di Domenico Mario Nuti
L’Area di Schengen
Il 14 giugno 1985 Francia, Germania e Benelux firmavano il Trattato di Schengen, abolendo controlli di frontiera e trattando l’intera Area come un singolo paese. Inizialmente il Trattato non era parte delle strutture della Comunità, mancando il consenso degli altri cinque membri, ma veniva incorporato nelle leggi dell’Unione col Trattato di Amsterdam (1997). Gradualmente vi aderivano altri 21 paesi, compresi 4 membri dell’EFTA che non appartengono all’UE: oggi l’Area Schengen ha una popolazione di oltre 400 milioni di persone.
In linea di principio si trattava di un’ottima iniziativa, visto il risparmio di tempo e di costo dei trasporti per passeggeri e merci. Uno studio recente della Bertelsmann Stiftung stima il costo che seguirebbe la disintegrazione dell’Area Schengen da €470md a €1.400md nel prossimo decennio (circa il 10% del PIL annuale dei 28 paesi dell’UE) dovuto all’aumento dei prezzi di importazione da 1% a 3%. Queste stime potrebbero essere esagerate ma senza dubbio il collasso di Schengen nelle condizioni attuali di ristagno economico avrebbe un impatto recessivo sullo sviluppo dell’Unione, con ripercussioni globali.
Le regole di Schengen prevedono controlli di confine temporanei in casi di urgenza, per un periodo da 2 a 6 mesi, e una sospensione del Trattato per un periodo fino a 2 anni per motivi di ordine pubblico. A partire dall’estate 2015 diversi membri dell’Area di Schengen, soggetti a crescenti pressioni migratorie senza precedenti, sono ricorsi unilateralmente alla reintroduzione di controlli, muri e barriere e vari gradi di mezzi repressivi.
La crescente pressione migratoria
Nel mezzo secolo 1960-2010 i migranti internazionali, definiti come i residenti in un paese diverso da quello di nascita, rappresentavano una proporzione relativamente stabile della popolazione mondiale intorno al 3%. In quel periodo la globalizzazione aveva nel 1970 fatto risalire la quota delle esportazioni mondiali sul PIL globale all’8% (come alla vigilia della prima guerra mondiale), e poi lo faceva crescere ininterrottamente al 24% nel 2000 per raggiungere oggi, nonostante lievi flessioni intermedie, circa il 30% del PIL globale. Permanevano invece ostacoli significativi al movimento internazionale dei lavoratori, soprattutto se poco qualificati; in questo la globalizzazione corrente differiva radicalmente dal quella degli anni 1850-1914, quando le migrazioni internazionali, praticamente non soggette a restrizioni, raggiungevano punte del 10% della popolazione mondiale con una quota delle esportazioni sul PIL globale molto inferiori ai valori odierni (anche perché si trattava di una immigrazione di conquistatori e di lavoratori al loro servizio, senza la possibilità di opposizione ai nuovi venuti da parte delle popolazioni autoctone).
Già verso la fine degli anni 2000 si riscontrava una leggera tendenza delle migrazioni ad accelerare, molto più marcata per le migrazioni dal Sud al Nord. Nei paesi dell’OCSE la quota degli immigrati internazionali saliva dal 4,6% della popolazione nel 1960 al 10,9% nel 2010, quasi interamente per l’immigrazione dai paesi in via di sviluppo. Successivamente questa accelerazione si accentuava. Nel 2015 i migranti provenienti in Europa principalmente dal Medio Oriente e dall’Africa superavano i flussi migratori dell’ultimo dopoguerra. Secondo i dati di Frontex, l’agenzia europea che dal 2004 assiste i membri di Schengen a monitorare i loro confini esterni, nei primi undici mesi del 2015 1.550mila persone tentavano di varcare irregolarmente le frontiere esterne dell’UE, un record storico rispetto ai 282mila emigrati entrati in Europa nel corso dell’intero 2014. Secondo i dati IOM (International Organisation for Migration)/UNICEF il 20% circa della totalità dei migranti che arrivavano via mare era costituito da minori non accompagnati. Secondo l’EASO (European Asylum Support Office, bollettino novembre-dicembre 2015, nei primi dieci mesi del 2015 sono state presentate nell’UE oltre 1 milione di domande di protezione internazionale, con numeri in costante incremento da aprile. Secondo l’IOM nel 2015 sono arrivati in Europa 177.207 migranti via mare, e oltre 3.771 persone sono state segnalate come morte o disperse nel Mediterraneo; nel 2016 al 20 aprile si stima che siano arrivati in Italia, Grecia, Cipro e Spagna 180.245 migranti compresi i rifugiati, mentre morti e dispersi si stimano a 1.232 nello stesso periodo.
È vero che nel 2015 e fino a metà febbraio 2016 un numero ancora maggiore di soli siriani avevano trovato accoglienza, secondo la Bertelsmann Stiftung, in Giordania (640.000), Libano (oltre 1 milione) e Turchia (2,6 milioni); mentre il Pakistan e l’Iran avevano accolto diverse centinaia di migliaia di migranti rispettivamente dall’Afghanistan e dall’Iraq. Ma questo non riduce il problema europeo, tanto più che le cattive condizioni degli emigrati in questi paesi di prima accoglienza e il loro deterioramento prima o poi finiscono col contribuire alla pressione migratoria sull’Europa.
Questa intensificazione delle pressioni migratorie in Europa alla metà del decennio in corso ha una pluralità di cause. I rifugiati richiedenti asilo sono aumentati a causa dell’avvio e continuazione di conflitti e persecuzioni: in Iraq e in Siria soprattutto, ma anche in Afghanistan, in Libia, in Eritrea e in Somalia, e in altri paesi del Nord Africa. Fino al 2014 si stimava che i rifugiati rappresentassero all’incirca il 15-20% dei migranti internazionali, ma a partire dal 2014 fino ad oggi essi sono aumentati rapidamente, a livelli superiori agli spostamenti di popolazione avvenuti alla fine della seconda guerra mondiale. I flussi di rifugiati sono stati aggravati da errori politici dell’Unione Europea, che Branko Milanovic (in un post su Social Europe, maggio 2015) attribuisce a una combinazione di incompetenza e di arroganza, quali il rovesciamento del regime di Gheddafi, l’ultimatum al precedente governo dell’Ucraina, e la gestione della crisi greca.
I migranti economici, a loro volta, sono andati aumentando per la maggiore possibilità di emigrare, prima impedita da regimi autoritari nel blocco sovietico e da dittature nord-africane ed asiatiche; il divario elevato e crescente fra il reddito nei paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, soprattutto se ponderato per la probabilità di occupazione (approssimata da 1 meno il tasso di disoccupazione), che nella teoria tradizionale delle migrazioni (esemplificata dal modello di Harris-Todaro) è il movente principale delle migrazioni. Inoltre c’è stata una crescente e sempre più rapida diffusione di informazioni circa la misura di tale divario elevato e crescente, o addirittura la percezione esagerata di tale divario di reddito da parte di migranti potenziali che hanno una visione troppo ottimistica delle opportunità di occupazione e di reddito che si aprono per loro e i loro figli nel paese di immigrazione. A questo si aggiunge il divario, effettivo o percepito, nei benefici netti offerti nei paesi di destinazione dallo stato del benessere, e la sovrastima della sua sostenibilità a fronte di migrazione di massa; le tendenze demografiche amplificano l’impatto del divario di reddito, ad esempio con la popolazione sub-Sahariana destinata a crescere di quasi sei volte al 2100.
Per di più gli immigrati ottengono l’accesso automatico e gratuito al capitale sociale nel suo senso più largo (comunque sia definito, come vedremo più avanti). Il semplice passare del tempo consente ai migranti potenziali di risparmiare per finanziare il costo del viaggio di emigrazione anche con un reddito stagnante o addirittura in declino. La graduale riduzione dei costi di trasporto, e la fornitura di mezzi di trasporto relativamente poco costosi anche se rischiosi e insicuri, da parte di scafisti e trasportatori illegali, contribuisce alla pressione migratoria. Ancora più forte è l’effetto della diaspora di migrazioni precedenti, per cui i migranti potenziali contano sul supporto di parenti ed amici già emigrati con successo; questi processi a catena riducono il costo e il rischio delle migrazioni. Ultimo, ma non meno importante, è proprio l’allentamento dei controlli di confine in seguito alla crescente integrazione all’interno dell’Unione europea (appunto col Trattato di Schengen, 1985), e il basso rischio di scoperta e di penalizzazione nel caso di migranti non autorizzati una volta che siano arrivati a destinazione.
La progressiva sospensione di Schengen
Sotto la spinta dei queste pressioni migratorie vari paesi dell’Area di Schengen re-introducevano controlli, barriere e misure di repressione, forzando i paesi contigui a introdurle a loro volta per evitare l’accumulazione di migranti nel loro territorio. Nell’estate del 2015 l’Ungheria chiudeva i suoi confini con Serbia, Romania e Croazia. La Slovenia introduceva barriere al confine con la Croazia. Alla fine di agosto 2015 Angela Merkel unilateralmente adottava una politica di “confini aperti” verso i rifugiati siriani, invitandoli in Germania indipendentemente dal primo paese dell’UE da cui fossero entrati. Successivi ripensamenti non facevano altro che accelerare le migrazioni per timore di ulteriori restrizioni. La Danimarca ristabiliva controlli ai passaporti al confine con la Germania, con la Svezia che quindi stabiliva gli stessi controlli a chi proveniva dalla Danimarca. La Francia chiudeva il campo dei migranti di Calais, la cosiddetta “giungla” in cui più di 5000 residenti aspettavano di potersi recare nel Regno Unito per ferry, o attraverso il Channel in camion, treni o perfino a piedi; la chiusura veniva resistita con violenza. Il Belgio reintroduceva controlli al confine con la Francia per impedire ai migranti cacciati da Calais di spostarsi sulla sua costa. L’Austria costruiva un muro alla frontiera con la Slovenia, e fissava un tetto massimo di 80 richiedenti asilo al giorno. Nel 2015 gli emigranti che dalla Turchia attraversavano il mare per la Grecia aumentavano di 20 volte rispetto al 2014. Venivano rinforzati i confini fra Macedonia e Grecia, poi sbarrati del tutto, trasformando la Grecia in un enorme campo di rifugiati, a «warehouse of souls» (Tsipras).
L’UE prometteva alla Grecia €700 milioni in 3 anni (di cui 300mn nel 2016 per assistenza di emergenza ai migranti); proposte alternative di cancellazione parziale del debito greco in cambio di assistenza agli emigrati venivano respinte, anche se ragionevoli, per paura di un possibile rischio di azzardo morale. Nel novembre 2015 l’UE aveva assegnato €3md alla Turchia per indurla a trattenere i migranti almeno temporaneamente, ma tre mesi dopo 2.000 migranti al giorno ancora passavano in Europa; il 20 marzo 2016 l’UE e la Turchia si accordavano perché dal 4 aprile la Turchia riprendesse dalla Grecia gli emigranti che non facevano domanda di asilo o la cui domanda era respinta, a condizione che i membri dell’UE riprendessero altrettanti siriani dalla Turchia; gli aiuti UE salivano a €6 miliardi con l’aggiunta di altri benefici quali l’accesso di cittadini turchi all’UE senza bisogno di visti (che a sua volta genererà un afflusso di curdi turchi in Europa). Può darsi che questo accordo contravvenga le norme delle Nazioni Unite, ma l’UE è abbastanza potente da non curarsene purché possa godere dell’acquiescenza dei suoi giudici (Rowthorn 2016). L’accordo potrebbe diventare la base di accordi futuri per controllare i flussi migratori e i rimpatri. La chiusura della via balcanica naturalmente riattivava la rotta mediterranea per l’Italia (attraverso l’Albania o il Mediterraneo meridionale), Cipro e la Spagna, spingendo l’Austria a chiudere la frontiera del Brennero con l’Italia oltre che con l’Ungheria. Per ulteriori informazioni si rimanda versione inglese precedente di questo post.
Secondo una think-tank tedesca il flusso di rifugiati in Europa nel 2016 viene stimato fra 1,8 e 6,4 milioni, quest’ultimo il caso peggiore comprendente numeri elevati dal Nord Africa. Un recente sondaggio Gallup indica che il 32% dell’intera popolazione dell’Africa subsahariana, equivalente in termini assoluti a 308 milioni di persone nel 2015, proiettati a 685 milioni al 2050, emigrerebbero permanentemente in Europa se ne avessero l’opportunità. Senza contare gli immigrati potenziali dal Medio Oriente e dal Sud-est asiatico.
Le barriere recentemente introdotte scadono il 13 maggio 2016, e potranno essere prorogate per altri 18 mesi, dopo di che Schengen sarà ufficialmente finito.
“Mission creep”
L’eliminazione dei confini interni all’area di Schengen e l’introduzione dell’euro hanno molto in comune. Ambedue erano ottime iniziative, ma premature e incomplete, con conseguenze negative aggravate dalla divergenza fra i paesi membri e dalle politiche di austerità imposte dall’UE. Anche il Trattato di Schengen avrebbe richiesto l’integrazione politica e fiscale mancanti, e in più il rafforzamento della frontiera esterna dell’UE, delegata invece a controlli nazionali frammentari, disuguali e inadeguati. Mancava un regime europeo del diritto di asilo, e la fondamentale distinzione fra rifugiati che fuggono da guerre e persecuzioni, per raggiungere un paese sicuro, e tutti gli altri migranti economici in cerca di un migliore standard di vita. La differenza fra questi due gruppi è elusiva, poiché anche i rifugiati tenderanno a scegliere paesi che offrono migliori prospettive di occupazione e di reddito e maggiori benefici netti di welfare, anche a costo di abbandonare il primo paese sicuro raggiunto.
I numerosi morti e dispersi nella traversata del Mediterraneo avvicinano la posizione dei migranti economici a quella dei rifugiati. Eppure la differenza legale, etica e pratica rimane: i migranti economici si assoggettano, emigrando, alla discrezionalità del paese di arrivo e possono vedere il proprio accesso rifiutato o addirittura essere rimpatriati; mentre i rifugiati hanno un diritto sacrosanto all’asilo, sanzionato dall’articolo 13-2 della Dichiarazione universale dei diritti umani, dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e Protocollo del 1967 e dall’UNHCR. I rifugiati non possono essere penalizzati per la loro entrata o soggiorno in altro paese anche se illegali, non possono essere detenuti per il solo fatto di chiedere asilo, e non possono essere espulsi o rimpatriati. Negli ultimi decenni la stessa crescita del numero di rifugiati ha introdotto il concetto di paese sicuro, di origine o di asilo, da cui non si può chiedere asilo in un altro paese. Purtroppo non esiste una lista riconosciuta di paesi sicuri, né per l’ONU né per l’UE, per cui rimane problematico rifiutare l’asilo su questa base.
La Convenzione di Dublino (1990) stabilisce che il primo paese di entrata nell’UE è responsabile per la rilevazione delle impronte digitali e l’identificazione di tutti gli immigrati ed è interamente responsabile per la loro accoglienza, una norma più rigida di quella delle Nazioni Unite ma spesso disattesa. L’abolizione dei confini interni ad un’area richiede la convergenza degli standard di vita, ossia dei redditi pro capite inclusivi dei trasferimenti del welfare. Altrimenti si crea l’incentivo per i paesi più generosi a erigere barriere nazionali, e/o discriminare contro gli immigrati o, quando questo non sia possibile come nel caso di immigrati da altri paesi UE, smantellare del tutto il sistema del welfare sia per gli immigrati che per i cittadini nazionali. Che è quello che sta accadendo nel Regno Unito e ora si profila in Germania.
La crisi di Schengen, al pari di quella dell’euro, era anch’essa aggravata dall’adozione di politiche di austerità (Baddeley 2016). Sia Schengen, sia l’euro sono forme di accelerazione forzata dell’integrazione europea, secondo un metodo che possiamo chiamare mission creep: l’espansione surrettizia, senza un mandato democratico, di un progetto oltre i suoi obiettivi originari, nel tempo o nello spazio o in altri aspetti, con il rischio che i possibili successi iniziali spingano ad adottare obiettivi sempre più ambiziosi fino a un inevitabile fallimento finale. Questo metodo può condurre all’evoluzione costruttiva delle istituzioni, ma quando due crisi si sovrappongono – come l’euro e Schengen – il risultato è catastrofico.
Migrazioni senza frontiere?
Economisti neoliberisti e dell’ONU/UNESCO raccomandano una politica di migrazioni senza frontiere, per promuovere sviluppo economico e riduzione della povertà, il risparmio nei costi delle frontiere (circa $30md l’anno) e la riduzione dei costi e rischi addizionali delle migrazioni clandestine. Ma a parte la probabile sovrastima dell’effetto propulsivo di questa politica, rimangono tre obiezioni importanti:
- l’appropriazione gratuita da parte degli immigrati di una quota del capitale sociale del paese di arrivo – comunque definito, come “trust”, solidarietà e stato di diritto, come infrastrutture (strade, trasporti, edilizia popolare) o come istituzioni (sanità, istruzione) – in un mondo dominato dalla proprietà privata del capitale, ossia una situazione altamente contraddittoria;
- la mancanza di un governo globale che, anche se le migrazioni senza frontiere producessero benefici netti positivi, sarebbe necessario a sovra-compensare chi soffre questa diluizione del capitale sociale e altre perdite dirette;
- la conseguente segmentazione territoriale della sovranità, che necessariamente assoggetta l’entrata degli immigrati al previo consenso delle popolazioni ospiti.
Una migrazione senza frontiere sarebbe accettabile in presenza di comunismo universale e governo globale, altrimenti le migrazioni rimangono necessariamente soggette al consenso (democratico o meno) della popolazione del territorio di destinazione, a sua volta dipendente non dai vantaggi obiettivi netti delle migrazioni e dalla loro distribuzione, ma dalla percezione che di tali vantaggi e della loro distribuzione hanno i paesi ospiti. L’innegabile crescente successo elettorale di partiti di destra, populisti e anti-immigrazione, in Europa e nel mondo sviluppato, dimostra che – a torto o a ragione – è diffusa la convinzione che il livello o il ritmo dell’immigrazione sia oggi eccessivo.
Alberto Chilosi (Political Quarterly 2002) ha preconizzato che l’introduzione di migrazioni senza limiti avrebbe portato i paesi ospiti a regimi molto più diseguali, autoritari e violenti e meno civilizzati di quelli di cui avrebbero goduto senza migrazioni illimitate. Respingimenti e rimpatri sono rimedi a dir poco sgradevoli e brutali ma controlli alle migrazioni comportano necessariamente una costrizione o la minaccia di una costrizione (Rowthorn 2016). Gli immigrati che non hanno diritto a rimanere devono essere respinti o rimpatriati forzatamente. Altrimenti incoraggiano nuovi arrivi: le amnistie sono controproducenti. Il ricorso al rimpatrio deve essere tanto maggiore quanto più è facile l’entrata illegale (Rowthorn 2016). I rimpatri sono costosi e dovrebbero essere finanziati da tutti i paesi dell’Area di Schengen come costo di abolire i confini interni; richiedono il consenso del paese di origine o del primo paese sicuro raggiunto, che può essere sconosciuto o aver cessato di esistere o può rifiutarlo (anche in presenza di un accordo come col Pakistan). Anche il rimpatrio dei rifugiati dovrebbe essere effettuato una volta cessato lo stato di guerra o persecuzione nel paese di origine.
A gennaio 2016 la Svezia, che nel 2015 aveva ricevuto il maggior numero pro capite di richieste di asilo in Europa, ha annunciato un piano per rimpatriare 80mila immigrati (successivamente ridotti) «in molti anni», usando voli charter affittati allo scopo; il piano, però, è ancora sulla carta. Il respingimento è più facilmente praticabile, anche se la concentrazione in campi di raccolta di migranti respinti al confine chiaramente crea altri problemi, mentre la prospettiva di futuri respingimenti può solo ingrossare nell’immediato i flussi.
Costi e benefici delle migrazioni.
In generale, si tende a esagerare sia i costi che i benefici delle migrazioni, come del resto quelli della globalizzazione (Nuti 2006). Le migrazioni certo beneficiano i lavoratori che trovano occupazione a un salario maggiore nel paese di arrivo, dove aumenterà il PIL ma non necessariamente il PIL pro capite; e probabilmente, in misura minore, ne beneficiano i lavoratori che restano nel paese di origine. Ne soffrono gli occupati nel paese di arrivo per la riduzione del loro salario rispetto a quello che avrebbero ottenuto altrimenti (e per il maggior rischio di disoccupazione), e i profitti del paese di partenza per la riduzione dell’occupazione e il probabile aumento salariale. Ne beneficiano doppiamente i profitti del paese di arrivo (più occupazione e minori salari).
Normalmente il nuovo equilibrio produce un beneficio netto nell’insieme dei due paesi. Tuttavia i benefici lordi non possono essere usati per sovra-compensare i perdenti, perché tale ridistribuzione dovrebbe avvenire dai poveri (gli emigrati) ai ricchi (i lavoratori del paese di arrivo) e/o a livello internazionale (dai capitalisti del paese di arrivo a quelli del paese di partenza): nel primo caso è indesiderabile, nel secondo è impraticabile.
L’evidenza empirica è mista. La maggior parte degli studi econometrici trova che l’immigrazione ha un effetto modesto sull’occupazione del paese ospite, più marcato in una recessione, come sui salari tranne che in particolari occupazioni; ma alcuni studi trovano effetti negativi ampi. Anche se gli indigeni non sono disposti ad accettare i lavori presi dagli immigrati, probabilmente lo sarebbero se il salario non fosse depresso dalla loro concorrenza.
L’immigrazione ha l’effetto di ringiovanire le popolazioni dei paesi di arrivo, un vantaggio per i paesi a bassa natalità e rapido invecchiamento (ma vi sono paesi come la Francia e il Regno Unito che hanno una natalità maggiore e un invecchiamento meno rapido, e manterrebbero una popolazione stabile senza immigrazioni). In ogni caso il ringiovanimento è permanente solo se il tasso di immigrazioni è elevato e continuato (Rowthorn 2015). L’aumento della popolazione comporta una domanda addizionale di abitazioni e di altre infrastrutture e una maggiore pressione sulle risorse ambientali. I costi addizionali del welfare e delle infrastrutture trasformano le immigrazioni in investimenti, forse profittevoli ma non necessariamente superiori ad altri investimenti pubblici.
Molti costi e benefici sono simultanei, nel paese di origine e in quello di arrivo: gli emigrati inviano rimesse in patria ma ne impoveriscono il capitale umano, incentivandone al tempo stesso l’investimento che aumenta la probabilità di emigrazione e di successo dell’emigrato; gli immigrati godono dello stato del benessere nel paese di arrivo ma pagano imposte e contributi sociali che non sempre sono bilanciati dal welfare e pensioni; il loro contributo netto al bilancio statale è di solito positivo ma modesto.
Queste conclusioni non valgono necessariamente per migrazioni continuative di massa, che possono portare l’arricchimento di una maggiore varietà culturale ma anche la perdita di identità culturale e di omogeneità della popolazione autoctona, o addirittura un impoverimento quando prevalgano culture intolleranti, maschiliste e antidemocratiche; possono generare conflitti culturali, politici, etnici e religiosi – anche trascurando la possibilità, improbabile ma non del tutto implausibile, di contagio sanitario e di infiltrazione terroristica. I benefici netti delle migrazioni rimangono una questione aperta.
Conclusione
È essenziale distinguere nettamente fra rifugiati e migranti economici, ribadendo i diritti sacrosanti dei primi al raggiungimento del primo paese sicuro, e assoggettando invece l’accoglienza dei secondi all’accettazione del paese di arrivo.
Una migrazione generalizzata senza frontiere, spesso ventilata, va evitata 1) perché comporterebbe l’appropriazione da parte degli immigrati di una quota del capitale sociale del paese di arrivo, in contraddizione con il regime globale di protezione assoluta della proprietà del capitale privato, e 2) perché manca un governo globale dell’economia che sarebbe necessario sia a rettificare gli effetti redistributivi di tale politica sia a legittimarla democraticamente.
Il mantenimento dell’Area di Schengen in presenza di forti pressioni migratorie presuppone alcune condizioni che, in conclusione, mi limito a elencare: 1) il rafforzamento dei confini esterni; 2) il salvataggio e l’accoglimento dei rifugiati al loro approdo nel primo paese sicuro certificato come tale dalle Nazioni Unite o dall’UE; 3) la ri-distribuzione dei rifugiati a livello globale (non di Schengen perché contradirebbe la libertà interna di movimento) o magari del costo del loro accoglimento all’interno di Schengen, almeno allentando i vincoli fiscali dei paesi di accoglienza; 4) la convergenza dei livelli di reddito pro capite compresi i benefici del welfare all’interno di Schengen; 5) l’introduzione di vincoli alla residenza degli immigrati nel paese di accoglienza, necessari alla loro più efficiente distribuzione interna; 6) il respingimento o rimpatrio dei migranti economici giudicati indesiderabili dai paesi di destinazione; 7) la collaborazione dei paesi confinanti o prossimi ai confini di Schengen per contenere le pressioni migratorie e accelerare le procedure di verifica e di accoglimento dei rifugiati.
Il lettore interessato può consultare questa bibliografia sulle migrazioni.
Pubblicato in inglese sul blog dell’autore ed in italiano Etica ed Economia (in due parti, qui e qui).