Mancano ancora quasi sei mesi all’8 novembre e le convention dei due partiti devono ancora designare i rispettivi candidati alla Casa Bianca, ma nel campo di Hillary ci si concentra già sulla battaglia finale contro Donald Trump, su tre stati in particolare: Florida, Ohio e Pennsylvania. Il secondo è considerato vitale dall’entourage della Clinton, che ha già spedito le sue truppe nel Buckeye State, lo stato degli ippocastani, per convincere la middle class che l’ex first lady farà di tutto per aumentare i salari: i repubblicani non sono mai riusciti a conquistare la Casa Bianca senza vincere in Ohio. Gli ultimi sondaggi danno l’Ohio 43 a 39 per The Donald, allarme rosso. Negli altri due invece Hillary è in testa, ma di un soffio: 43 a 42 in entrambi.
Hillary si prepara alla battaglia finale ma ha il fronte interno ancora aperto, perché il vecchio Bernie Sanders non molla la presa, però sembra aver cambiato obiettivo: con soli otto stati che devono ancora tenere le primarie un sorpasso sembra ormai impossibile, e quindi il senatore del Vermont vuole almeno ottenere che una parte importante della sua piattaforma sia fatta propria dalla Clinton.
Che a sua volta non sembra voler dare battaglia. Salario minimo di $15 dollari l’ora? Forse si può fare, io chiedo $12. Sanità gratis per tutti? Perché no? In fondo era il mio programma quando mio marito faceva il presidente. L’unica cosa che la preoccupa è andare allo scontro finale con Trump con alle spalle un partito diviso e riottoso ad andare a votare in massa. Per il resto è pronta a concedere tutto, tanto, pensa, alla Casa Bianca ci sarà lei, mica il vecchio Bernie.
Sul campo avverso la situazione è totalmente diversa. The Donald ha ancora tutti contro, dall’establishment repubblicano alla grande stampa liberal, come la Washington Post del fondatore di Amazon Jeff Bezos (che secondo Trump lo attacca perché teme che se vincesse riuscirebbe a fargli finalmente pagare le tasse), ma anche conservatrice, come il Wall Street Journal che non lascia passare giorno senza fargli le pulci sulla coerenza e fattibilità economica delle sue promesse. Ma ormai i giochi sembrano proprio fatti. I voti li ha lui, e il partito non può mettersi contro il suo elettorato. Far diventare Trump un’opportunità tuttavia sembra proprio una mission impossibile per il Grand Old Party. Perché alla fine Trump tutto sembra tranne che un repubblicano. Che però piace agli elettori potenziali del partito, quelli che se non ci fosse lui magari a votare neanche ci andrebbero. E piace qualunque cosa dica, per quanto il WSJ la giudichi irrealizzabile. In questo somiglia a Bernie, chiede e pretende di poter realizzare quello che i professionisti della politica e dell’economia giudicano impossibile.
Trump dice di voler abbattere le tasse per trilioni di dollari (ma a favore della middle class, non dei ricchi) di volerne spendere altrettanti in infrastrutture e altri progetti e nello stesso tempo promette di portare il bilancio federale in attivo, anche qui nell’ordine dei trilioni, tra i 4,5 e i 7. Il nostro Wall Street Journal ogni giorno consuma metri quadrati di analisi per spiegare, numero per numero, perché sia tutto irrealizzabile. La cura giusta, secondo il giornale di Wall Street, è quella del presidente della Camera dei Rappresentanti Ryan, un repubblicano tradizionale che punta tutto su una drastica cura dimagrante del governo federale e paventa addirittura un esito alla greca se Trump fosse messo in condizione di provare a realizzare il suo programma. Si dimentica forse che l’America non è un disgraziato piccolo paese alla periferia di un’Europa in preda alle convulsioni centrifughe che deve fare i conti con la Troika e con il fiscal compact. In pratica si dimentica dell’argomento con cui Trump raccoglie i voti a milioni: siamo i più grandi, siamo i più forti, e i politicanti degli ultimi vent’anni ci hanno portato a diventare lo zimbello del mondo. Trump non fa più tutto da solo come all’inizio, ha un direttore della politica che si chiama Sam Clovis, è un po’ più tecnico di lui e nei giorni scorsi ha tenuto una conferenza stampa per spiegare che la ricetta Trump può funzionare, citando precedenti storici bipartisan: il piano fiscale di Kennedy poi realizzato da Lyndon B. Johnson nel 1964 e il Reagan del 1981. Ovviamente beccandosi una lenzuolata del WSJ per spiegare, con un profluvio di numeri alla mano, che i paragoni non stavano in piedi.
Ma qualunque manuale di economia spiega che la molla della crescita non sono i conti dei bilanci pubblici o le equazioni sul rapporto deficit/Pil, ma un fattore molto più impalpabile che si chiama fiducia. La fiducia degli americani nel futuro ha subito un vulnus molto grave l’11 settembre di 15 anni fa che non è stato sanato né da sette anni di sanguinarie quanto inconcludenti sbruffonate di W. Bush in giro per il mondo, per di più accompagnate all’interno da una spericolata politica di incoraggiamento all’indebitamento privato che ha portato alla catastrofe di Lehman, né dai successivi quasi otto anni di Obama, che sarà pure riuscito a salvare la corporate America dall’abisso con l’aiuto del repubblicano Ben Bernanke, ma che ha anche anestetizzato gli spiriti vitali non del capitalismo, ma di un popolo che non è capace di vivere senza entusiasmo.
Ora quelli che contano sembrano dire tutti in coro: chiunque ma non Trump. Non ha funzionato con W. Bush nel 2004, figuriamoci con The Donald! Anzi, sembra proprio la ricetta giusta per farlo vincere. Governare ovviamente può rivelarsi tutta un’altra cosa.