di Will Denayer
1. Varoufakis
Questo articolo parla di strategia, ma la strategia non può essere considerata indipendentemente dalle persone, dalle loro storie e dalle loro azioni. SYRIZA è sempre stata un complicato conglomerato di gruppi con convinzioni politiche eterogenee, ma da quando è salita al potere nel gennaio 2015 fino alla sua resa sette mesi più tardi, sono emerse al suo interno due fazioni nettamente contrapposte. Da una parte c’era una sinistra composita ma determinata a mantenere le promesse elettorali (il programma di Salonicco): fine dell’austerità, la cancellazione del debito e, se la troika non avesse lasciato al paese altra scelta, l’uscita dall’euro.
Come spiega Lapavitsas, la dirigenza di SYRIZA si era convinta che se avesse rifiutato un nuovo salvataggio, i creditori europei si sarebbero piegati di fronte al rischio di un nuovo tumulto finanziario e politico. La mente dietro a questa strategia era Yanis Varoufakis. Varoufakis trattò con i creditori per oltre sei mesi. Ma la Grecia non poteva condurre alcuna trattativa efficace se non disponeva di un piano alternativo – un piano che includesse anche l’uscita dall’eurozona. La possibilità di creare la propria liquidità sarebbe stato l’unico modo per evitare lo strangolamento da parte della troika. Ovviamente non sarebbe stato facile, ma avrebbe quantomeno fornito la possibilità di resistere di fronte alle catastrofiche strategie di salvataggio. Ma la dirigenza di SYRIZA non voleva sentirne parlare (si veda qui).
«SYRIZA ha fallito», scrive Lapavitsas, «non perché l’austerità fosse invincibile, né perché i cambiamenti radicali siano impossibili, ma solo perché era disastrosamente riluttante e impreparata a sfidare a viso aperto la questione dell’euro. Un cambiamento radicale e l’abbandono dell’austerità in Europa richiedono un confronto diretto con l’idea stessa di unione monetaria. Per i paesi più piccoli questo significa prepararsi a uscire, per i paesi più grandi significa accettare dei cambiamenti decisivi all’attuale assetto monetario» (si veda anche qui e qui la sua idea sulla Grexit).
Oggi Varoufakis si ripresenta come l’ideatore di DiEM2025 (Democracy in Europe 2025). L’ex ministro delle finanze greco gode ancora di grande credibilità presso la sinistra europea. Molta di questa credibilità si basa sulla leggenda metropolitana secondo cui il governo di SYRIZA avrebbe condotto una lotta eroica contro i poteri forti dell’Europa, che hanno dimostrato di disprezzare la democrazia e di non aver nessuna visione economica e nessuna considerazione del destino del popolo greco.
Secondo questa narrazione degli eventi, nel 2015 non vi sarebbe stata “nessuna altra scelta” per il governo greco se non quella di accettare le condizioni della troika. Oggi DiEM2025 vorrebbe riformare le istituzioni dell’UE. Ancora una volta, l’argomentazione è che “non c’è alternativa”. Una lotta a livello nazionale è impossibile, e dunque la sinistra di tutta l’Europa si dovrebbe unire e affrontare di petto le stesse istituzioni UE. Lo scopo di DiEM2025 è quello di «democratizzare la UE con la consapevolezza che altrimenti essa si disintegrerà e questo avrà un costo enorme per tutti» (si veda qui). Alle seguenti “opzioni spaventose” – ritirarsi dentro i cosiddetti «vecchi bozzoli degli Stati-nazione» oppure «arrendersi all’oligarchia europea» – DiEMI2025 propone una “terza via”: «costruire un’assemblea costituente» dove gli europei possano deliberare il modo in cui costruire, entro il 2025, una compiuta democrazia europea, che abbia un “parlamento sovrano” che «rispetti l’autodeterminazione nazionale e condivida i poteri coi parlamenti nazionali, le assemblee regionali e i consigli municipali» (si veda qui). Tutto ciò è, come ammette lo stesso Varoufakis sull’Independent, «utopistico». Eppure, continua lui, è «molto più realistico che cercare di mantenere il sistema così come è adesso» oppure «cercare di abbandonarlo». Che voi siate greci o britannici, “fuggire” è impossibile (si veda qui e qui). Vi ricorda qualcosa?
2. Quali riforme?
La “democrazia sovranazionale” proposta da DiEM2025 dovrebbe basarsi su «un significativo potenziamento del Parlamento europeo, che dovrebbe essere l’unica autorità legislativa europea», affiancata da «un esecutivo completamente riformato, che dovrebbe includere un presidente europeo direttamente eletto». Questo sistema garantirebbe che la Commissione metta in atto solo le politiche che si basano sulla volontà popolare. Questo dovrebbe andare di pari passo con la creazione di nuovi partiti autenticamente europei (si veda qui e qui).
Bisogna subito prendere atto di alcuni problemi. Tanto per cominciare, la proposta assume, stranamente, che ci sia un legame diretto tra il potenziamento del Parlamento europeo ed il cambiamento politico e ideologico. Ma perché mai ciò dovrebbe avvenire? Gli europei dovrebbero decidere di eleggere un parlamento più orientato a sinistra solo perché i suoi poteri sono stati aumentati? E poi, da dove verrà questo potenziamento del parlamento? Il Parlamento europeo stesso non può deciderlo da solo, per cui servirà dell’altro. D’altra parte, perché iniziare il discorso proprio dal parlamento? Un tale cambiamento potrà avvenire solo quando saranno modificati i rapporti di potere all’interno della Commissione e dei due Consigli. In realtà ciò di cui ci sarebbe bisogno è una trasformazione totale delle istituzioni politiche europee. E ciò può avvenire solo in conseguenza di cambiamenti a livello nazionale. Ma allora perché concentrarsi sul livello sovranazionale come punto di partenza?
DiEM2025 ha una strategia (se volete chiamarla così) finalizzata al cambiamento politico. La nuova democrazia sovranazionale deve accompagnarsi alla creazione di un «elettorato post-nazionale o sovranazionale». Ma questo come funzionerebbe? Come nota giustamente Thomas Fazi, è evidente che per la grande maggioranza dei normali cittadini europei, le barriere linguistiche e le differenze culturali impediscono la possibilità di una partecipazione a livello sovranazionale (si veda qui). Può essere ovvio, ma è un problema reale. Perché mai avremmo bisogno di tali partiti? Cosa possono fare questi che non possono fare gli altri? Non c’è lo straccio di una prova che questo migliorerebbe le cose.
È vero il contrario, semmai. Una ulteriore integrazione, se anche venisse accompagnata da un potenziamento del parlamento, non sarebbe equivalente ad un maggiore controllo popolare. Ingenuamente, Varoufakis assume che una versione migliorata del Parlamento europeo sarebbe sufficiente per garantire un vero controllo democratico sulle decisioni dell’UE. Come sostiene giustamente Fazi, ciò ignora completamente la questione della “cattura oligarchica” (si veda qui). La ricerca dimostra che i problemi relativi alle pressioni lobbistiche possono solamente aumentare quando si passa al livello sovranazionale. Il trasferimento della sovranità a istituzioni sovranazionali contribuisce all’indebolimento del controllo popolare. Questi luoghi sono, in genere, fisicamente, culturalmente e linguisticamente più distanti dall’opinione pubblica di quanto non lo siano i loro corrispettivi nazionali. E questo li espone a maggiore probabilità di cattura da parte di forze oligarchiche (si veda qui).
Nell’Unione europea ci sono due fonti di legittimazione democratica: il Parlamento europeo, che viene eletto direttamente dai cittadini degli Stati membri, e il Consiglio dell’Unione europea (il consiglio dei ministri) assieme al Consiglio europeo (la riunione dei governi nazionali). La Commissione europea viene nominata da questi due enti. Ci sono molte cose che si possono criticare del Parlamento europeo, ma la verità è che il Parlamento europeo non è molto diverso dai parlamenti nazionali. In teoria i membri dei parlamenti nazionali avrebbero il potere di proporre le leggi. Nel Parlamento europeo questo non avviene. Esso può solo fare degli emendamenti che poi la Commissione accetta o rifiuta. Tuttavia, anche nei parlamenti nazionali in media meno del 15 per cento delle iniziative legislative proposte dai membri parlamentari diventa poi legge (si veda qui). Ben pochi membri parlamentari (o addirittura nessuno) propone una legge che non sia già stata prima approvata dai rispettivi partiti o che non sia stata stabilita assieme agli altri partiti della coalizione. Di certo il Parlamento europeo non sta funzionando come dovrebbe fare un vero parlamento, ma questo vale anche per molti parlamenti nazionali. Questo significa anche che la lotta per la “democrazia in Europa” deve essere anzitutto condotta a livello nazionale. Non è un problema che riguarda solo le istituzioni europee. È un problema che riguarda tutta l’Europa.
Le istituzioni europee sono dei gusci vuoti se i governi nazionali non approvano le scelte politiche prese a quel livello. Il voto del Consiglio avviene o a maggioranza qualificata o all’unanimità. Tutte queste decisioni vengono prese da rappresentanti politici nazionali. Lo stesso vale per il consiglio di amministrazione della Banca centrale europea. C’è un presidente, un vicepresidente e altri quattro membri. Questi membri sono nominati dal Consiglio europeo. Le decisioni della BCE vengono prese da questi sei membri più i governatori delle banche centrali nazionali dei 19 paesi dell’eurozona. Il collegamento con il livello nazionale è forte.
La situazione all’interno della Commissione è ancora peggiore. La Commissione ha un presidente che viene eletto dal Parlamento europeo. Ciò significa ben poco, perché l’ultima (e la prima) volta in cui ciò è avvenuto, il nome di Juncker era anche quello dell’unico candidato. Gli altri 27 commissari non sono eletti, il che significa che detengono la loro posizione come risultato di trattative tra i governi nazionali. Nel corso degli anni è diventata abitudine decidere le nuove legislazioni in un’unica lettura. Le nuove misure di governance economica, come il fiscal compact, il six-pack, il two-pack e il semestre europeo, sono state decise con modalità che sono fondamentalmente anti-democratiche. Tutto ciò è pessimo e va sicuramente cambiato, ma in cosa differisce realmente da ciò che avviene nelle legislazioni di molti parlamenti nazionali in Europa? L’austerità e le riforme vengono dibattute in parlamento finché l’opposizione non vota contro e la maggioranza le approva lo stesso, forse con qualche disertore solitario qui e là. Nessun governo nazionale in Europa è caduto a causa dell’introduzione delle misure di austerità. Questo dimostra che il problema non è localizzato solamente al livello europeo. In effetti, se non ci fosse questa macabra ossessione ordoliberista, monetarista e mercantilista, questa ossessione per la competitività e le “riforme strutturali” a livello nazionale, l’UE non avrebbe alcun potere per portare avanti questi programmi.
Al tempo stesso, come scrive Wolfgang Kowalsky, le ambizioni delle politiche sociali sono state decisamente abbassate verso standard del lavoro che sono ben al di sotto degli attuali standard minimi europei (si veda qui). Tutto ciò, ovviamente, è un male. Ma guardate a ciò che avviene a livello nazionale. Tutto ciò non è molto diverso da ciò che avviene in Francia, nel Regno Unito, in Belgio o in molti paesi dove governi conservatori (o di qualsiasi altro colore) mettono in atto (o provano a mettere in atto) una gran quantità di leggi anti-sociali.
Al posto di questa ossessione per la facciata («façadism», la chiama Kowalsky), ci sarebbero molte altre iniziative che la UE potrebbe promuovere se fosse interessata alla democrazia. Potrebbe, ad esempio, rendere reale la democrazia nei luoghi di lavoro e portare avanti una democrazia industriale – termini che nemmeno si trovano nei documenti sulle politiche europee (inclusi quelli del Parlamento europeo). Al contrario, le istituzioni europee (Parlamento europeo incluso) stanno attualmente cercando di intromettersi nel territorio della contrattazione collettiva nazionale, imponendo limiti all’andamento dei salari – una strategia chiaramente finalizzata a distruggere l’autonomia delle parti sociali (si veda qui). Ma questo, ancora una volta, sta avvenendo in un modo o nell’altro anche all’interno della maggior parte dei paesi europei e dunque, ancora una volta, è una battaglia che deve essere combattuta a livello nazionale, non da partiti transnazionali, ma da partiti socialdemocratici e di sinistra.
3. La TINA (there is no alternative) della sinistra
La TINA (there is no alternative, ‘non c’è alternativa’) di DiEM è ben peggiore della sua fallace analisi sulle istituzioni europee e sulla questione rapporti di potere. Non c’è nulla di casuale in questo. È la conseguenza naturale della diagnosi che i leader di DiEM fanno di ciò che non va nel mondo: se le nazioni sono diventate impotenti a causa della globalizzazione – come sostengono – allora non ha senso iniziare una lotta politica a livello nazionale. Questa è la tesi di DiEM. Ma gli Stati nazionali non sono affatto diventati impotenti a causa della globalizzazione.
Il pensiero portato avanti da DiEM2025 e da altri è che il modello politico basato sugli Stati-nazione è «finito» (parola di Varoufakis). In Europa gli Stati-nazione hanno «responsabilità senza potere», mentre le istituzioni europee hanno «potere senza responsabilità». La sovranità dei parlamenti nazionali si sarebbe dissolta. Oggi i mandati elettorali nazionali sono intrinsecamente impossibili da rispettare. Per questo una riforma delle istituzioni europee (o più precisamente del Parlamento europeo) sarebbe l’unica opzione possibile. Varoufakis non è certo l’unico a pensarla così. Secondo Slavoj Zizek, la lezione che la sinistra deve imparare dalla vicenda di SYRIZA è che è impossibile combattere il capitalismo globale entro una singola nazione. Secondo Zizek, la «nuova tentazione social-democratica neo-keynesiana», che adesso è in voga in certi contesti e che mira a riportare la lotta al livello degli Stati-nazione, non sarebbe altro che una cortina fumogena di una pseudo-sinistra caduta nel nazionalismo e nel populismo, che illude la popolazione con l’idea di poter decidere ancora qualcosa (si veda qui). È un’argomentazione interessante, ma errata.
Come fanno lui e gli altri a essere così sicuri di quello che dicono? Un paio di anni fa Dani Rodrik introdusse il cosiddetto “trilemma politico dell’economia mondiale” (si veda qui). In condizioni di “vera integrazione economica internazionale“, la democrazia, la sovranità nazionale e l’integrazione economica globale diventano mutuamente incompatibili. È possibile combinare due delle tre cose, ma non tutte e tre insieme in piena misura. Se volete più globalizzazione, dovete rinunciare alla democrazia oppure alla sovranità nazionale. Per esempio, se un paese decide di agganciare la propria valuta e permettere afflussi e deflussi di capitali senza restrizioni, allora non può stabilire indipendentemente il proprio tasso d’interesse. In questo contesto la sovranità dello Stato-nazione si riduce.
Il trilemma di Rodrik è molto noto. Come scrive giustamente l’economista Bill Mitchell, è stato abilmente propagandato da tutte le forze politiche di qualsiasi colore. La dottrina che trasmette è straordinariamente comoda. Dite alla gente che lo Stato-nazione è “finito“, che è impossibile garantire la piena occupazione (o lavorare a quello scopo) e vi sarete liberati perfino della responsabilità di doverci provare. Lo stesso vale per l’austerità e per qualsiasi altra cosa. Se lo Stato-nazione è “finito” è inutile opporsi a questa realtà. La questione se ciò sia vero, ovviamente, non viene quasi mai posta. “Tutti” sanno già la risposta. Ma questo non è ciò che Rodrik intendeva. Il titolo del suo articolo “Fino a dove arriverà l’integrazione economica?” dovrebbe darvi un indizio (si veda qui). Al contrario di ciò che comunemente si crede, Rodrik scrive che l’integrazione economica internazionale non è “vera”, ma continua ad essere molto limitata anche se viviamo in un mondo che si suppone globalizzato. È vero che l’articolo di Rodrik è del 2000, ma il mondo non è cambiato così tanto da allora. Come nota Mitchell, ci sono ancora i confini nazionali. C’è incertezza sui tassi di cambio, nonostante un’aumentata deregolamentazione. Ci sono importanti differenze culturali e linguistiche che impediscono una piena mobilitazione delle risorse attraverso i confini nazionali. C’è una propensione degli investimenti a restare dentro i confini. C’è una forte correlazione tra i tassi di investimento nazionali e i tassi di risparmio nazionali. I flussi di capitali dai paesi ricchi verso i paesi poveri sono inferiori a quanto predetto dai modelli teorici. Ci sono ancora forti restrizioni alla mobilità internazionale del lavoro (si veda qui). La verità è che non viviamo in un mondo completamente globalizzato, anzi siamo ben lontani da esso. Pertanto gli Stati-nazione possono perseguire le proprie politiche in relativa autonomia. Questa è la conclusione a cui giungono tutti coloro che analizzano il tema (si veda qui lo studio di Godar, Paetz e Truger sulle possibilità di redistribuzione e di politiche di crescita a livello nazionale nell’UE, e si veda qui per una panoramica sulla letteratura).
Non c’è evidenza che sostenga la TINA di DiEM. La loro tesi secondo cui il capitale sarebbe diventato completamente sovranazionale – e che “noi”, per poterlo combattere e avere una possibilità di vincere, dovremmo fare lo stesso e portare la lotta al livello sovranazionale – è sbagliata. Il carattere “libertino” del capitale va combattuto a livello nazionale, e questo porterà in seguito ad una cooperazione internazionale, o non ci sarà nessuna lotta. Se il capitale fosse diventato completamente “libero” e se gli Stati-nazione fossero “finiti”, perché mai Goldman Sachs e altri dovrebbero pagare milioni di dollari a Hillary Clinton per discorsi che poi devono rimanere segreti? Perché le lobby dovrebbero spendere miliardi per influenzare le istituzioni regolatrici all’interno dei singoli paesi? Perché dovrebbero esistere ovunque gruppi di esperti e agenzie di marketing che non hanno altro scopo se non quello di orientare le opinioni degli elettori? Perché il settore aziendale dovrebbe essere così interessato ad accaparrarsi i media in modo da salvaguardare la propria narrazione ideologica? Forse perché gli Stati-nazione non sono “finiti”?
Come scrisse Bill Mitchell sul suo blog un anno fa, «la realtà effettiva è che i politici hanno tuttora la capacità legislativa necessaria per limitare le attività economiche transfrontaliere… La vera sfida non è quella di cedere la sovranità nazionale a un qualche livello mitologico di integrazione economica internazionale, ma di resistere la corruzione e la “cattura” del sistema decisione a livello nazionale, che si sta orientando sempre di più verso la tecnocrazia; la vera sfida è assicurarsi che i sistemi democratici non vengano corrotti dai lobbisti che li vogliono orientare verso specifiche élite capitaliste» (si veda qui).
Ma perché tutto ciò non sta avvenendo? Si può accusare la destra di molte cose, ma non del fatto di essere di destra. La destra è la destra. Il problema è che lo stesso non vale anche per la sinistra. Bill Mitchell scrive: «Il problema è che nella loro stupidità i politici di sinistra hanno portato avanti il mito che l’integrazione economica internazionale sia giunta ad una fase così avanzata e inevitabile che ora è necessario abbandonare i tipici obiettivi progressisti e, al contrario, mettersi a servire gli interessi del capitale. La narrazione che fanno per distinguersi sta nell’improbabile pretesa che essi riusciranno in qualche modo a mantenere una posizione politica tale da assicurare degli esiti di maggiore equità» (si veda qui).
Questo, in parole povere, è quanto è avvenuto nel corso degli ultimi trent’anni. Non è la finanziarizzazione che ha distrutto la socialdemocrazia (come ha recentemente dichiarato Varoufakis alla televisione belga (si veda qui), ma la falsa ideologia secondo cui, in fondo, non vi è più niente da fare, che un cambiamento strutturale è impossibile, che la lotta politica al livello degli Stati nazionali è finita, che l’unica cosa rimasta da fare è cercare di gestire gli Stati secondo le regole neoliberiste ma con qualche “correzione sociale” qua e là. Correzioni che si dimostrano completamente insufficienti, quantomeno nella misura in cui tutto ciò che la socialdemocrazia fa, come il New Labour di Blair nel Regno Unito, è non accettare del tutto l’ideologia neoliberista in merito agli “scrocconi del welfare” e cose simili, mentre nel frattempo la situazione dei disoccupati e dei poveri continua inesorabilmente a peggiorare.
Resta il fatto che per i paesi che emettono la propria moneta è possibile perseguire politiche economiche in relativa autonomia – politiche che possono avere, tra gli altri, anche l’obiettivo della piena occupazione. Questa è la vera questione. Non è la democratizzazione delle istituzioni. Non è la necessità di una politica europea transnazionale. Non sono cose fumose, del tipo un modello di società che sia «al tempo stesso liberale, marxista e keynesiano», come ha detto Varoufakis (si veda qui e qui). Ciò di cui abbiamo bisogno sono partiti di sinistra capaci di vincere le elezioni nazionali.
4. Perché bisogna dare priorità al livello nazionale?
Se DiEM2025 vuole combattere per «istituzioni UE più democratiche», lasciateli fare. Ma la battaglia più importante si combatte a livello nazionale. Nulla può danneggiare l’oligarchia europea più di un paese che abbandoni l’eurozona (o minacci di farlo), si rimetta in sesto, torni a crescere e faccia meglio del resto di un’eurozona disfunzionale e ultra-neoliberista. Dovunque in Europa il capitale sta disegnando linee di demarcazione fasulle lungo dimensioni etniche e culturali, portando avanti una strategia dividi et impera contro il lavoro. La sinistra deve combattere questa battaglia ad ogni livello possibile. L’internazionalismo non ha mai significato l’abbandono della lotta a livello nazionale. È vero il contrario. Tutto ciò non ha niente a che vedere con il nazionalismo. Non ha niente a che vedere con ciò che gli inglesi o i tedeschi possono fare per il fatto di essere inglesi o tedeschi, ma per il fatto che è a questo livello che si possono ottenere dei progressi. Gli irlandesi hanno sconfitto la privatizzazione dell’acqua. Non hanno per questo condotto una battaglia europea. La privatizzazione dell’acqua è probabilmente impossibile da sconfiggere a un livello europeo. Ma gli irlandesi lo hanno fatto entro la propria nazione. Si tratta semplicemente di una strategia volta a ottenere dei progressi laddove dei progressi possono essere ottenuti. Questo non esclude la solidarietà internazionale. Al contrario, è una condizione affinché la solidarietà internazionale possa esistere. Abbiamo bisogno di partiti autenticamente socialdemocratici che vincano le elezioni a livello nazionale, mandino dei rappresentanti di sinistra al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione, e mandino dei keynesiani alla BCE. La battaglia per gli investimenti, la crescita e contro l’austerità e il lobbismo corporativo deve essere intrapresa anche all’interno di queste istituzioni. Ma come possono essere dei partiti politici transnazionali a farlo? È a livello nazionale (e locale) che le persone possono relazionarsi direttamente coi politici. È qui che si trovano le maggiori forze.
Ovviamente Varoufakis non la pensa così. Come ha spiegato all’Independent, a quasi otto anni dall’inizio della crisi finanziaria, la disoccupazione nell’UE è ancora a livelli di crisi, ed è doppia rispetto alla disoccupazione nel Regno Unito o in USA – «che stanno raggiungendo ciò che gli economisti considerano “piena occupazione”». Per iniziare, nessuno crede a queste statistiche. Ci sono milioni di persone disoccupate anche in questi paesi. «Se la disoccupazione fosse al 10-11 percento nel Regno Unito o in USA, le rispettive amministrazioni politiche sarebbero già crollate», ha detto Varoufakis all’Independent (si veda qui, ma anche qui e qui per una critica). Come fa a dirlo? Il governo spagnolo, dove la disoccupazione è ancora sopra il 20 percento, è forse crollato? Il governo irlandese è crollato? No. Il principale partito sostenitore dell’austerità in Irlanda è perfino stato rieletto, e il vecchio primo ministro è di nuovo al potere. Nessun partito transnazionale potrà cambiare questo stato di cose. Lo possono fare solo dei veri, autentici partiti socialdemocratici, a patto che si sveglino.
Pubblicato sul sito di Flassbeck Economics il 24 maggio 2016. Traduzione di Voci dall’Estero rivista da Thomas Fazi.