di Olimpia Fontana e Simone Vannuccini
Quando la crisi dei debiti sovrani si è trasformata in crisi dell’economia reale, le istituzioni europee sono ricorse a due strumenti per contrastare la bassa crescita e il rischio di deflazione. Il primo è la politica monetaria “non convenzionale” di quantitative easing (QE): nel marzo 2015, la Banca centrale europea (BCE) ha iniziato a effettuare acquisti di debito pubblico, sul mercato secondario, con l’intento dichiarato di sostenere la domanda aggregata e riportare l’eurozona su un sentiero di inflazione al 2%. La seconda misura è il piano Juncker, uno strumento anch’esso volto a supportare l’economia reale. Lo scorso giugno, grazie all’iniziativa di Commissione europea e della Banca europea degli investimenti (BEI), viene ufficialmente lanciato il Fondo europeo per gli investimenti Strategici (FEIS), cuore pulsante del piano Juncker, con lo scopo di colmare il deficit di investimenti che affligge l’Europa sin dall’inizio della crisi.
Entrambi i programmi vanno nella giusta direzione, perché mirano a stimolare l’economia, tuttavia presentano aspetti critici che ne indeboliscono l’efficacia. Per quanto riguarda il QE, la BCE si è autoimposta un tetto di acquisto del 33% su ogni tranche di titoli emessi. Tale clausola è stata inserita per evitare che in eventuali procedure di ristrutturazione del debito pubblico soggette alla collective action clause (CAC), la BCE non detenesse un blocco di minoranza e si sentisse quindi in dovere di impedire la ristrutturazione, rappresentando quest’ultima una perdita su titoli in suo possesso e quindi una sorta di finanziamento monetario di debito pubblico. Questo limite ridimensiona di fatto il potenziale del programma di acquisti della BCE.
Un altro paradosso generato dal QE made in eurozone è quello di sostenere maggiormente il debito di paesi forti a scapito di quelli più deboli. I dati sugli acquisti cumulati di debito pubblico nell’ambito del programma di QE da marzo 2015 ad aprile 2016 mostrano che il 27% degli acquisti totali sono rivolti a titoli tedeschi, mentre paesi come Irlanda e Portogallo sono beneficiari rispettivamente del 2 e 3% degli acquisti totali. Tale risultato è conseguenza diretta della scelta di utilizzare l’equity share della BCE come parametro di distribuzione degli acquisti, una scelta economicamente corretta, ma che non risponde a requisiti di solidarietà. Il caso limite è rappresentato della Grecia, che resta ancora esclusa dal programma, perché i suoi titoli pubblici mancano del requisito di ammissibilità, non essendo accettati dalla BCE come garanzia per le sue normali operazioni di politica monetaria. Vi è il rischio che l’obiettivo finale del QE, ovvero riportare il tasso di inflazione vicino al 2%, non si realizzi proprio a causa del modo in cui il QE stesso è stato progettato e delle regole tecniche che la BCE si è autoimposta.
Da parte sua, nemmeno l’EFSI è stato concepito come strumento redistributivo, bensì come fonte di cofinanziamento di progetti d’investimento ad alto rischio, nonché come mezzo di comunicazione tra coloro che detengono risorse e coloro che dispongono di progetti di importanza strategica per l’UE. Il piano prevede esplicitamente che i fondi non vengano allocati su base geografica. Tuttavia, i dati sull’andamento degli investimenti sia prima sia dopo la crisi e quelli sui beneficiari del piano mostrano che i paesi che hanno maggiormente sofferto di investment gap (Grecia, Portogallo) non sono quelli che più beneficiano dei finanziamenti dell’EFSI (Italia, Francia, Germania in primis).
Ultimamente diversi economisti hanno suggerito alla BCE di spingersi ben oltre il QE e le politiche ultra espansive di tassi bassi e negativi, proponendole di ricorrere alla cosiddetta helicopter money, ovvero alla distribuzione diretta di risorse ai cittadini da parte delle banche centrali. È curioso che si arrivi a parlare di una misura monetaria così estrema e di dubbia efficacia in tempi di elevata propensione al risparmio, mentre la possibilità di impiegare il QE in modo alternativo non viene nemmeno considerata. Infatti, visti in un’ottica di coordinamento macroeconomico, QE e piano Juncker potrebbero essere messi in relazione, rispondendo a una logica di crisis management che intrecci politica monetaria e fiscale, influenzando indirettamente anche l’obiettivo di medio periodo di dotare l’eurozona di una propria fiscal capacity. In breve, la BCE potrebbe rivolgere il proprio sforzo di espansione monetaria direttamente al supporto della domanda interna, in particolare di investimenti pubblici, collegandosi al finanziamento dei progetti che rientrano sotto l’ombrello dell’EFSI e, allo stesso tempo, correggere l’annoso problema dell’investment gap.
La fonte di finanziamento potrebbe essere l’emissione di nuovi titoli della BEI, una sorta di investment bonds, acquistati sul mercato secondario dalla BCE, che li finanzierebbe tramite parte del programma di QE. Se i proventi di tale operazione venissero poi destinati all’EFSI, si potrebbe aumentare il “moltiplicatore interno” dell’EFSI (finanziamento pubblico) e ridurre il peso del “moltiplicatore esterno” (il finanziamento privato) da cui attualmente dipende in gran parte il successo del piano, creando così le condizioni per l’azione di uno “Stato innovatore” (entrepreneurial state), come auspicato da Mariana Mazzucato, di dimensione europea.
In una prima fase, l’EFSI potrebbe passare da semplice fondo di garanzia a fondo di distribuzione che alloca finanziamenti agli Stati sulla base di un criterio di assegnazione che sia diverso dall’equity share e rispondente a requisiti di solidarietà. Per evitare comportamenti di moral hazard da parte dei governi, l’esborso di finanziamenti potrebbe essere condizionato al rispetto delle regole fiscali dettate dal patto di stabilità e crescita, pena l’immediata sospensione. I paesi continueranno a essere responsabili del rigore fiscale, mentre la crescita diventerà compito delle istituzioni europee. In una nostra proposta prevediamo di fondare l’allocazione delle risorse provenienti dal QE e diretta ai bond EFSI/BEI sull’investment share, ovvero la quota nazionale di investimenti sul prodotto interno lordo.
In un secondo momento l’EFSI potrebbe trasformarsi in un Tesoro dell’eurozona, capace di emettere propri bonds, sotto due ulteriori condizioni: (i) rispettare la golden rule sugli investimenti, per cui il debito comune è emesso per finanziare la sola spesa capitale, non quella corrente; (ii) avere una limitata discrezionalità di spesa, lasciando libertà ai governi nazionali su come disporre della somma ricevuta, ma al contempo prevedendo modalità di finanziamento di progetti transfrontalieri.
Come sempre accade nelle vicende europee, l’ingrediente necessario – e spesso sufficiente – per rilanciare il motore economico e dell’integrazione è la volontà politica. Nel frattempo, la proposta di combinare QE e gli strumenti del piano Juncker per creare un primo ponte fra la politica monetaria e quella fiscale rappresenta una via d’uscita realistica dalle fosche prospettive economiche dell’eurozona e, forse, da quel regresso della solidarietà europea che lascia dietro sé ombre di nuove crisi, nazionalismi e politiche ormai superate.
Pubblicato sul sito del Centro Studi sul Federalismo il 9 giugno 2016.