di Emiliano Brancaccio e Thomas Fazi
Le politiche monetarie “non convenzionali” non stanno dando i risultati sperati. Il quantitative easing, così come le manovre tese a portare i tassi d’interesse nominali verso lo zero o addirittura a livelli negativi, non appaiono in grado di sospingere l’inflazione e la crescita del PIL verso il loro sentiero “normale”, né sembrano capaci di allontanare le principali economie avanzate dal precipizio della deflazione. L’Unione monetaria europea è in questo senso un caso esemplare. La BCE ha abbattuto il costo del denaro e ha accresciuto la liquidità in circolazione in una misura impensabile prima dell’inizio della crisi. Ciò nonostante, l’inflazione dell’eurozona è addirittura tornata in territorio negativo e non vi è certezza sulla possibilità che arrivi almeno ad azzerarsi alla fine dell’anno.
In questo scenario, da più parti hanno iniziato a diffondersi dubbi sul modo convenzionale in cui viene interpretato il ruolo dei banchieri centrali. Alcuni commentatori sostengono che dopo la “grande recessione” iniziata nel 2008 le autorità monetarie dovrebbero ampliare ulteriormente gli strumenti d’intervento e soprattutto dovrebbero smetterla di perseguire di obiettivi rigidi d’inflazione per puntare invece verso target più flessibili, come ad esempio una data crescita del reddito nominale.
Fuori e dentro le istituzioni, i segnali di interesse verso tali proposte non mancano. A ben guardare, tuttavia, questo modo di affrontare il problema della inefficacia delle politiche monetarie presenta un grave limite. Sia che si adottino i vecchi obiettivi d’inflazione sia che si scelgano target più flessibili, le ricette suggerite continuano a basarsi sul vecchio assunto monetarista secondo cui le banche centrali sarebbero in grado, in un modo o nell’altro, di controllare la spesa aggregata. Non viene neanche presa in considerazione la possibilità che gli strumenti delle banche centrali, più o meno convenzionali, non siano in grado di controllare la spesa aggregata e quindi, in generale, non consentano di perseguire nessuno degli obiettivi che si prefiggono, che si tratti di inflazione o anche di reddito nominale.
Un articolo di prossima pubblicazione sul Journal of Post-Keynesian Economics fornisce nuovi elementi a sostegno della tesi secondo cui le banche centrali, in generale, non sono in grado di governare la spesa aggregata. Utilizzando un modello VAR con dati trimestrali per l’area euro tra il 1999 e il 2013, gli autori hanno indagato sull’esistenza o meno di relazioni statistiche tra l’andamento del tasso d’interesse di mercato o dei tassi di rifinanziamento della BCE, da un lato, e la dinamica del reddito nominale intorno al suo trend di lungo periodo, dall’altro.
L’analisi empirica ha mostrato che gli scostamenti del reddito nominale dal trend non sono influenzati dai movimenti dei tassi di interesse: in particolare, la riduzione del costo del denaro non sembra in alcun modo favorire un recupero del reddito nominale verso il suo andamento tendenziale di lungo periodo. A quanto pare, dunque, governando i tassi d’interesse il banchiere centrale non è in grado di controllare la spesa aggregata e quindi non può incidere efficacemente sull’andamento della produzione, dell’occupazione, del reddito nominale, e tantomeno dell’inflazione. L’evidenza, in effetti, contrasta con tutte le interpretazioni convenzionali dell’operato delle banche centrali, dalla famigerata “regola di Taylor” alle più recenti regole fondate su un “target di reddito nominale”.
L’analisi empirica ha evidenziato pure che gli scostamenti del reddito nominale effettivo dal suo trend di lungo periodo influenzano l’andamento del tasso d’interesse: per esempio, a una crescita del reddito più blanda rispetto al trend corrisponde una riduzione dei tassi d’interesse, e viceversa. Questo risultato sembra supportare un’interpretazione del ruolo della banca centrale le cui origini risalgono al celebre Lombard Street di Walter Bagehot, e che è stata poi ripresa e sviluppata da vari studiosi di orientamento critico.
Questo filone di ricerca alternativo suggerisce che il ruolo effettivo del banchiere centrale è più complesso di quello che gli viene solitamente attribuito: esso consiste nel regolare la solvibilità delle unità economiche e più in generale la stabilità finanziaria del sistema. L’autorità monetaria, cioè, muoverebbe i tassi d’interesse nella stessa direzione del reddito nominale non certo per tentare di governare quest’ultimo, che è fuori dalla sua portata, ma allo scopo non meno rilevante di controllare la differenza tra reddito e onere del debito, in modo da tenere a bada la dinamica dei fallimenti, delle bancarotte e delle liquidazioni del capitale.
Secondo questa visione, il banchiere centrale agisce come “regolatore” di un conflitto tra capitali solvibili, capaci di accumulare profitti superiori al servizio del debito, e capitali in perdita e dunque potenzialmente insolventi. Tale conflitto è inoltre tanto più violento quanto più restrittiva sia la politica fiscale del governo, che riduce i redditi nominali medi e colloca quindi un numero maggiore di unità economiche sotto la linea dell’insolvenza. Dati gli orientamenti delle politiche di bilancio, dunque, il modo in cui la banca centrale manovra il tasso d’interesse rispetto al reddito nominale medio influisce sul ritmo delle insolvenze e sulla connessa “centralizzazione” dei capitali: vale a dire, sulle liquidazioni dei capitali più deboli e sul loro progressivo assorbimento ad opera dei capitali più forti.
Questa diversa interpretazione della politica monetaria consente di guardare sotto un’altra luce anche l’attuale scenario dell’eurozona. Con politiche di bilancio pubblico votate all’austerity, in vari paesi la crescita nominale del reddito resta troppo bassa, situandosi spesso al di sotto dei tassi d’interesse di mercato. Ciò significa che l’attuale politica monetaria della BCE non è in grado di frenare la tendenza europea alla centralizzazione, ossia alle liquidazioni dei capitali situati nelle aree periferiche e alla loro eventuale acquisizione da parte di capitali presenti in Germania e nelle zone caratterizzate da migliori andamenti macroeconomici.
Questa tendenza è ben documentata dalla drammatica divaricazione tra i tassi di insolvenza delle imprese europee. Tra il 2007 ed il 2015 la Germania ha segnato una riduzione delle insolvenze delle imprese a un ritmo medio del 3 percento all’anno. Al contrario, nello stesso periodo Spagna, Portogallo e Italia hanno fatto registrare una violenta crescita delle insolvenze, con incrementi medi rispettivamente del 37, del 21 e del 16 percento all’anno. Negli ultimi tempi in Spagna si è assistito a un calo dei fallimenti, che tuttavia non consente nemmeno di avvicinarsi alla situazione ante-crisi. In Italia il quadro non migliora, mentre in Portogallo nell’ultimo anno si registra addirittura un ulteriore aggravamento delle bancarotte. Si tratta di una forbice senza precedenti, che oltretutto si ripercuote sugli andamenti dei bilanci delle banche dei diversi paesi dell’Unione, creando i presupposti per nuove, asimmetriche crisi bancarie.
È dunque illusorio pensare che la BCE, da sola, sia in grado di contrastare la deflazione. La sua politica monetaria, piuttosto, influisce sulle insolvenze e sulle liquidazioni dei capitali, che tuttora colpiscono in modo asimmetrico i paesi membri dell’Unione. Anziché attardarsi su target d’inflazione impossibili, è su quest’ultimo problema che il dibattito di politica monetaria dovrebbe maggiormente concentrarsi.