di Maurizio Ricci
Scavalcare i sindacati, fermare i salari per rilanciare la competitività, salvaguardare i profitti per garantire gli investimenti. Dagli anni ‘80, queste parole d’ordine sono state ripetute tanto spesso da essere diventate un mantra che si è radicato non solo nelle teste di economisti, politici, giornalisti, ma anche nel senso comune. Tuttavia, il pendolo della storia oscilla, tanto più se di mezzo c’è una Grande Crisi come quella del 2008. Dire che la ricostruzione della sinistra passa dal rovesciamento di quelle parole d’ordine sarebbe velleitario. Anche perché a farle traballare non sono i bollettini della IV Internazionale, e neanche i movimenti del 99 per cento o intellettuali radicali come Thomas Piketty. Per capire che l’aria che tira non è più la stessa è assai più istruttivo fare un giro per le cattedrali dell’ortodossia economica e finanziaria. Eccolo.
L’idea che in una società ineguale ci siano più stimoli all’attività economica è un punto chiave del pensiero conservatore. Ci pensano i sovversivi del Fondo monetario internazionale a smantellarla: l’ineguaglianza compromette la crescita. E, sorpresa, il sistema che storicamente si è dimostrato, in questo, più efficace sono i sindacati. D’altra parte, spiega il Financial Times, la bibbia della City, i sindacati appaiono anche come lo strumento principale per arginare e controllare l’impatto dell’automazione su occupazione e salari.
E gli stessi salari sono la chiave per uscire dalla stagnazione in cui è l’economia mondiale. Per uscire dalla recessione e dalla deflazione, bisogna rilanciare keynesianamente la domanda e la via più rapida sono i consumi. Ed ecco che la crescita salariale diventa il termometro della salute dell’economia, anche per le fortezze dell’ortodossia, come le banche centrali. È l’indicatore che la Fed segue con la maggiore apprensione, ma non è un’anomalia americana. Secondo l’FMI, vale ancor più per il Giappone. E la crescita dei salari viene attesa e celebrata anche da Draghi e finanche dal boss della Bundesbank, Weidmann.
Contemporaneamente, il sospetto si addensa sui profitti. Troppo pingui per essere sani, avverte l’Economist. «Il gioco è truccato?», si chiede il campione storico del liberismo economico: cosa è che tiene a freno i concorrenti? I protagonisti della nuova economia, gli eroi del boom del web non sembrano affatto meglio dei loro predecessori: «Le grandi piattaforme online come Google e Facebook vanno controllate da vicino», continua il settimanale, benedicendo in anticipo l’inchiesta antitrust europea. Non sarà che «maneggiare i dati sul comportamento dei consumatori sta diventando così prezioso da consentire alle aziende dominanti di liberarsi della concorrenza»? Il dubbio, ormai, lo esprime anche un documento ufficiale della Casa Bianca.
Gli economisti di Obama documentano «una crescita sconcertante nelle concentrazioni sul mercato, una caduta nella creazione di nuove imprese in parecchi settori e una concomitante ascesa della capacità di creare profitti da parte delle aziende più redditizie, ben al di là di quanto sarebbe sostenibile, se i mercati fossero effettivamente concorrenziali». Non è solo questione di equità, avverte il Financial Times. Queste posizioni troppo confortevoli potrebbero essere all’origine del basso tasso di investimenti e della produttività stagnante. Monopoli e rendite di posizione, giudica severamente il principale commentatore economico del bastione della destra americana, il Wall Street Journal, stanno incrostando l’economia. Negli ultimi 15 anni, le 50 maggiori aziende americane hanno ulteriormente allargato le loro quote di mercato. Per approvvigionarsi di capitali, queste aziende spendono molto meno di quanto non restituiscano in dividendo ai loro azionisti. Brutto segno. Quando per i capitalisti i tempi sono troppo grassi, avvertono all’unisono Financial Times e Wall Street Journal, vuol dire che il capitalismo non funziona. Piketty non saprebbe dirlo meglio.
Pubblicato su Repubblica il 23 aprile 2016.