di Thomas Fazi e Guido Iodice
Sembrerebbe che stia emergendo un consenso, anche in ambito mainstream, sul fatto che la via d’uscita dalla crisi passa necessariamente per una politica fiscale più espansiva e per un consistente aumento degli investimenti pubblici. Come perseguire tale obiettivo alla luce degli attuali vincoli politici e istituzionali dell’eurozona, però? Come abbiamo spiegato in passato, riteniamo che le proposte “federali” attualmente in discussione a livello europeo – come quella di “superministro del Tesoro” europeo che assorbirebbe i residui di autonomia degli Stati nella gestione dei bilanci, senza prevedere come contropartita alcun bilancio federale – rappresenterebbero il passo finale nella trasformazione definitiva dell’eurozona in una gabbia ordoliberale basata su un sistema di regole ferree e inflessibili, e per questo vadano rigettate con forza (insieme a qualunque altro approfondimento del processo di integrazione). Tra l’altro, la difficoltà di implementare un qualsivoglia “piano di investimenti paneuropeo” (per quanto auspicabile in teoria) è dimostrata dal conclamato fallimento del cosiddetto piano Juncker, recentemente bocciato dall’OCSE per le scarsissime risorse mobilitate finora. Fortunatamente, la reazione del governo italiano a questa proposta è stata finora molto tiepida. Adesso però occorre imboccare con decisione la direzione opposta a quella del “più Europa”. Le “cessioni di sovranità” accordate negli ultimi anni all’Unione europea stanno avendo l’effetto di dividere l’Unione, invece che consolidarla, regalando ai paesi più forti ulteriori vantaggi egemonici sia in termini economici che politici.
Chi ha a cuore l’Europa, quindi, dovrebbe proporre una ricetta opposta, quella di una cessione di sovranità verso il basso, dall’Unione verso gli Stati. Vale a dire “rinazionalizzare” la politica fiscale, permettendo ai paesi in crisi – in primo luogo quelli della periferia – di far salire il loro deficit pubblico. Questa è la soluzione caldeggiata, tra gli altri, da Richard Koo, capo economista del Nomura Research Institute, noto soprattutto per la sua teoria della balance sheet recession, o ‘recessione da deterioramento dello stato patrimoniale’, diversa dalla recessione ordinaria. Per balance sheet recession si intende quel fenomeno che si verifica in seguito allo scoppio di una bolla speculativa, quando imprese e privati, avendo accumulato una grande quantità di debiti nel periodo antecedente alla crisi, si concentrano nel riparare la loro situazione patrimoniale danneggiata anziché nel massimizzare i profitti, rifiutando quindi di assumere altro indebitamento per investimenti o spese, anche in presenza di condizioni diventate favorevolissime (tassi zero). Questo è esattamente quanto è successo in seguito allo scoppio della crisi dei subprime, sia negli USA che in Europa. In questa situazione, solo lo Stato può intervenire per rilanciare l’economia, prendendo a prestito e investendo, mentre la politica monetaria rivela tutti i suoi limiti. «Gli Stati Uniti questo l’hanno capito molto bene», spiega Koo:
Subito dopo la crisi il governo USA ha fatto ricorso, e in maniera piuttosto massiccia, alla spesa pubblica in deficit. Ossia alla politica fiscale. È questo che ha permesso la ripresa economica e non, come molti pensano, la politica monetaria della Fed, ossia il quantitative easing… L’Europa ha fatto l’esatto opposto degli Stati Uniti. E questo perché non ha compreso la natura della balance sheet recession che stava attraversando. In un momento in cui il settore privato era impegnato a ridurre i propri debiti, non solo gli Stati dell’eurozona non hanno aumentato i loro deficit, come avrebbero dovuto, ma li hanno addirittura ridotti. Questo è precisamente quello che non si deve fare in una balance sheet recession: se il settore privato e quello pubblico cercano di ridurre i loro debiti allo stesso tempo, il risultato è inevitabilmente una recessione, come abbiamo visto.
In sostanza, la teoria della balance sheet recession si basa sull’idea che il deficit ottimale di uno Stato dipenda dal tasso di risparmio del settore privato, e che dunque non ha nessun senso, da un punto di vista economico, stabilire un limite arbitrario al rapporto deficit-PIL che può avere uno Stato. «La distorsione chiave per l’Europa viene da questa regola del 3 per cento, che rende impossibile all’Europa gestire le balance sheet recession», dice Koo. Che molti paesi europei siano sostanzialmente in balance sheet recession è dimostrato dal fatto che il settore privato, negli ultimi anni, ha aumentato molto il risparmio – comprendendo la riduzione del debito – nonostante i tassi di interesse ai minimi storici. «Se guardiamo a paesi come la Spagna, l’Italia, l’Irlanda, il Portogallo e persino il Regno Unito, vediamo che il risparmio del settore privato eccede il deficit di bilancio (l’eccezione qui è solo la Grecia)», spiega Koo. «Si pone un’attenzione enorme al deficit pubblico, ma se il settore privato sta risparmiando di più, il deficit pubblico in realtà si rivela troppo piccolo per stimolare queste economie».
Prendiamo un paese come l’Italia, in cui il settore privato registra un surplus del 6 per cento circa (dati del 2015). In questi casi limitare il deficit pubblico al 3 per cento – o addirittura ridurlo ulteriormente, come prevede il fiscal compact – vuol dire privare l’economia di un 3 per cento del PIL ogni anno, o peggio. «Il risultato», dice Koo, «è inevitabilmente la recessione e la disoccupazione di massa». Negli altri paesi la situazione è ancora peggiore: Spagna e Portogallo presentano un tasso di risparmio del 7 per cento, mentre in Irlanda si arriva addirittura oltre il 10 per cento.
Secondo Koo, quello che l’eurozona dovrebbe fare – su pressione dei paesi periferici – è incaricare subito una commissione di esperti di valutare quali sono quei paesi che sono in balance sheet recession e permettergli di far salire il loro livello di deficit pubblico ai livelli necessari. Nel caso dell’Italia il deficit dovrebbe essere almeno il doppio di quello attuale, per eguagliare il surplus del settore privato. Questo non avrebbe alcun costo per paesi come la Germania perché in Italia (ma lo stesso vale anche per altri paesi della periferia) la liquidità attualmente inutilizzata del settore privato sarebbe più che sufficiente a finanziare l’incremento del deficit. Il settore privato coglierebbe al volo la possibilità di poter parcheggiare i propri risparmi in titoli di Stato, che rappresentano un investimento sicuro e dal rendimento garantito. Il problema semmai è un altro: assicurarsi che una parte consistente del risparmio di un paese “debole” resti in quel paese anziché finire in bund. La maniera più semplice suggerita da Koo per ottenere questo obiettivo sarebbe di rinazionalizzare il mercato dei titoli di Stato, proibendo ai residenti di un certo Stato membro di acquistare i titoli di debito pubblico di altri Stati. Una versione più soft di questa regola consisterebbe nell’assegnare un risk weight (‘peso di rischio’) diverso ai titoli nazionali e a quelli esteri, per incentivare i residenti a investire nei primi. La proposta di Koo, sia nella sua versione “hard” che in quella “soft”, si scontra con uno dei pilastri del mercato unico europeo: vale a dire la libertà di movimento dei capitali. A ben vedere, tuttavia, questo principio generale è già stato violato nei casi di Cipro e della Grecia, che hanno introdotto controlli sui movimenti di capitali al fine di non dover abbandonare l’euro a causa del cospicuo deflusso dei capitali verso lidi più sicuri. Inoltre, vale la pena di notare che questa proposta è esattamente speculare a quella avanzata da Germania e Olanda circa un tetto ai titoli di stato in mano alle banche.
Assumendo l’ipotesi di Koo riguardo la grandezza del deficit ottimale, rimane da decidere la sua composizione. Una possibile regola pratica, spesso citata nella letteratura keynesiana, è quella della “golden rule”, secondo cui la spesa corrente deve essere in equilibrio con gli introiti fiscali, mentre la spesa per investimenti può essere fatta in deficit. Nella situazione attuale dell’eurozona, tuttavia, l’applicazione rigida di questa regola significherebbe nei paesi più colpiti dalla crisi l’aumento dell’imposizione fiscale oppure la riduzione delle prestazioni sociali, con effetti devastanti sul piano economico e sociale. Pertanto, nella situazione transitoria, deve essere consentito l’utilizzo del deficit in parte per finanziare la spesa sociale. Al netto di ciò, tuttavia, l’intero deficit aggiuntivo consentito dalla ipotesi di Koo dovrebbe essere destinato agli investimenti pubblici. Una regola pratica in tal senso può configurarsi in questo modo: la Commissione europea continua a mantenere gli attuali criteri di sostenibilità delle finanze pubbliche (a tal proposito vale la pena ricordare che il governo italiano ha intrapreso una azione tesa ad emendare il metodo di calcolo dell’output gap adottato dalla Commissione europea) ma agli Stati è consentito aggiungere al deficit così calcolato una ulteriore quota destinata esclusivamente agli investimenti pubblici o al finanziamento (parzialmente a fondo perduto) di progetti di investimento dei privati, fino al raggiungimento del deficit previsto dal criterio di Koo. Il motivo per cui il deficit aggiuntivo non deve essere destinato ai trasferimenti ma agli investimenti è duplice: in primo luogo, questi ultimi presentano moltiplicatori elevati, tali da poter essere definiti self-financing (come riconosce anche l’FMI) attraverso la riduzione del debito pubblico; in secondo luogo, gli investimenti non rappresentano solo domanda aggiuntiva, ma anche una modificazione dell’offerta, migliorando il “capitale infrastrutturale” e stimolando gli investimenti privati (è sempre l’FMI a sostenerlo).
Ma c’è anche un altro canale attraverso il quale gli investimenti pubblici possono migliorare in modo sostanziale le performance economiche di un paese e contribuire a “ripagarsi da sole”: la riduzione del deficit estero attraverso una strategia di sostituzione delle importazioni. Sebbene le regole del single market impediscano pratiche discriminatorie e protezionistiche, rimangono ampi margini di intervento discrezionale da parte degli Stati che possono essere sfruttate senza danneggiare direttamente i paesi partner dell’eurozona e dell’UE. A titolo di esempio, investimenti nelle energie rinnovabili possono ridurre la dipendenza energetica dall’estero, sebbene inizialmente possono produrre un aumento di importazioni di componenti per gli impianti produttivi, mentre investimenti nel software open source possono ridurre la dipendenza tecnologica, sviluppare un’industria locale di software e servizi correlati, e infine ridurre nel lungo periodo la stessa spesa dovuta alle licenze e agli aggiornamenti.
Gli effetti sull’offerta degli investimenti pubblici sono particolarmente benvenuti in relazione alla necessità di stimolare l’output dei singoli paesi e il miglioramento dei conti con l’estero senza essere costretti a comprimere la domanda interna attraverso politiche di consolidamento fiscale. Gli investimenti pubblici in infrastrutture, con tutta probabilità, incontreranno più facilmente l’offerta da parte di imprese nazionali nella maggioranza dei casi. Delle politiche di sostituzione delle importazioni si è già detto. Una politica di deficit pubblico orientata in prevalenza allo stimolo dei consumi, rischia invece di aumentare le importazioni piuttosto che aumentare l’output nazionale. È questo probabilmente il caso dell’Italia con il bonus fiscale (i cosiddetti “80 euro”) a partire dal maggio 2014. L’Italia ha infatti visto crescere le sue importazioni più dei partner europei che hanno conosciuto riprese più robuste di quelle dell’Italia.
Questo piano, inoltre, richiede che i titoli di stato siano effettivamente un asset a zero rischi. Per farlo è necessario un salto di qualità della BCE. Il fatto che gli spread tra centro e periferia continuino ad essere sostanzialmente maggiori del periodo pre-crisi (pur a fronte di uno stimolo monetario senza precedenti) e che la Grecia (esclusa dal QE e oggetto di un programma di salvataggio) venga ancora considerata dai mercati a rischio di uscita dall’euro, dimostra che l’OMT e il quantitative easing, proprio in quanto misure di emergenza, potrebbero non essere sufficienti a garantire la permanenza di tutti i membri nell’area euro in caso di nuovi shock. Serve quindi uno strumento permanente che assicuri i mercati circa la “fungibilità della moneta”. I titoli di Stato rappresentano la “materia prima” attraverso la quale la BCE crea moneta e, contemporaneamente, rappresentato l’asset più sicuro su cui le banche possono fare conto, a parte le riserve. Al fine di assicurare la stabilità del sistema finanziario è quindi necessaria una forma di garanzia dei debiti sovrani da parte della BCE. Questa forma di garanzia è inoltre cruciale in una unione monetaria decentralizzata immaginata in questo articolo, poiché gli Stati devono essere sottratti dal giudizio dei mercati circa la loro solvibilità o la loro permanenza nell’unione monetaria. D’altra parte garantire i debiti sovrani significa, in ultima analisi, garantire l’irrevocabilità dell’euro stesso. Questa garanzia può prendere una forma molto semplice, in pieno accordo con il vigente statuto della BCE e i trattati. Essa potrebbe essere annunciata in modo simile al programma OMT:
La Banca centrale europea è stata istituita per assicurare l’esistenza stessa della moneta unica. L’esperienza ha dimostrato che i differenziali tra i tassi di interesse sui debiti sovrani nell’eurozona costituisce un fattore di frammentazione e di potenziale pericolo di rottura dell’area euro. Pertanto, nell’abito del suo mandato, la BCE farà tutto quanto è necessario al fine di contenere i differenziali dei tassi di interesse entro i 30 punti base per tutti i membri dell’eurozona.
Un annuncio di questo genere metterebbe al riparo l’eurozona dalla deflagrazione in modo permanente e inoltre ridurrebbe i tassi di interesse a lungo termine più di quanto il QE è riuscito a fare, assicurando così agli Stati membri finanziamenti a basso costo anche dopo la fine del programma di quantitative easing. L’obiettivo di contenimento degli spread (che ipotizziamo a 30 punti base sulla base dei differenziali pre-crisi) non può essere considerata un’agevolazione, né un finanziamento diretto verso gli Stati, almeno non più di quanto lo sia già il quantitative easing. Si potrebbe sollevare l’obiezione che, in questo modo, la BCE si assumerebbe grossi rischi acquistando titoli di paesi potenzialmente insolventi. Questo è irrilevante per due motivi: in primo luogo, così come accaduto con l’annuncio dell’OMT, è probabile che la BCE non debba mettere effettivamente in atto un ulteriore acquisto di titoli rischiosi per ottenere il risultato. L’annuncio, di per sé, indurrebbe i mercati a portare i tassi di interesse verso il differenziale di 30 punti base. In secondo luogo, la BCE non può fallire; come sottolinea un recente rapporto della stessa BCE:
Le banche centrali sono protette dall’insolvenza grazie alla loro capacità di emettere monetare, il che significa che possono anche operare con capitale negativo.
A ben vedere, per quanto detto prima, la BCE ha un solo modo per fallire: lasciare che un paese esca dall’euro innescando un effetto domino che distruggerebbe la moneta unica.