Bruxelles – Almeno 5 miliardi di euro nel migliore dei casi, fino a 230 nel peggiore. I possibili scenari sono tanti, le variabili pure. Ma per quanto non sia possibile quantificarli con precisione, quello che è certo è che i costi della fine di Schengen sarebbero per l’Europa tutt’altro che trascurabili. A tentare di stimarli è uno studio effettuato dal servizio di ricerca del Parlamento europeo su richiesta della commissione Mercato interno e protezione dei consumatori.
Per prima cosa la ricerca individua le quattro aree che sarebbero maggiormente danneggiate dal rinascere delle frontiere interne. I primi a risentirne sarebbero i lavoratori pendolari, causando una diminuzione della mobilità del lavoro e una maggiore eterogeneità dei mercati regionali del lavoro. L’aumento dei tempi necessari per attraversare le frontiere colpirebbe però anche i settori di viaggi e turismo, portando ad una riduzione in particolare di quelli di breve durata. Nel conto dei costi del possibile non-Schengen occorre poi considerare gli effetti sul commercio: i tempi di attesa più lunghi ai confini si tradurrebbero in maggiore costo del lavoro, ma si potrebbe arrivare anche ad una riduzione del volume degli scambi e ad un aumento dei prezzi (che causerebbe un calo dei consumi). Secondo lo studio del Parlamento europeo potrebbero poi esserci ripercussioni anche sul rendimento delle obbligazioni dei governi degli Stati interessati, perché i mercati finanziari potrebbero interpretare la sospensione di Schengen come un segnale che questi Paesi non sono più impegnati a fare parte dell’Ue.
Tutti fattori che, combinati, porterebbero a ripercussioni più o meno pesanti a seconda degli scenari. L’indagine condotta per il Parlamento europeo inizia ad analizzare i possibili effetti di un quadro non troppo improbabile e cioè cosa accadrebbe con la sospensione di Schengen da parte di sette Stati membri per un periodo di due anni. La possibilità potrebbe verificarsi se il mese prossimo la Commissione dovesse valutare che la Grecia non ha ancora risolto le sue “gravi carenze” nella gestione dei confini esterni e decidesse di attivare l’articolo 26 del Codice frontiere Schengen che consente appunto la reintroduzione dei controlli alle frontiere fino a due anni. In questo caso, se sette diversi Stati membri cogliessero questa opportunità, stima lo studio, l’impatto economico complessivo potrebbe essere di circa 5 miliardi di euro. Ad un Paese come l’Austria, ad esempio, potrebbe costare circa 560milioni i ritardi dei pendolari e altri 390 milioni i ritardi nei trasporti delle merci. Senza contare l’impatto sul turismo.
Peggio andrebbero le cose se fossero tutti gli Stati dell’area Schengen a decidere di sospendere la libera circolazione per un periodo di due anni. In questo caso, stima lo studio, si potrebbe arrivare ad un danno economico totale pari a circa 51 miliardi di euro. Circa 13 milioni al giorno si potrebbero perdere nei ritardi dei lavoratori transfrontalieri, 7 miliardi all’anno nel ritardo del trasporto delle merci all’interno dell’Ue, e questo solo considerando un ritardo medio di mezz’ora.
E se la sospensione di Schengen dovesse essere prolungata nel tempo? Anche qui dipende dal numero di Stati coinvolti. Se a reintrodurre le frontiere interne per un decennio fossero i soliti 7 Stati membri, il costo potrebbe arrivare fino a 240 miliardi: 70 miliardi in perdite di Pil per i Paesi coinvolti e tra i 70 e i 170 miliardi in costi fiscali. Ma lo scenario di gran lunga peggiore sarebbe quello di una sospensione completa e prolungata per almeno dieci anni della libera circolazione europea. In questo caso, secondo lo studio del Parlamento europeo, i costi in termini di impatto su turismo, lavoro e commercio transfrontalieri sarebbero ingenti. Bisognerebbe poi fare i conti anche con un impatto considerevole sulla crescita dell’intera area e sugli investimenti da parte di possibili investitori. Ogni anno ci si potrebbe aspettare una perdita di Pil pari allo 0,14% per arrivare ad un costo complessivo, nel corso di dieci anni, fino a 230 miliardi di euro.