di Andrea Ventura
Il 13 dicembre 1978, alla Camera dei deputati, Giorgio Napolitano annuncia il voto contrario del Partito Comunista all’adesione dell’Italia al Sistema monetario europeo (SME). Quel sistema, osserva Napolitano, non risolve il conflitto tra le necessità dei paesi più deboli e le garanzie che vuole la Germania, il più forte, tra lo sviluppo del Mezzogiorno italiano e i vincoli monetari che impone. «Si mette il carro davanti ai buoi», nota Napolitano, quando si costruiscono accordi monetari in sostituzione di accordi «sul ritmo e la qualità dello sviluppo». Lo SME, primo passo del progetto che approderà all’euro, entra in vigore il 13 marzo 1979; il cosiddetto “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, con cui si vieta il finanziamento monetario del debito pubblico (altro cardine della costituzione monetaria europea), è del 1981. Quegli anni furono peraltro segnati dall’assassinio di Aldo Moro, dal fallimento del tentativo d’inserimento dei comunisti tra le forze di governo, dalla sconfitta sindacale alla FIAT, e a livello internazionale dall’affermazione della Thatcher in Inghilterra e di Reagan negli Stati Uniti. Seguono, negli anni novanta, la globalizzazione commerciale e la deregolamentazione finanziaria: con esse i lavoratori dell’occidente sono posti in concorrenza con quelli sottopagati e privi di tutele dei paesi più poveri. Il quadro è netto; quegli anni hanno segnato un radicale cambiamento nella gestione delle economie di tutto l’occidente: dal keynesismo al neoliberismo.
Il neoliberismo può essere compreso sia dai suoi contenuti, sia dalle sue applicazioni. Riguardo ai primi, com’è noto, il presupposto è che il mercato e le scelte individuali debbano prevalere sulla politica. Se nel sistema keynesiano, nelle parole di Roosevelt, non vi è libertà se manca la libertà dal bisogno, l’unica libertà che il neoliberismo riconosce è quella economica. Meno noto è che entusiasti delle idee di Hayek e Friedman furono i peggiori dittatori dell’America Latina. Dal Cile di Pinochet all’Argentina di Videla, le politiche economiche di quei regimi, infatti, furono direttamente ispirate al neoliberismo. Distruzione dei sindacati, eliminazione dei sostegni sociali e privatizzazioni vanno dunque viste come la realizzazione del loro presupposto: l’isolamento dei singoli nei rapporti di mercato. Milton Friedman, lo ricordiamo, nel 1975 volò a Santiago e fu accolto cordialmente da Pinochet, avido dei suoi suggerimenti. L’America Latina, che negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso aveva un tenore di vita paragonabile a quello dei paesi più avanzati, nel giro di vent’anni, travolta da colpi di Stato e politiche neoliberiste, crolla e si avvicina ai paesi più poveri del mondo. Friedman, che diede i suoi suggerimenti anche alla Thatcher, si giustificò affermando che, così come un medico può offrire cure mediche in un ospedale cileno, non vi è nulla di male a consigliare a Pinochet ricette di politica economica. È questa, in sostanza, la tesi dei teorici neoliberisti: le loro proposte costituiscono la neutrale applicazione delle leggi del mercato; se si comprende a fondo la natura di tali leggi, seguono alcuni suggerimenti tecnici validi indipendentemente dalle opinioni che si possono avere su democrazia, diritti, giustizia sociale. Anzi, queste ultime sono a rischio se si contrappongono al mercato.
La costituzione europea è il frutto di un percorso che, nella sostanza, come aveva chiaro Napolitano, risente da un lato della volontà egemonica della Germania, dall’altro del predominio della teoria economica dominante. In questo percorso le idee fondamentali del neoliberismo hanno trovato espressione nei trattati europei e a livello costituzionale. Così, se negli Stati Uniti un governo può modificare gli indirizzi di fondo della politica economica, in Europa questo richiederebbe un processo assai accidentato: certo, i trattati possono essere modificati, ma con il consenso di tutti e non da maggioranze parlamentari.
Più Europa per uscire dalla crisi, o ritorno alle sovranità nazionali per ricostruire la democrazia? Oppure, come sostiene Varoufakis, «l’Europa o si democratizza o si disintegra», con gravissimi rischi per tutti? Ma su quali presupposti può avviarsi un percorso di ricostruzione della democrazia a livello europeo? Affinché sia possibile una reale inversione di tendenza, vi è l’urgenza che le forze della sinistra muovano anzitutto un’antropologia alternativa a quella dominante. Il dramma di questi decenni, infatti, non consiste solo nel dominio del neoliberismo, ma nell’affermazione quasi completa dei suoi contenuti antropologici. Senza una ricerca su questo punto, la parabola di Napolitano e delle forze della sinistra storica – che da critici si sono trasformati in supremi garanti degli attuali assetti europei – non è comprensibile. L’antropologia neoliberista, infatti, riduce il soggetto a individuo isolato sul mercato poiché considera il collettivo pericoloso. Le masse che agiscono politicamente costituiscono una minaccia perché rischiano di distruggere, nelle parole di Hayek, le conquiste della società liberale.
Analogamente, per Friedman, sindacati, stato sociale e democrazia sfociano necessariamente nel socialismo perché danno forza al collettivo e potere alla maggioranza. Tutto il pensiero liberale teme la dittatura della maggioranza e tenta di preservare il potere dei pochi eletti dalla distruttività delle masse popolari. Ma non è solo l’interesse materiale dei gruppi dominanti ad alimentare questi timori, quanto la storica sedimentazione di un’ideologia che, dal peccato originale della Bibbia all’inconscio perverso di Freud, non ha fiducia nella naturale socialità degli esseri umani. Per questo, per contenerne la forza distruttiva, il “soggetto” deve essere annullato e ridotto a macchina calcolante, per questo l’unica libertà che gli può essere concessa è quella che trova sul mercato. Così questa idea di ordine e di libertà è compatibile con l’abbattimento della democrazia, anzi lo richiede. Vicende lontane nel tempo e nello spazio, dal rovesciamento di Allende alla neutralizzazione di Tsipras, dalla distruzione dell’America Latina degli anni ’80 e ’90, al rapido declino dell’Europa odierna, trovano nel neoliberismo il nesso che le lega.
Pubblicato su Left il 10 aprile 2016.