Bruxelles – Una grande ricchezza da spendere per la pace, per il dialogo, contro il terrorismo. E’ la cultura, quella europea e quella degli altri popoli. Federica Mogherini, Alta rappresentate per gli Affari Esteri e la politica di Sicurezza dell’Unione e vice presidente della Commissione europea, secondo la rivista Forbes una delle 20 donne più influenti del Mondo, ci ha lavorato a lungo, superando non poche resistenze ma trovando il sostegno deciso del governo italiano, e mercoledì 8 giugno la Commissione europea ha varato la comunicazione “Towards a EU strategy in international cultural relations”. Tradotto in parole semplici: la “diplomazia culturale”, uno dei temi, tra l’altro, che saranno al centro del convegno annuale di Eunews “How can we govern Europe?” in programma a Roma a metà novembre.
Il dubbio che nasce in questi casi è che ci si trovi davanti a bei progetti, ma senza gambe per camminare. Invece, assicura Mogherini, “i fondi ci sono, bisogna assicurarsi che non vengano distribuiti a pioggia, ma che vadano dritti al cuore dei nostri interessi”, che sono “rafforzare l’economia della nostra regione, ma soprattutto a creare ponti, a conoscere e a farci conoscere, a stabilire legami tra le persone, in questi tempi difficili, anche per contrastare fobie e spinte alla radicalizzazione, in Europa e fuori dai nostri confini”.
Eunews: Una proposta che potrebbe rivoluzionare l’approccio dell’Unione europea alla diplomazia e alla promozione della cultura, che può significare anche un sostegno importante alla crescita economica. Ce ne può illustrare le linee qualificanti?
Mogherini: La cultura è la nostra più grande ricchezza. Per ciascuno di noi individualmente e per le nostre società collettivamente. E la cultura è una risorsa: certamente una risorsa economica, ma anche una risorsa per la nostra politica estera. E come tale va valorizzata. Prima di tutto perché è centrale nella formazione di ciascuno di noi come individuo e come cittadino, poi perché crea benessere, innovazione e anche posti di lavoro. È sicuramente vero in Europa, dove le industrie creative producono più ricchezza del settore automobilistico o di quello chimico. E può essere vero anche al di fuori del nostro continente. Dunque investire diplomaticamente sulla cultura può aiutare a rafforzare l’economia della nostra regione, ma soprattutto a creare ponti, a conoscere e a farci conoscere, a stabilire legami tra le persone, in questi tempi difficili, anche per contrastare fobie e spinte alla radicalizzazione, in Europa e fuori dai nostri confini. Per questo abbiamo sentito il bisogno di lavorare alla prima strategia europea per la diplomazia culturale.
Sembra essere uno strumento di politica estera in grado di portare grandi risultati, anche per la prevenzione di conflitti e ricucire le società devastate dalla guerra.
La cultura è sempre stato uno strumento potente di politica estera, dalla filosofia greca alla matematica araba, da Matteo Ricci al cinema americano ai tempi della guerra fredda. La nostra Europa è una superpotenza culturale, anche se non sempre ce ne rendiamo conto: la nostra cultura affascina il mondo intero, siamo un punto di riferimento. Questa potenza va utilizzata, bisogna farla diventare uno strumento di pace e di crescita. Quando sosteniamo la ricostruzione digitale delle meraviglie irachene distrutte dalla guerra, oppure il restauro dei manoscritti di Timbuktu danneggiati dai terroristi, salviamo un pezzo importante della storia della nostra parte di mondo e allo stesso tempo aiutiamo anche l’economia di paesi fondamentali per i nostri interessi, contribuiamo alla rinascita di quei luoghi, a dare un’opportunità e speranza a chi vive lì e non vuole lasciare la propria terra. La salvaguardia di una chiesa o di una moschea può avere un enorme valore simbolico in una trattativa di pace o in un percorso di riconciliazione nazionale. Quando combattiamo il traffico di opere d’arte trafugate in Siria, stiamo anche togliendo uno strumento di finanziamento a terroristi e bande di criminali. Più la politica estera è centrata sulla cultura, più è efficace. E questo è già una realtà: gli istituti di cultura che ogni Paese ha nel mondo sono spesso il cuore dell’azione diplomatica. Si tratta, per quanto ci riguarda, di rendere sistematico e comune questo lavoro a livello europeo.
Come si dice, “un nuovo paradigma”. Da dove siete partiti e quanto è stato difficile ottenere il risultato? A quanto sappiamo ci sono state forti resistenze all’interno della Commissione, forse più che dagli Stati membri.
Quello che conta è che alla fine ci siamo trovati tutti d’accordo su un testo innovativo, su un nuovo modo di lavorare. Anche le ambasciate europee nel mondo, non solo quelle degli Stati membri, fanno un grande lavoro organizzando concerti, festival del cinema, mostre d’arte. Ma esibire la nostra arte non basta più, ci vuole un modo di fare cultura più attivo. Vogliamo che le nostre delegazioni siano un punto di riferimento e di spinta, per aiutare gli operatori culturali europei a lavorare coi nostri partner, per fondare imprese culturali miste, per creare nuovi gemellaggi tra musei e percorsi turistici collegati, ma anche per creare una vera e propria rete tra gli ex studenti di Erasmus, come sostengo alla nostra economia e alla diplomazia. Vogliamo che restauratori e ricercatori stranieri vengano da noi a imparare mestieri in cui l’Europa è all’avanguardia, e a insegnarci mestieri che noi abbiamo dimenticato o che non conosciamo ancora. Pensiamo poi a chi fugge dalla guerra o dalla miseria: nessuno deve perdere il diritto alla propria cultura. Non si può pensare di fare integrazione costringendo chi arriva nelle nostre città a rinunciare alla sua storia, né rinunciando noi alla nostra di storia. Così si alimenta solo la frustrazione e la diffidenza. Solo se ci ricordiamo le nostre origini, identità diverse potranno vivere insieme e rispettarsi tra di loro.
I progetti, anche i migliori, non possono camminare senza le tasche ben fornite di soldi. Su che livello di finanziamenti potrà contare la “EU strategy in international cultural relations”?
L’Unione già adesso finanzia decine di programmi di aiuto allo sviluppo o di cooperazione che hanno anche contenuti culturali. Ma fino a oggi non ha mai avuto una visione né una strategia. Capitava che un ministero non sapesse neppure cosa faceva l’altro. I fondi ci sono, bisogna assicurarsi che non vengano distribuiti a pioggia, ma che vadano dritti al cuore dei nostri interessi. Anche per questo abbiamo voluto una strategia, una road-map comune. Dobbiamo far collaborare tra di loro le nostre delegazioni nel mondo, i servizi della Commissione e gli istituti culturali nazionali: in ogni paese e regione possiamo individuare insieme i progetti fondamentali e le linee di finanziamento possibili. I governi nazionali verranno coinvolti direttamente: la proposta italiana dei Caschi blu della cultura dimostra che un’idea nata in un paese membro può diventare patrimonio di tutti, con un po’ di gioco di squadra. Ed è vero anche che gli istituti culturali nazionali stanno già dando un ottimo esempio di collaborazione a livello europeo, nelle tante regioni del mondo dove si coordinano con l’Eunuc, l’associazione degli istituti culturali europei.
Esiste già qualche progetto, da dove pensate di iniziare?
Un caposaldo della nostra azione sarà il Mediterraneo – pensiamo a quanto c’è da fare, da Palmira al museo del Bardo di Tunisi. La cultura può offrire una prospettiva diversa da quella della violenza e dell’estremismo spacciata dai terroristi. In ogni caso, non partiamo da zero. Abbiamo già molti programmi che fanno diplomazia culturale, la nostra collaborazione con l’Unesco è consolidata, le delegazioni dell’Unione lavorano spesso a pieno ritmo. Ma con un po’ di unità in più, con una cabina di regia comune, possiamo finalmente assumerci le nostre responsabilità di superpotenza culturale.
Una delle sfide che ci attendono è poi quella dei rapporti con l’Iran, da quando le relazioni sono state rese più facili dall’intesa sul nucleare. Non è un caso che tra i primi accordi firmati con Teheran da alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, molti riguardino la cultura. L’Europa può coordinare le iniziative degli Stati membri e fare in modo che si rafforzino e si completino a vicenda.
Che tipo di collaborazione immagina tra i centri culturali europei e quelli dei Paesi terzi?
La più aperta possibile. Non si tratta certo di andare a imporre la nostra cultura in giro per il mondo. Non vogliamo colonizzare: abbiamo tanto da raccontare di noi, ma anche tanto da imparare. L’Europa è una terra di diritti e di libertà, vogliamo farci conoscere ancora di più nel mondo anche attraverso la nostra cultura. E sappiamo anche che la cultura e l’innovazione non nascono mai in isolamento. È stata la nostra apertura al mondo a rendere grande questo continente. Abbiamo assorbito influenze diverse, le abbiamo fatte incontrare con la nostra storia e le abbiamo intrecciate tra loro. E bisogna continuare su questa strada, ad esempio invitando i nostri partner di tutto il mondo ad aprire centri culturali da noi e a raccontare la loro arte, le loro tradizioni, la loro modernità. Una parte della diffidenza e della paura nei confronti di chi arriva in Europa in fuga dal proprio Paese è dovuta a stereotipi e a scarsa conoscenza delle loro culture. Ma anche, troppo spesso, dalla scarsa conoscenza della nostra cultura e della nostra identità. Chi pensa che l’incontro con altre culture e altre tradizioni porti a rinunciare alla nostra cultura e alle nostre tradizioni conosce poco la storia. Sono il dialogo, il confronto, l’apertura i modi migliori per riscoprire la nostra storia e la nostra cultura.