di Maurizio Sgroi
Ripenso a un paper recente dell’FMI dove si indica l’effetto diretto della liberalizzazione dei capitali sull’aumento della disuguaglianza globale mentre ne leggo un altro, stavolta BCE dal titolo suggestivo: Cables, Sharks and Servers – Technology and the Geography of the Foreign Exchange Market. E improvvisamente capisco che le due cose sono intimamente collegate. La liberalizzazione dei conti capitali di molti paesi, che significa che i loro residenti possono far fluire dove vogliono i propri denari, sarebbe stata di sicuro meno dirompente, e la disuguaglianza altresì, se i paesi non avessero potuto godere di una storica rivoluzione tecnologica che però sarebbe stata inutile se non ci fosse stata un’infrastruttura capace di supportarla.
Mi rendo conto che è ovvio, così come mi accorgo che però è un’evidenza alquanto trascurata. Tutto oggi dicono che la disuguaglianza è esplosa anche per la liberalizzazione dei capitali, ma pochi notano quanto la tecnologia abbia pesato in questo processo secolare di redistribuzione del reddito e dei patrimoni. E non solo per gli evidenti effetti che può provocare sui posti di lavoro, ma per il semplice fatto che favorisce – facilitandola – quella transumanza di capitali che, per ipotesi dell’FMI, è una delle cause dello striminzirsi della labor share.
Sicché decido di immergermi anch’io lungo la rete sottomarina di cavi che già da più un secolo ha iniziato a collegare i paesi consentendo loro – prima alla velocità del telefono, oggi di internet – di scambiarsi dati, quindi informazioni, quindi ordini di acquisto e vendita di prodotti finanziari.
Scopro un’altra evidenza anch’essa però ignorata: «La tecnologia ha importanti implicazioni economiche, riduce le frizioni spaziali fino all’80% e aumenta, in termini netti, la quota di trading offshore del 21%». E non solo: «La tecnologia ha anche effetti economici importanti per la distribuzione delle transazioni finanziarie nel mercato dei cambi fra i vari centri finanziari, facendo crescere la quota del turnover globale nel mercato di Londra, la più grande sede di negoziazione, di quasi un terzo».
E scopro anche un’altra cosa: «Il mercato dei cambi è stato trasformato sin dal finire degli anni ’80 con l’avvento del broking e del trading elettronici, potendo contare su tecnologie dell’informazione meno costose e più efficienti. Oggi il trading elettronico domina i mercati dei cambi». La liberalizzazione dei capitali, insomma, ha proceduto impetuosamente sotto gli oceani.
E torniamo a Londra. Sarà pure un caso, ma furono proprio gli inglesi a tendere il primo cavo sottomarino nella metà del XIX secolo. Un caso di spiazzamento competitivo che ancora paga. Laggiù, nelle profondità remote degli oceani, chilometri di cavi sottomarini veicolano ad alta velocità informazioni più preziose dell’oro per la semplice circostanza che sono queste informazioni a fare i prezzi. L’undernet sottomarino, chiamiamolo così, assai meno noto dell’internet, croce e delizia dei nostri giorni, è stato edificato silenziosamente e da almeno un ventennio è diventato uno straordinario punto di riferimento dello sviluppo finanziario. Potremmo dire anzi che rappresenta i binari lungo i quali il capitalismo del XXI secolo svolge i suoi esiti, che sono diseguali, come è stato più volte ripetuto, e anche misteriosi.
I cantori delle magnifiche sorti e progressive dello sviluppo tecnologico, coloro i quali guardano solo le luci di tale evoluzione perché, ignorandole, sperano di cancellarne le ombre, dicono che è proprio grazie a questa tecnologia che la finanza si è democratizzata. Che si è resa perciò capace di far piovere ricchezza su tutti, anche sui più svantaggiati.
Altri, forse più avveduti, fanno notare che, al contrario, tutto ciò che abbiamo ottenuto dall’impressionante sviluppo tecnologico, che nell’undernet trova la sua ennesima applicazione infrastrutturale, è che abbiamo alimentato un gigantesco ragno. Una creatura ctonia, che vive al centro di questa ragnatela, impersonata da poche e potenti corporation per lo più ignote al grande pubblico, che dalla finanza traggono assai più di quanto potranno mai fare altri per la semplice circostanza che “sono” il mostro.
Si confrontano insomma due visioni che un recente paper della BCE, dedicato al mercato dei cambi, descrive molto bene. La prima, chiamata “flat world hypothesis” teorizza che la distanza dai centri finanziari – in sostanza la geografia – non ha più importanza in un mercato che gira 24 ore al giorno. La seconda, la “flash boys hypothesis”, ispirata da un celebre libro di Lewis, giudica invece che la geografica conta eccome, tanto più nel mercato dei cambi del XXI secolo, caratterizzato dalla competizione fra high frequency traders per i quali il millisecondo ha un valore economico rilevante. In questa visione, le transazioni sul mercato dei cambi si vanno concentrando «in una manciata di posti», quelli che «possiedono i server di data-matching e delle infrastrutture ad alta velocità per le comunicazioni».
Per provare a vedere quale teoria descriva meglio la realtà, gli studiosi della BCE hanno osservato come lo sviluppo della rete sottomarina dei cavi, quella che abbiamo chiamato undernet, abbia impattato sulla distribuzione delle transazioni sul mercato dei cambi. Questa rete, edificata per migliorare in origine le comunicazioni telegrafiche, telefoniche e poi dell’internet, si è scoperta assai utile come veicolo per il trading elettronico nel mercato dei cambi e di altri strumenti finanziari. E poiché la fisionomia del network sottomarino è notevolmente influenzato dalla geografia – è più facile posare un cavo oceanico da un paese che ha l’oceano a portata di mano – ecco che questa rete sottomarina è ragionevole ipotizzare abbia influenzato lo sviluppo di posizioni competitive di alcuni paesi piuttosto che altri.
Un esempio conferma questa ipotesi. Negli anni ’90 i dati del mercato valutario di Zurigo e di Singapore mostravano che quest’ultimo aveva circa il 60% in più di transazioni offshore. Oggi il mercato asiatico è quasi due volte più grande di quello svizzero. Cosa è successo nel frattempo? Singapore è diventato un hub di cavi sottomarini, mentre la Svizzera, che è lontana dal mare, no.
E sarà pure un caso, ma i centri di trading più importanti nel mercato dei cambi si sono localizzati sostanzialmente in tre città: Londra, Tokyo e New York. «In queste città – spiega la BCE – sono stati localizzati i server dell’Electronic Broking Services (EBS) e della Thomson Reuters fin dal 1990. Ne segue che la connessione di un paese con l’UK, gli USA e il Giappone, riduce i tempi di latenza e aumenta la larghezza di banda». E questo genera vantaggi evidenti, sia di costo che di ricavo, specie nell’ipotesi “flash boys”.
Insomma, devi essere collegato al ragno se vuoi avere i vantaggi della ragnatela. Ma si sa come si comportano i ragni con i loro ospiti.
Pubblicato sul blog dell’autore (in due puntate, qui e qui) il 28 aprile e 5 maggio 2016.