di Federico Dezzani @FedericoDezzani
Banche, la sentina dove confluiscono i liquami dell’eurocrisi
Mercoledì 11 maggio, mentre il parlamento vota la fiducia al governo sul DDL che riconosce le coppie omosessuali («una pagina storica», secondo Matteo Renzi), si consuma a Piazza Affari una giornata di passione: alla chiusura della borsa la tavolozza di colori è ricca di sfumature di rosso, dal vermiglio di Intesa San Paolo (-1,6%), al rosso porpora del Banco Popolare (-9%), passando per il rosso pompeiano di UniCredit (-3,7%). Si chiude così l’ennesima seduta di un anno decisamente nefasto per gli istituti di credito nazionali che, in soli cinque mesi, hanno lasciato sul terreno tra un terzo e la metà della capitalizzazione di borsa.
A dire il vero, che l’anno nuovo non promettesse niente di buono, si poteva facilmente intuire già nell’ultimo scorcio del 2015, quando l’esecutivo, costretto dalle autorità di Bruxelles a rinunciare all’impiego del Fondo interbancario di tutela dei depositi (FITD), anticipa di un mese l’applicazione famigerato “bail-in” per soccorre quattro istituti (Banca delle Marche, Banca Etruria, CariChieti e CariFerrara) alle corde. Si tratta del salvataggio applicato per la prima volta a Cipro, nel lontano 2013, che, anziché addossare allo Stato l’onere del risanamento (procedura fino a quel momento largamente seguita da Germania e Francia) scarica su azionisti, obbligazionisti e correntisti sopra i 100.000 euro, i costi del dissesto. Al primo assaggio italiano del bail-in segue il tracollo immediato di MPS (che tra l’inizio e la metà di dicembre brucia il 20% della capitalizzazione), l’ira dei risparmiatori e l’imbarazzo delle autorità di vigilanza, non troppo zelanti nel controllare i prodotti venduti ai correntisti.
Subentra il nuovo anno e, dal primo gennaio, il bail-in diventa la norma: scatta la grande fuga da Piazza Affari che, nel volgere di poco più di mese, schianta gli istituti di credito, bruciando quasi 130 €mld di capitalizzazione e facendo lievitare il differenziale tra BTP e Bund a 145 punti base, nonostante i massicci acquisti della BCE. Matteo Renzi suda freddo, temendo che il crollo borsistico sia sfruttato per defenestralo e sostituirlo con un governo di inattaccabile “fede europeista”: segue l’attacco in parlamento agli “illuminati aristocratici” e la provvidenziale rivelazione sulle responsabilità americane nella cacciata di Berlusconi del 2011 con annessa, ed inusuale, convocazione dell’ambasciatore John Phillips.
Sebbene le borse rifiatino momentaneamente, la spada di Damocle del bail-in incombe minacciosa sul sistema creditizio italiano e, di riflesso, sul governo: è troppo forte il rischio che il suo nuovo utilizzo, oltre a alimentare la rabbia dei risparmiatori, scateni una corsa agli sportelli, infliggendo il colpo di grazia alla stabilità finanziaria del paese.
Per evitare il fallimento di una società che naviga in pessime acque, non c’è altra strada che un aumento di capitale. Se quindi Banca delle Marche, Banca Etruria, CariChieti e CariFerrara hanno avuto la sfortuna di fare da cavia al cruento bail-in, per il Banco Popolare di Vicenza e Veneto Banca, gravate da una mole insostenibile di sofferenze, si decide di intervenire con la più clemente ricapitalizzazione (che azzera i vecchi azionisti, ma almeno salva obbligazionisti e correntisti).
Garante dell’aumento di capitale da 1,75 €mld della Banca Popolare di Vicenza è UniCredit che, nel settembre 2015 (quando le acque erano ancora relativamente calme), si impegna con l’istituto vicentino a colmare le eventuali falle dell’aumento di capitale, fino ad un massimo di 1,5 €mld: l’ipotesi che il mercato rigetti la ricapitalizzazione è allora remota e, in ogni caso, il ruolo di azionista di maggioranza di Piazza Cordusio sarebbe limitato al tempo dalla quotazione in borsa dell’istituto. Cosa induce UniCredit ad imbarcarsi nel settembre 2015 in quest’operazione, mentre Intesa Sanpaolo si fa garante dell’aumento di capitale di Veneto Banca? Magnanimità, lucro?
Bè, come scrive Reuters, «la riuscita dell’operazione rappresenta anche un test cruciale sulla fiducia degli investitori nel comparto bancario e un eventuale fallimento avrebbe anche conseguenze a livello di sistema». Dei due colossi nazionali, UniCredit, ancora appesantita dall’aggressiva politica espansiva di Alessandro Profumo, artefice della fusione con una banca carica di “crediti politici” come Capitalia (maggio 2007) e di acquisti azzardati a ridosso della bancarotta di Lehman Brothers (la kazaka ATF Bank, sempre nel 2007), è senza dubbio quello più fragile: puntellare la popolare vicentina significa per Piazza Cordusio puntellare anche se stessa.
Passano però i mesi, crolla Piazza Affari ed i capitali prendono nuovamente il volo verso il nocciolo dell’eurozona, come ai tempi più bui dell’eurocrisi: a Piazza Cordusio realizzano che, in un simile contesto, l’aumento di capitale della Banca Popolare di Vicenza rischia di trasformarsi in un fallimento quasi certo, causando un peggioramento netto dei coefficienti patrimoniali. «UniCredit in talks with Rome over €2bn Vicenza capital raising», scrive il Financial Times il 29 marzo, riportando alcune indiscrezioni secondo cui l’istituto si sarebbe appellato al governo per uscire dal vicolo cieco in cui si è ficcato.
Ovviamente l’esecutivo, che già si è visto proibire il ricorso al Fondo interbancario di tutela dei depositi per il salvataggio di Banca Etruria & Co., sa di avere le mani legate. Non può far altro che esercitare il suo potere di persuasione sul sistema creditizio italiano: nasce così il Fondo Atlante, con un patrimonio iniziale fino a 6 €mld, raccolti tra assicurazioni, fondazioni e banche (1 €mld a testa per Intesa ed UniCredit), col preciso compito di sostenere le ricapitalizzazioni in corso.
La sua nascita si dimostra provvidenziale, perché l’aumento di capitale della popolare vicentina, «come previsto» (ovviamente, per tranquillizzare l’opinione pubblica), è una débâcle: solo il 7,6% delle azioni è sottoscritto, la Consob è costretta a negare la quotazione ed il Fondo Atlante neo-costituito diventa così il proprietario del 99% della popolare. Piazza Cordusio, almeno, ha evitato l’esborso di 1,5 €mld che, al momento, non si poteva proprio permettere. “The Unnamed Beneficiary of an Italian Bank Bailout” titola il 2 maggio il Wall Street Journal, evidenziando come il vero beneficiario dell’intervento sia UniCredit, i cui indici patrimoniali sono a livelli di guardia nonostante una sfilza di aumenti di capitale per 18 €mld negli ultimi anni:
UniCredit had agreed last fall to backstop the bailout and buy the new shares if investors proved unwilling. But regulators feared the bank didn’t have the financial strength to honor its promise because of its thin capital buffer and worried the Italian banking system could be dragged down if the bailout failed. So the government pressed the country’s bankers to contribute to a new fund in April to backstop the rights issue and get UniCredit off the hook… That the problems of a small lender could mushroom into a dangerous threat to Italy’s biggest bank demonstrates the vulnerability of the country’s banking system. It also exposes the weakness of UniCredit, which like the rest of the sector is struggling with rock-bottom interest rates, a moribund economy and mounting bad loans.
Il fallimento della ricapitalizzazione della popolare vicentina è, però, l’ennesima conferma delle tensioni che attraversano il comparto bancario italiano dall’introduzione del bail-in: gli investitori reagiscono male, vendendo a piene mani e riportando, nel volgere di una decina di giorni, le quotazioni delle banche in prossimità dei minimi di gennaio.
Qual è l’origine del malessere del sistema bancario italiano? Qual è la ragione per cui gli investitori, dopo l’introduzione del bail-in, evitano con cura gli istituti di credito nostrani? Dopotutto, non erano usciti con la testa alta dalla crisi dei mutui spazzatura, costata il salvataggio pubblico delle banche francesi, tedesche, inglesi, belghe, ecc.?
Il relativamente repentino cambiamento di salute delle banche italiane è dovuto alla loro trasformazione in “sentina” dell’eurocrisi, ossia in quella parte della nave dove confluiscono tutti i liquami prodotti dalle politiche di austerità adottate per salvare l’eurozona. Nel momento in cui, l’euro non evolve in un’unione fiscale, ma rimane un puro e semplice regime a cambi fissi, le politiche di svalutazione interna per riequilibrare le bilance commerciali producono, infatti, recessione e disoccupazione, che, a loro volta, si ripercuotono nel volgere di pochi mesi sulle finanze pubbliche e sui bilanci della banche. Il quadro è ancora peggiore se permangono i dubbi sulla tenuta del regime a cambi fisso (l’euro) ed il paese in questione ha un elevato debito pubblico: in tal caso, ed è l’esperienza italiana, gli istituti di credito sono obbligati ad accollarsi l’enorme quantità di titoli di Stato gettati sul mercato e/o non più sottoscritti dagli investitori esteri.
Sintomatica a questo proposito è la progressione delle sofferenze bancarie, che lievitano dai 100 €mld del 2011 agli oltre 200 €mld attuali; parallelamente, i BTP detenuti nei portafogli lievitano dai 220 €mld del 2009 ai 445 €mld del 2015. L’eurocrisi, in sostanza, non è risolta dalle politiche di austerità, ma solo differita nel tempo: la situazione sembra in apparenza calma, anche per merito delle politiche monetarie accomodanti della BCE, ma, in realtà, i “liquami” dell’austerità scivolano inesorabilmente verso la sentina, ossia i bilanci delle banche, fino a raggiungere livelli di guardia (gli attuali frangenti in cui si trova il sistema creditizio italiano). A quel punto, l’emergenza riesplode e si consuma l’ultimo atto della crisi del regime a cambi fisso europeo, alias “euro”.
L’aut aut di Berlino: bail-in senza garanzia sui depositi oppure uscita dall’euro
Molte accuse si possono sollevare contro Berlino per la gestione dell’eurocrisi, tranne quella di incoerenza: c’è infatti un file diretto che unisce il nein agli eurobond nel lontano 2011-12 sino agli attuali distinguo e cavilli vari per sabotare la garanzia unica sui depositi bancari. La linea di fondo è sempre stato il rifiuto dell’elettorato e della classe dirigente tedesca (eccezion fatta per Angela Merkel che, se avesse potuto agire liberamente, si sarebbe conformata alle direttive atlantiche) alla trasformazione dell’eurozona in un’unione fiscale e politica: un bilancio comune, ovviamente, avrebbe implicato il trasferimento di gettito fiscale dal centro verso la periferia, così da compensare almeno parzialmente la caduta di reddito generata dall’adozione di una valuta (l’euro) troppo forte le economia del Sud Europa (Francia compresa).
Il primo tentativo di strappare l’unione fiscale è sventato da Berlino con il secco rifiuto nel 2011 e 2012 agli eurobond, titoli comuni a tutti i membri dell’eurozona e primo passo verso l’auspicata condivisione del debito. I tedeschi considerano l’euro come un pure e semplice regime a cambi fissi: chi vuole rimanere ancorato, deve smettere di vivere “al di sopra dei propri mezzi”, abbattere l’import attraverso il consolidamento fiscale (mirato non a sanare i conti pubblici, ma a distruggere i consumi), ed attuare pesanti politiche di svalutazione interna (abolizione dell’art. 18 ed affini) così da riequilibrare le bilance commerciali (in modo tale che la moneta, che segue il percorso opposto alle merci, smetta di defluire dall’europeriferia).
L’austerità è, come abbiamo detto, un semplice tampone e neppure dei più funzionanti, perché le politiche di svalutazione interna si ripercuotono molto presto sui bilanci delle banche. Il nuovo fronte che Berlino deve presidiare, per evitare sia reintrodotta dalla finestra la condivisione del debito uscita dalla porta, è quello bancario: in caso di crisi del sistema creditizio nazionale, i singoli paesi europei, prima di appellarsi al fondo salva-Stati, devono quindi applicare il bail-in, azzerando investitori e correntisti sopra i 100.000 euro. L’europeriferia, Italia in testa, accetta di buon grado il meccanismo, ma preme affinché sia istituita una garanzia unica dei depositi a livello europeo: in questo modo, il salvataggio dei correntisti sotto i 100.000 euro non graverebbe solo sulle pericolanti finanze pubbliche italiane o spagnole, ma anche sulle tasche tedesche. Dopo la battaglia per l’introduzione del bail-in, entra ora automaticamente nel mirino la garanzia unica dei depositi, da boicottare ad ogni costo.
L’ennesimo, secco nein sarebbe diplomaticamente poco sostenibile. La manovra di Berlino è perciò subdola: sì alla garanzia unica dei depositi, purché i titoli di Stato dell’area euro non siano più considerati esenti da rischi, obbligando così le banche ad adeguare i loro coefficienti patrimoniali per conservarli in portafoglio. Di fronte ad uno simile scenario, le banche italiane, colme di BTP, avrebbero solo due possibilità: massicci aumenti di capitale (e si è visto col caso della Banca Popolare di Vicenza quanto l’ipotesi sia inverosimile) oppure la vendita massiccia di titoli di Stato, con effetti drammatici per i rendimenti e la tenuta dei conti pubblici.
Secondo il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann:
È assurda l’ipotesi formulata prima della crisi che consente di trattare i titoli di Stato come privi di rischio: i titoli di Stato nei bilanci delle banche devono essere coperti da capitale proprio, come avviene per i crediti emessi a favore dei privati, si legge nel testo dell’intervento… Adottando una regolamentazione che impedisca una concentrazione dei titoli di Stato di un solo paese nelle banche dello stesso Stato, si riuscirebbe a dissolvere lo stretto legame tra banche e Stato e in caso di emergenza sarebbe possibile intraprendere il percorso della ristrutturazione del debito senza portare al fallimento il sistema finanziario… Tale normativa sarebbe un presupposto importante per la possibile introduzione di un fondo comune europeo di garanzia dei depositi.
È inutile dire che per l’Italia simili condizioni sono inaccettabili ed equivalgono ad un tentativo, neppure troppo mascherato, di rimandare sine die la garanzia unica dei depositi. Di fronte alla proposta tedesca, fermamente osteggiata da Pier Carlo Padoan al vertice europeo dei ministri delle finanze del 22 aprile, la garanzia unica sui depositi scompare, infatti, dai radar. In fondo lo status quo, bail-in senza copertura europea dei correntisti, è la soluzione migliore per Berlino, quella che consente di allungare ancora un po’ la vita dell’euro con un esborso minimo di denaro.
Chi, viceversa, è ormai con le spalle al muro è proprio l’Italia, dove cinque anni di austerità hanno ridotto il sistema creditizio in condizioni così critiche da rendere improcrastinabile una soluzione per la marea montante di sofferenze bancarie. Con un ritardo di quasi tre anni dalla sua prima applicazione a Cipro, solo in questi mesi la classe dirigente italiana ha afferrato il vero significato del bail-in: si è assistito così a ripensamenti fuori tempo massimo, come quelli del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, che il 5 maggio afferma[7]:
Se fallisce un supermercato, lo chiudi e un altro apre. Se fallisce una banca, è molto improbabile che ne apra un’altra, è più probabile che quella accanto cominci ad avere problemi.
Una mole di 200 €mld di sofferenze bancarie e la cronica carenza di capitale che affligge il sistema creditizio è sanabile solo con l’intervento e la massiccia immissione di moneta fiat nei bilanci delle banche, attraverso il classico ricorso alla nazionalizzazione: lo scenario, ovviamente, è realizzabile solo al di fuori dell’Unione europea e della moneta unica.
Ecco perché la crisi bancaria di questi primi mesi del 2016, è considerabile a tutti gli effetti l’ultimo stadio dell’eurocrisi, oltre cui si procede con la dissoluzione della moneta unica: Berlino ne è consapevole e, irrigidendosi su posizioni rigoriste, non fa altro che accelerare l’implosione dell’eurozona.
Pubblicato sul blog dell’autore il 12 maggio 2016.