di Marco Rotili
Introduzione
Da ormai oltre un trentennio, quanto meno dalla famigerata intervista su la Repubblica ad Enrico Berlinguer nel 1981 (tema all’ordine del giorno “la questione morale”), il debito pubblico italiano è elemento centrale del nostro dibattito politico. Ma se al tempo del Berlinguer “moralizzatore” e del pentapartito “spendaccione” (visione ovviamente partigiana e non rispondente pienamente al vero, come vedremo), i termini della questione si ponevano rispetto all’esigenza di una maggiore sobrietà dei costumi e di legalità degli atti/fatti dell’azione amministrativa, dall’inizio degli anni ’90, con l’introduzione dei parametri di Maastricht, il dibattito è gioco forza sceso dall’ambito teorico, per arrivare a porsi come “problema all’ordine del giorno”.
Diciamo che l’eccesso di debito pubblico ha condizionato, attraverso la teoria del “vincolo esterno”, molte (se non la maggior parte) delle nostre scelte di politica economica nazionale. E obiettivamente i parametri di contabilità nazionale hanno sempre fatto apparire il nostro paese come la “pecora nera” all’interno dell’Unione europea, con un debito pubblico estremamente elevato (ben oltre il 100% del PIL dal 1992, con picchi odierni sino al 132%) nonché poco sostenibile (il disavanzo si è mantenuto oltre il 7% del PIL sino al 1997, per poi attestarsi, in media, nell’intorno del 3%).
Ed è proprio il 1997, dopo la grande stagione delle privatizzazioni iniziata nel 1991-1992, ad essere, se vogliamo “l’anno zero delle decisioni di bilancio”. Con il governo guidato inizialmente da Romano Prodi (e poi da Massimo D’Alema e Giuliano Amato), poi con i governi tecnici e prima con la parentesi “meno rigorista” del secondo governo Berlusconi, tutta la politica di bilancio è stata sostanzialmente orientata alla (i) creazione di un abbondante avanzo primario, in grado di contenere il deficit annuo, ed al (ii) (conseguente) tentativo di diminuzione della crescita dello stock di debito in circolazione.
A ciò si è poi aggiunta la crisi economica e finanziaria iniziata nel 2007, che, nella sua “seconda fase”, ha messo in crisi la sostenibilità dei debiti sovrani, con ovvio impatto sui paesi a più alto debito: sotto il profilo del dibattito economico si è riaperto il dibattito tra neo-keynesiani e rigoristi, con i primi convinti della necessità di utilizzare spesa in deficit per uscire dalla fase recessiva (mettendo a rischio la sostenibilità dei bilanci pubblici), ed i secondi improntati ad un immediato risanamento dei bilanci prodromico alle future politiche di sviluppo.
In Italia questa fase storica è stata senza dubbio la più travagliata, anche sotto il profilo politico: l’enorme indebitamento ha generato la sfiducia dei mercati internazionali, con conseguente crescita degli “spread” e, quindi, con rischi incrementali di sostenibilità del debito accumulato e di nuova emissione; di fatto al dibattito dottrinale tra “espansivisti” e “rigoristi” si è dovuta gioco forza sostituire la necessità di un pronto intervento di sostenibilità delle finanze pubbliche, il cui “garante politico” è stato il governo tecnico guidato da Mario Monti (a parere di chi scrive con l’encomiabile risultato, di cui discuteremo in seguito, di aver reso prospetticamente sostenibile uno stock di debito algebricamente elevatissimo). Peraltro andrebbe qui aperta (ed immediatamente richiusa) una non secondaria parentesi: al di la dei risultati di contabilità pubblica, occorre comprendere cosa ci sia “sotto” quel numero magico finale: ridurre il deficit tagliando la spesa improduttiva (e riducendo magari contestualmente le imposte) non ha il medesimo effetto sull’economia reale (dunque sul denominatore dello stesso deficit) di una riduzione ottenuta attraverso l’aumento delle imposte; allo stesso modo un taglio della spesa sugli investimenti pubblici e/o sull’educazione non ha lo stesso effetto di un taglio della spesa corrente per consumi intermedi; ancora, una diminuzione delle imposte sulle società e sul lavoro non ha lo stesso effetto di una riduzione di imposte patrimoniali (e potrei continuare all’infinito): in questa trattazione, per ovvi fini di circoscrizione dell’argomento, si tralasceranno tanto i “costi sociali” (essenziali nel decidere il mix di politica economica), quanto gli elementi sottostanti i dati di finanza pubblica; si andrà viceversa ad analizzare come, nella legittima contrattazione internazionale sui “compiti a casa dell’ Italia”, forse qualcosa è strutturalmente mutato.
In buona sostanza, nel pieno (e quasi imbarazzante) silenzio dei media nazionali, alcuni paradigmi legati all’analisi fattuale sulla sostenibilità delle nostre finanze pubbliche, stanno venendo meno, con l’obbligo, quanto meno per noi economisti, di mettere in discussione molti di quei paradigmi che fin qui hanno (giustamente) indirizzato le decisioni di politica economica nazionale e, di riflesso, la nostra legittima “forza negoziale” nelle sedi internazionali. Alcuni recenti studi sulla sostenibilità delle finanze pubbliche, ci forniscono lo spunto per alcune (spero utili) considerazioni, consentendoci tra l’altro di “aprire il velo” su recenti tematiche, ahimè come totalmente al di fuori del dibattito politico-economico in corso d’opera.
Gli studi
Lo spunto di trattazione del presente lavoro, deriva da uno studio della Fondazione tedesca Stiftung Marktwirtschaft (SM), un think tank di ispirazione liberista (culturalmente simile al nostro Istituto Bruno Leoni), che si è occupato di “correggere” il dato del debito pubblico dei paesi UE in funzione di una sua “sostenibilità di lungo termine”[1]. Questo studio è stato pubblicato da Marco Fortis su Il Sole 24 ore[2] e ci fornisce dei risultati ampliamente lusinghieri per il nostro paese, che risulta il primo in classifica per la sostenibilità a lungo termine del debito pubblico. Il calcolo tiene conto delle pensioni future, delle variabili demografiche e del relativo andamento della spesa sanitaria, ma anche e soprattutto del “risparmio implicito”, calcolato come valore futuro dei saldi (deficit o avanzi) primari (al netto cioè degli interessi sul “servizio del debito”) annui[3]. Il conto viene poi attualizzato al 2014, e il sorprendente risultato è che il nostro paese è l’unico ad essere sotto 60% del rapporto debito/PIL, mentre la Germania sarebbe al 149%, la media UE al 266%, la Francia al 291%, la Gran Bretagna al 498% e la Spagna al 592%. Ciò che più colpisce è il “retroterra” culturale di provenienza della Fondazione, di certo mai tenera rispetto ai paesi “poco virtuosi” sotto il profilo fiscale nonché, per ovvi motivi, non pregiudizialmente critica verso il proprio paese di elezione. Ed ancora, il timing della pubblicazione, avvenuto in contemporanea con il “sempre verde” dibattito sui “margini di flessibilità” concessi al nostro paese per le politiche di sviluppo[4].
Lo studio viene poi ripreso ed ampliato da Carlo Clericetti qualche giorno dopo su la Repubblica[5]. Qui Clericetti, oltre che dar conto della “scoperta” di Fortis, cita, assieme alla pubblicazione della SM, anche altri due studi di valente provenienza: il Fiscal Sustainability Report 2015 della Commissione UE (EC) ed i conti dell’ultimo Bollettino statistico della Banca dei regolamenti internazionali (BRI). Di fatto i tre studi si occupano di confrontare i debiti degli Stati sovrani, ma secondo tre approcci diversi. L’SM, come visto, “storna” (o “aggiunge”) il valore attuale del debito (avanzo) futuro da quello attuale (addivenendo ad una stima di “sostenibilità del debito); la Commissione riprende questo approccio, ma tiene (ovviamente) conto della correzione regolamentare imposta dal fiscal compact. Così accade che il nostro debito è giudicato sostenibile sia nel breve termine che nel lungo (dal 2027 in poi), ma a rischio nel medio (ossia nel corso del prossimo decennio, proprio a causa della difficoltà di onorare il “rientro normativo” imposto dallo stesso fiscal compact, con ovvia “iterazione concettuale”[6]). Lo studio della BRI, in ultimo, calcola il debito dei vari paesi come somma di “debito pubblico” e “debito privato”, come peraltro spesso sostenuto nelle sedi internazionali sin dal ministero Tremonti, quantomeno per la mera ragione pratica del nostro (relativamente) basso debito privato di famiglie ed imprese; in questa classifica il nostro paese non figura più ai primi posti del mondo per rapporto debito/PIL, ma all’11esimo posto tra i 16 paesi più avanzati, con il 274%, ben lontano non solo da Irlanda e Giappone (intorno al 400), ma anche dai rigoristi olandesi (317, nel gruppo di testa) e prossima ai più “virtuosi” che sono intorno al 200 (solo la Germania è sotto).
L’analisi
Al dì là delle disquisizioni tecniche, che con ogni probabilità avranno modo di essere maggiormente declinate nelle sedi (istituzionali, accademiche, giornalistiche, ecc.) più opportune, occorre a mio avviso porre in essere delle considerazioni di tipo più prettamente storico-politico. Ed innanzi tutto, ciò che occorre domandarsi è “cosa è il debito pubblico di una nazione”? Cosa, ammesso sia possibile farlo, ne misura la sostenibilità? Certamente il debito pubblico non è altro che uno stock di attività finanziarie, scambiate in mercati “attivi”, emesse, anno dopo anno, a copertura dei disavanzi di bilancio; il “giudizio” su tali “asset” dipenderà dunque dalla solvibilità dell’emittente. Qui naturalmente entrano in gioco caratteristiche sia “esogene” (la politica monetaria, lo “scadenzamento” del debito, la propensione marginale al risparmio e la capacità di attrattiva del detto risparmio), sia fattori più “endogenamente” legati alla qualità del “merito creditizio” del paese emittente. E dunque non vi è dubbio che tale “merito” non può che essere valutato in senso prospettico, andando a definire, in modo dinamico la capacità di repayment del capitale e degli interessi delle menzionate attività rappresentanti il debito dello Stato in questione. Ed appare quindi fin troppo ovvio che gli “esercizi” fatti dalla SM, dalla BRI e dalla EC vanno, nelle diverse ottiche, nella giusta direzione di valutare il merito creditizio di una nazione alla luce della propria capacità, prospettica e finanziaria, di ripagare gli oneri derivanti dall’emissione di debito.
E dunque, andando a valutare in modo dinamico la serie storiche dei nostri disavanzi di bilancio, si può ben vedere che non sempre ad un più alto stock corrisponda poi ad una minor sostenibilità del debito: è il caso degli anni ’70, dove a livelli di indebitamento relativamente bassi corrispondevano politiche fiscali e monetarie ultra-espansive, che di fatto stavano ponendo le basi per l’incremento vertiginoso dell’indebitamento degli anni ’80. Viceversa gli anni 2000 sono caratterizzati da elevatissimi livelli di debito, ma un minor disavanzo ed un forte impatto prospettico delle riforme c.d. “strutturali” hanno reso tale stock molto più sostenibile. Ancora, si può ben sostenere che, puramente in ottica finanziaria, la sostenibilità del debito è data dalla capacità degli operatori interni di acquistarlo. E dunque, un paese con un relativamente basso indebitamento privato (famiglie ed imprese) avrà probabilmente maggiori quote di risparmio da investire nei “sovereign” emessi dalle proprie amministrazioni, sicché molto spesso se l’elevato debito pubblico ha avuto “l’esternalità positiva” di causare un incremento della ricchezza disponibile per famiglie ed imprese, molto probabilmente tale ricchezza ne garantirà essa stessa la sostenibilità.
È nuovamente il caso dell’Italia degli anni ’80, dove al forte assistenzialismo è corrisposto l’aumento di quote di risparmio che, anche attraverso un sistema bancario “localistico” e non globalizzato, sono andate per la maggior parte a sottoscrivere titoli del debito sovrano (accennavamo, nell’introduzione, a come la narrazione degli anni ’80 semplicemente corrotti e spendaccioni, magari rispetto ai “virtuosi” anni del “compromesso storico” non corrispondesse pienamente al vero).
Ora, prendendo per buone le considerazioni sin qui fatte, si sarebbe tentati di concludere che ci si è sbagliati, che l’Italia è un esempio di virtù, ed anzi merita un risarcimento miliardario per aver trascorso vent’anni da “pecora nera” della sostenibilità delle finanze pubbliche. La realtà, tuttavia, è molto più complessa. Ci viene in aiuto l’intervento di Luigi Guiso[7], sempre su Il Sole, che indica come la creazione di indicatori “sintetici” tra passività già emesse (dunque il debito pubblico che tutti conosciamo, sintetizzato negli indicatori di contabilità nazionale) e le passività “potenziali”, risponda ad una lettura teorica e parziale della realtà: a titolo di esempio, possiamo pensare che il surplus prospettico assegnato all’Italia dalla SM dipenda da una proiezione della situazione legislativa e regolamentare odierna, mentre vi è la probabilità che un sistema sanitario e previdenziale così in surplus, soprattutto alla luce di complessi e imprevedibili scenari demografici, venga ben presto rivisto da governo e parlamento (non a caso sono già allo studio correttivi della riforma Fornero!); ancora, l’opzione “tremontiana” di storno della ricchezza privata dal debito pubblico si scontra con l’operativa esigenza di tassare tale ricchezza privata, con conseguente politiche e sociali difficilmente comprensibili…
In buona sostanza, i mercati sarebbero molto più avvezzi a basarsi, anche nel sottoscrivere titoli sovrani, sugli indicatori di contabilità nazionale “realizzati”, piuttosto che su ipotetiche correzioni prospettiche. Tuttavia lo stesso Guiso, con un’analisi tanto critica e pungente quanto realistica, ci parla del fatto che lo spread (quindi i mercati) sarebbero poco sensibili alle correzioni prospettiche; ciò non è in contrasto, almeno a parere di chi scrive, con il fatto che le istituzioni nazionali e comunitarie potrebbero arricchire la “gamma” di indicatori con tali “correzioni accademiche”.
Conclusione
Dalla lettura dei precedenti paragrafi il lettore (speriamo) può avere sufficienti parametri per farsi una propria idea… “Italia terra di spreco e di mala amministrazione”, o “Italia terra virtuosa e, quindi, vittima di parametri ad uso e consumo dei paesi meno virtuosi”? A parere di chi scrive la verità, come spesso accade, è nel mezzo; e solo il divenire degli eventi storico-politici potrà dirci, in uno scenario di incertezza globale, se il nostro paese riuscirà a riprendere la via maestra degli equilibri di bilancio e dello sviluppo economico.
Ciò posto, è veramente singolare (per utilizzare un eufemismo) il fatto che uno studio così importante e dirompente come quello della SM non abbia generato a livello nazionale un congruo dibattito. Buono, come spesso accade, il ruolo de Il Sole 24 Ore, che con le sue analisi economiche si conferma, a parere di chi e scrive, uno dei migliori giornali su scala europea. Ma è pur vero che lo stesso Sole è ancora, troppo spesso ed a torto, considerato un quotidiano per “esperti”, ricco di concetti e di tecnicalità spesso, in un paese a scarsa cultura economico-finanziaria, non fruibili da ampie fasce della popolazione. Stupisce dunque che l’informazione più “mass market” non si sia occupata dell’argomento: non un servizio al telegiornale, non un articolo su un quotidiano locale, (quasi) totale indifferenza dei quotidiani nazionali e, in ultimo, il più che totale disinteresse da parte dei social network. Ci si dovrebbe allora chiedere come mai il paese non si occupi più delle sue sorti, del suo ruolo internazionale e della “percezione esterna” dello stesso: la famosa “veduta corta” dalla quale metteva in guardia Tommaso Padoa Schioppa sembra far da padrona, finanche quando lo studio e l’approfondimento di determinate dinamiche potrebbe cambiare le sorti del paese…
Tornando al debito pubblico ci si chiedeva, nel titolo dell’articolo, se esso fosse “un fardello insostenibile od un raro esempio di virtù”… Ai posteri, come spesso accade, l’ardua sentenza; a noi qui presenti, quanto meno, il dovere di dibatterne.
Pubblicato su Pandora il 23 maggio 2016.
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Note
[1] Di fatto il parametro di contabilità nazionale debito/PIL viene rivisto in funzione di una “correzione strutturale”, pari al valore attuale degli impegni di spesa futuri di ogni nazione.
[2] Cfr. Marco Fortis, “Debito pubblico, così la pagella tedesca promuove l’Italia”, Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2016.
[3] Su quest’ultimo aspetto pesa il fatto che l’Italia detiene il record mondiale di saldo primario, quasi ininterrottamente positivo dai primi anni ’90 (con l’eccezione di due soli anni).
[4] Trattasi del dibattito sulla % di PIL utilizzabile per finanziare spesa in deficit, entro il 3% complessivo (limite Maastricht). Il governo Renzi ha più volte fatto appello a questa possibilità, a suo dire necessaria per l’uscita dalle “secche recessive” (e, quindi, in ultima istanza, per il ristoro del debito stesso). Sul fronte opposto i paesi storicamente “rigoristi” facevano invece appello alla necessità di riduzione strutturale del debito, attraverso l’accumulo di maggiori avanzi primari (come da fiscal compact).
[5] Cfr. Carlo Clericetti, “Debito italiano a rischio, anzi il più sostenibile”, la Repubblica, 28 febbraio 2016.
[6] È chiaro che il sillogismo per cui “un debito pubblico, di uno Stato ‘x’ in un momento ‘y’, è pienamente sostenibile, se solo escludiamo le regole del fiscal compact”, non può che portare alla conclusione che lo stesso fiscal compact, nato per rendere sostenibile il debito dello Stato aderente x di cui sopra, è una regola da rivedere (se ed in quanto è effettivamente esso stesso foriero di una non sostenibilità)!
[7] Cfr. Luigi Guiso, “Ma c’è un motivo se lo spread lo ignora”, Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2016.