trovare i nuovi modi di stare al mondo che l’era complessa richiede come necessari.
La notte d’inizio estate del 23 giugno andremo a dormire forse con ancora il punto interrogativo. Alcuni sogneranno la continuazione delle sorti progressive dei paesi espropriati dai mercati impersonali di cui sono la mano visibile, Juncker andrà a letto sicuramente ubriaco, la Merkel pensosa, Obama tra il preoccupato ed il sollevato per il suo prossimo fine mandato, Putin forse rimarrà alzato a seguire gli exit-poll e lo spoglio. Altri sogneranno che dalla continuazione dell’incubo europeo un bel giorno si sveglierà, come la principessa delle favole, una miss Europa democratica, ecologica, uguagliante ed anticapitalista, altri ancora sogneranno il grande ritorno delle identità impaurite che inneggiano all’uomo forte, altri dell’impero. Noi la complessità multipolare che per chi s’interessa di geopolitica è come la mattina di Natale prima della corsa ai doni sotto l’albero.
Poi, l’indomani, quando ci sveglieremo davvero, ci troveremo in un mondo che di nuovo ci interrogherà su quali intenzioni abbiamo per far fronte alla nuova era complessa. Il mondo complesso è la vera entità dalla quale non è possibile una exit e sempre più ci imporrà la realistica responsabilità del doverci a lei adattare. Noi, speriamo di cavarcela; alla Regina, come sempre, ci penserà Dio.
L’articolo ha abbondantemente tratto spunti da questi di Eurasia, LSE , Economist ed altri di minori. Pubblicato sul blog dell’autore il 7giugno 2016.