di Andrea Fumagalli
Note in merito al libro di Thomas Fazi e Guido Iodice, “La battaglia contro l’Europa. Come un’élite ha preso in ostaggio un continente. E come possiamo riprendercelo”. Una versione ridotta di questa recensione è stata pubblica il 3 maggio 2016 su il manifesto.
Numerosi sono oggi le pubblicazioni che hanno ricostruito le cause della grande recessione economica degli anni ’00 che ha portato alla più grave crisi finanziaria dalla grande depressione degli anni Trenta del secolo scorso. Sono disponibili diverse versioni, a seconda del punto di vista degli autori: dall’eccessiva ingordigia delle banche (il primo Paul Mason), al mancato funzionamento dei mercati perché troppo stretti dalle rigidità imposte dalle concentrazioni di mercato, all’eccesiva polarizzazione dei redditi, sino alla denuncia della strutturale instabilità dei mercati finanziari e alla loro violenza (Marazzi).
Thomas Fazi e Guido Iodice nel saggio La battaglia contro l’Europa. Come un élite ha preso in ostaggio un continente. E come possiamo riprendercelo (Fazi Editore, Roma, 2016) descrivono in modo semplice e convincente la natura dell’odierna crisi e il passaggio dalla crisi finanziaria dei subprime alla crisi del debito in Europa. In particolare, i due autori analizzano in dettaglio le scelte di politiche economica effettuate dalle autorità economiche europee, sorrette da alcuni governi (in primis la Germania ordoliberista): le politiche di austerità, prima e, ora, le politiche di riforma strutturale.
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Nel maggio del 2010, sulla prestigiosa American Economic Review, veniva pubblicato (senza peer review) un saggio di C. Reinhart e K. Rogoff “Growth in time of debt” (‘La crescita ai tempi del debito’), destinato a influenzare, giustificandole, le politiche di austerity che da lì a poco sarebbero state imposte ai paesi europei maggiormente indebitati, i paesi PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna). In tale saggio, si dimostrava, dati alla mano, che vi è una correlazione negativa tra crescita e debito pubblico, soprattutto quando quest’ultimo superava la “fatidica” soglia del 90% del PIL.
Sulla base di tale assunto, l’allora presidente della Commissione europea, il portoghese Josè Barroso, e il commissario europeo agli affari economici, il finlandese Olli Rehn, si affrettarono a dichiarare che per uscire dalla pesante recessione economica era prioritario abbattere il debito pubblico, definire un nuovo fiscal compact e imporre l’obbligo di pareggio di bilancio pubblico per legge, sino a inserirlo nella costituzione. FMI e BCE si allinearono prontamente.
Solo più tardi (aprile 2013), un giovane studioso, fresco di Ph.D all’Università Massachusetts Amherst, T. Herndon, ha dimostrato che i risultati della ricerca di Reinhart e Rogoff contenevano errori grossolani (lo svarione più imbarazzante era semplicemente un errore di codice nel foglio di calcolo originale utilizzato per selezionare i dati, che divenne noto Excelgate!), che, una volta corretti, producevano risultati quasi opposti: il tasso di crescita medio dei paesi ad alto debito (> 90%) passava da – 0,1% a + 2,2%.
Da quel momento in poi, l’élite politico-finanziaria di Europa cambiò vocabolario, ma senza mutare la sostanza: le “politiche di austerità espansiva”, come si diceva allora e come si predicava sui giornali (vedi i numerosi articoli del duo Alesina-Giavazzi sul Corriere della Sera e la più che ragionevole replica di Riccardo Realfonzo) lasciano spazio alle “politiche di riforme strutturali”, termini ancora oggi in voga, sino a essere invocate a piene mani con riferimento alla Grecia (e anche all’Italia, pur ammettendo che alcune di queste riforme strutturali sono state promulgate, ad esempio il Jobs Act).
Il refrain di tali politiche riguarda in particolare la necessità di deregolamentare il mercato del lavoro. Secondo la Commissione europea (ma anche secondo la BCE), l’incremento di flessibilità del lavoro (soprattutto in uscita, grazie alla liberalizzazione dei licenziamenti e l’uso di contratti precari) avrebbe effetti benefici sulla produttività e quindi sulla crescita economica.
In realtà, si tratta, ancora una volta, di una “credenza” (questa volta senza errori grossolani) che non ha nessuna giustificazione economica ma solo politica (come abbiamo già argomentato). L’Italia da questo punto di vista è un caso eclatante. Numerosi studi confermano che è vero l’opposto: l’eccesso di precarizzazione del lavoro è la prima causa della scarsa produttività in Italia e anche della bassa propensione a investire in nuove tecnologie.
Il testo di Thomas Fazi e Guido Iodice, La battaglia contro l’Europa discute nei primi due capitoli le origini delle politiche di austerity e la richiesta ossessiva di riforme strutturali per mostrare come tali politiche non abbiamo alcun presupposto di verità economica.
Con un linguaggio, semplice, lineare e chiaro i due autori (che da tempo discutono dei reali motivi che spiegano la grande recessione post 2008) mostrano in modo molto convincente come l’adozione di tali politiche non hanno lo scopo di raggiungere gli obiettivi economici dichiarati ma piuttosto quello di consentire alle attuali strutture di potere economico-finanziaria di riprendere saldamente in mano le redini del processo di accumulazione che la crisi finanziaria globale aveva temporaneamente incrinato.
Allo stesso tempo, si vuole nascondere le vere ragioni della crisi economica: la strutturale instabilità macroeconomica, generata dal biopotere dei mercati finanziari e l’eccessiva iniquità della distribuzione del reddito. In altre parole: la lotta di classe dall’altro contro i poveri, per dirla con Luciano Gallino (perché, nonostante quel che i nostri governanti europei si ostinano a raccontare, «la lotta di classe esiste da venti anni e la mia classe l’ha vinta», per dirla con il multimiliardario americano Warren Buffett) ha rischiato di mettere in crisi lo stesso sistema capitalistico: è infatti la recessione economica più lunga degli ultimi 100 anni (almeno per quanto riguarda l’Italia e l’Europa) che ha causato l’incremento del debito (e non viceversa).
Quale fuoriuscita?
Nel terzo e conclusivo capitolo, Fazi e Iodice provano a delineare una via di fuga dalla condizione presente. In primo luogo, i due autori non «vedono l’uscita dall’euro come una conditio sine qua non per uscire dalla crisi e rilanciare la crescita e l’occupazione nei paesi della periferia europea» (p. 160). Il ritorno alla sovranità monetaria, infatti, in un mondo fortemente globalizzato, soprattutto dal lato valutario e finanziario, non consente di raggiungere una piena autonomia economica in grado di perseguire interessi diversi. Parimenti, gli autori criticano anche la posizione opposta: «quella di chi ritiene che per risolvere la crisi dell’euro occorra fare gli “Stati Uniti d’Europa”» (p. 162). L’ida è auspicabile, ma «nelle attuali circostanze… quando si parla di “cessione di sovranità”, di “unione fiscale”, di “Tesoro europeo”… non si sta parlando di creare uno Stato federale, ma di sottoporre in modo ancor più stringente gli Stati alla disciplina fiscale tedesca» (p. 162).
La terza via proposta è quella invece di ricominciare daccapo il processo costituente dando maggior spazio di manovra agli Stati. «Non ci vuole più Europa per salvare l’Europa e neppure per salvare l’euro. Ce ne vuole di meno» (p. 163). Tale posizione viene giustificata, da un lato, ripercorrendo le diverse fasi di crisi valutaria che l’Europa ha attraversato dalla fine di Bretton Woods, passando per la crisi dello SME (Sistema monetario europeo) del 1992, e analizzando le diverse fasi di svalutazione (che hanno sempre portato a una riduzione del potere d’acquisto dei salari); dall’altro, prendendo atto che nell’attuale congiuntura politica, l’architettura economica europea non appare riformabile, se tale riforma deve avvenire direttamene sul piano istituzionale europeo. Da qui l’esigenza di ampliare l’autonomia politica e economica degli Stati membri per favorire la nascita di modelli economici alternativi all’ordoliberismo tedesco e dei suoi alleati: «La via da seguire, nel breve termine, è quella di sfruttare le contraddizioni evidenziate dalla vicenda greca per allargare, per quanto possibile, alla luce degli equilibri attuali, le maglie della struttura esistente (in primo luogo “rinazionalizzando” la politica fiscale)… e, nel frattempo, sviluppare le condizioni per un riequilibrio dei rapporti di forza, conditio sine qua non per affrontare una riforma più ambiziosa» (p. 197).
Autonomia della politica fiscale significa ritornare a Keynes (autore, non a caso, ampiamente citato nel testo) e in particolare alle politiche di deficit spending come condizione preliminare per aumentare la domanda aggregata via spesa pubblica. Perché tale autonomia possa concretizzarsi la sinistra deve puntare a “meno Europa”. Nel paragrafo intitolato “Elogio della spesa pubblica”, il pensiero keynesiano della domanda effettiva viene correttamente ricordato nei suoi passaggi principali: un aumento della spesa pubblica, non a pioggia, né finalizzata a creare effetti di “spiazzamento” degli investimenti privati ma a favorire l’innovazione tecnologica (sul modello dello Stato innovatore di Mariana Mazzucato), crea un aumento del PIL più che proporzionale, via moltiplicatore del reddito, e quindi, allo stesso tempo, via incremento della tassazione, genera le premesse per il suo finanziamento.
Tale politica fiscale abbisogna del supporto di una doppia politica: una “banca centrale amica dello Stato” (p. 233) e una “centralizzazione della politica salariale” (p. 227). In tale contesto è, secondo gli autori, possibile pensare lo “Stato come occupatore di ultima istanza” (p. 237), così come la Banca centrale europea (se le fosse consentito) dovrebbe svolgere il ruolo di “creditore di ultima istanza”.
In questo contesto, la proposta recente di un quantitative easing for the people può essere utile, se declinata come strumento in grado di favorire la ripresa di una politica fiscale e sociale nazionale.
La finalità è quella di creare più lavoro e reddito e in tal modo favorire la fuoriuscita dall’attuale stagnazione economica, oggi assecondata dalle politiche di contenimento della spesa pubblica e dalla deregulation del mercato del lavoro.
Dentro questo quadro programmatico, le proposte di reddito di cittadinanza e di reddito minimo garantito vengono considerate fuorvianti e sussumibili da una logica liberista. Rimanendo all’interno di una logica lavorista, i due autori ritengono infatti con Keynes che ogni trasferimento monetario diretto è uno “spreco” (p. 243). «Se un lavoratore può accedere a un emolumento da parte dello Stato… è evidente che riterrà accettabile “lavoretti” temporanei malpagati» (p. 243). Questa frase ci illumina. Sembra che gli autori non si rendano conto che siamo già non solo all’epoca della generalizzazione dei “lavoretti” (leggasi precarietà esistenziale, strutturale) ma sulla nuova frontiera del lavoro gratuito. E che quindi la riduzione del ricatto dal bisogno, grazie a una garanzia di reddito, pur minimo, indipendente dal lavoro, possa invece sortire l’effetto contrario, quello di poter rifiutare “lavoretti temporanei malpagati”. Già, il rifiuto del lavoro!
Così, come nulla o poco ci viene detto riguardo ai nuovi processi di valorizzazione cognitiva, relazionale e bioeconomica: sembra che il paradigma fordista, pur nelle differenze dell’oggi, continui tranquillamente a persistere. L’idea di valorizzazione economica e di reddito infatti che traspare non tiene conto delle mutate condizioni tecnologiche e lavorative, che hanno profondamente inciso sulla forma qualitativa e quantitativa dello sfruttamento e dei processi di sussunzione del lavoro al capitale. La messa al lavoro e a valore della vita nell’era digitale (sussunzione vitale) definisce un nuovo paradigma di sfruttamento, da cui originano le nuove forme di valorizzazione che traggono linfa dall’espropriazione della cooperazione sociale e del general intellect: quello del tempo di vita produttivo non certificato né considerato come tempo di lavoro produttivo. Da qui nasce la concezione del reddito di base come reddito incondizionato primario, che nulla ha a che fare con l’idea di assistenza passiva di keynesiana memoria.
Qui sta il punto: se non si analizza la nuova composizione del lavoro vivo dell’oggi, qualunque proposta rischia di essere sovradeterminata. E qui sta anche la constatazione che non sono sufficienti sviluppare nuove forme/idee di rappresentanza in grado di modificare l’architettura tecnocratica di oggi o dall’interno dell’Europa o tramite il potenziamento delle autonomie nazionali su base fiscale (comunque all’interno dell’euro) se, contemporaneamente, non si sperimentano tentativi di autonomia monetaria e finanziaria, fondata su monete del comune in grado di costituire e fluidificare circuiti di autoproduzione sociale di valore d’uso: monete alternative per produzioni alternative.
Qui crediamo stia la sfida per il futuro. Dentro l’Europa ma contro questa Europa.
Pubblicato su Effimera il 4 maggio 2016.