di Thomas Fazi e Guido Iodice
Un estratto dal libro “La battaglia contro l’Europa” di Thomas Fazi e Guido Iodice, in questi giorni in libreria.
Si narra che quando il ministro delle Finanze di Luigi XIV di Francia, Jean-Baptiste Colbert, chiese a un gruppo di mercanti – oggi diremmo di imprenditori –– cosa avrebbe potuto fare il governo per aiutare il commercio, uno di loro, chiamato Legendre, abbia risposto semplicemente: «Lasciateci fare». L’espressione laissez faire, che oggi in Italia traduciamo con ‘liberismo’, divenne da allora sinonimo di libertà di impresa, libero commercio e Stato minimo, contrapposta alle idee di Colbert e dei mercantilisti, che vedevano invece per lo Stato un ruolo attivo e interventista in campo economico. La vulgata vuole quindi che i liberisti siano coloro che si oppongono alle barriere doganali, alle tasse, alle regolamentazioni eccessive e, soprattutto, alla spesa pubblica. Generazioni di economisti, filosofi, politici, hanno sviluppato una dottrina secondo la quale meno lo Stato si occupa di economia, più questa sarà capace di prosperare da sola. Il ruolo del pubblico, al più, consiste nel garantire i contratti attraverso l’applicazione del codice civile e nell’occuparsi della polizia a difesa della proprietà. Eppure, a ben vedere, vi è un abisso tra la dottrina e la pratica. Un abisso che è diventato talmente evidente tra il 2007 e il 2008 da non poter essere più nascosto.
Quando la crisi scatenata dallo scoppio delle bolle immobiliari negli Stati Uniti e in Europa ha cominciato a far crollare, una dopo l’altra, banche piccole e grandi, quasi tutti coloro che fino al giorno prima avevano predicato il ritiro dello Stato dalla sfera economica si sono dovuti barcamenare per giustificare i salvataggi bancari di quegli istituti too big to fail, troppo grandi per fallire. L’Italia è stata solo marginalmente sfiorata dal fenomeno, eppure anche da noi, di fronte al possibile fallimento di Monte Paschi, i campioni del liberismo Michele Boldrin e Oscar Giannino si appellarono al governo addirittura per nazionalizzare la storica banca senese. Qualcuno, invero, cercò di tenere il punto. Quando nel settembre del 2008 il governo americano “lasciò fare” e Lehman Brothers fallì, l’economista italiano Francesco Giavazzi scrisse che quello era un bel giorno per il capitalismo. Il contagio finanziario globale che ne seguì dimostrò al di là di ogni ragionevole dubbio che Giavazzi sbagliava e che l’errore del “lasciar fare” e del permettere che una banca diventi troppo grande non può essere corretto lasciando fare ancora e permettendo che essa fallisca. In altre parole, il mercato non si ripara da solo.
Ma è l’origine stessa della crisi finanziaria del 2008 che risulta, a un’analisi meno superficiale, “liberista” e “interventista” allo stesso tempo. Dopo la fine del regime di Bretton Woods nel 1971, i paesi occidentali hanno progressivamente adottato i dettami di quello che viene chiamato neoliberismo. Seguono la liberalizzazione dei commerci, l’eliminazione di limiti ai movimenti di capitali, l’indipendenza delle banche centrali dai governi e così via. La fine dell’aggancio con l’oro e con il dollaro, lungi dal dare ai governi maggiore libertà nel gestire le politiche monetarie e fiscali, costringe a trovare una nuova “àncora” per il valore della moneta, complice l’alta inflazione degli anni Settanta provocata dalla spirale prezzi-salari innescata dall’esplosione del prezzo del petrolio. Il target inflazionistico, stabilito al 2 per cento, diviene il
dogma di ogni banchiere centrale. Gli economisti guidati da Milton Friedman si preoccupano di spiegare che non è vero quanto si era creduto fino ad allora, ovvero che perseguire la stabilità dei prezzi ha un costo in termini di occupazione, non almeno nel lungo periodo. Così, per combattere l’inflazione le banche centrali aumentano i tassi di interesse. La disoccupazione che ne consegue è il primo tassello di un processo che negli anni Ottanta porta alla drastica riduzione del potere dei sindacati in tutto il mondo occidentale. La conseguenza è che sì, l’inflazione si riduce, ma con essa anche la capacità dei lavoratori di conquistare salari più alti per godere anch’essi dei benefici dell’accresciuta produttività. Mentre quest’ultima continua a crescere, il potere d’acquisto dei lavoratori rimane indietro. Si può produrre sempre di più, ma non si ha il denaro per comprare. Cosa tiene quindi in piedi questo sistema? Perché semplicemente non si innesca quella che gli economisti chiamano “crisi da sottoconsumo”? La risposta è che i liberisti sono sempre pronti a scendere a compromessi. Ronald Reagan, che era stato eletto con l’obiettivo di ridurre il deficit pubblico, lo lascia crescere a dismisura attraverso i tagli alle tasse, la corsa agli armamenti, ma anche la spesa sociale. Sarà invece “la sinistra”, quella di Bill Clinton, a dimostrarsi più coerente con la dottrina liberista, riportando il bilancio federale addirittura in attivo dopo molti decenni di deficit. Il disavanzo del settore pubblico viene sostituito da quello del settore privato. Se i redditi da lavoro non bastano, ecco che il credito e la finanza divengono la nuova fonte di domanda autonoma. La “new economy” è la nuova corsa all’oro. Tutti comprano azioni, il casinò dei mercati finanziari diviene popolare. Quando la bolla delle dot.com scoppia, ecco pronto il suo sostituto, stavolta molto più tradizionale: la bolla immobiliare. Il debito privato diviene via via sempre più gigantesco, anche da questa parte dell’oceano, per non parlare delle cosiddette “tigri asiatiche” e del Giappone. Anche qui, il ruolo dello Stato è tutt’altro che marginale. La bolla immobiliare è stata infatti alimentata non solo e non tanto dai bassi tassi di interesse decisi dalla Federal Reserve, la banca centrale statunitense, ma soprattutto dalle politiche per la casa. Se il lavoro non è un diritto, se il salario non permette di accrescere il benessere familiare, allora il nuovo diritto diventa l’accesso al credito. Le classi sociali, nella narrativa dei liberisti “progressisti”, vengono sostituite da due categorie di agenti economici: quelli con un facile accesso al credito, capaci di programmare quindi la loro vita nel lungo periodo, e quelli vincolati dalla liquidità. Questi ultimi – i poveri, insomma – vanno aiutati non assicurando loro salari decenti, e neppure con la fornitura diretta di servizi sociali da parte dello Stato, ma con politiche che permettano loro di indebitarsi facilmente. Ne abbiamo sentito l’eco anche in Italia quando la sinistra, che aveva liberalizzato il mercato del lavoro con il pacchetto Treu, proponeva facilitazioni creditizie per i co.co.co. e i lavoratori interinali, piuttosto che porsi il problema di mettere un freno alla precarietà.
In questo mondo in cui il capitale è stato liberato dai suoi lacci, procurarsi capitali diviene quindi l’imperativo categorico. Per farlo, si adottano varie strategie. C’è chi aggancia la sua valuta al dollaro, c’è chi emette obbligazioni denominate in valute pregiate, c’è chi indicizza i rendimenti all’inflazione. Tutti quei paesi che, per un motivo o per l’altro, non godono del privilegio di emettere una valuta di riserva internazionale, o perlomeno una moneta “egemone” a livello regionale, cercano di attrarre i capitali limitando la propria sovranità monetaria. L’Europa, attraverso vari esperimenti, giunge a creare la sua valuta di riserva: l’euro. L’euro non è quindi un complotto, né una follia delle classi politiche. Al contrario, è il risultato di un processo che ha carattere globale in cui le economie ritardatarie hanno provato a crescere indebitandosi. La moneta unica è solo una delle tante forme in cui questo processo si è incarnato. Ne è la dimostrazione il fatto che tra i paesi che hanno visto crescere impetuosamente il proprio debito con l’estero troviamo non solo diversi paesi della periferia della zona euro (in particolare Spagna e Irlanda), ma anche molti che non sono nell’euro come l’Islanda, alcuni paesi dell’Europa dell’Est e più recentemente diverse economie emergenti, un tempo considerate modelli e oggi invece divenute sempre più fragili, costrette a innalzare i tassi di interesse per attrarre capitali e finanziare i propri deficit con l’estero.
Se l’euro nasce per motivi “finanziari”, sarebbe un errore concentrarsi esclusivamente sul lato reale dell’economia (ad esempio le differenze di competitività tra centro e periferia dell’eurozona) per spiegarne la crisi. È il lato finanziario della crisi dell’euro ciò che fa la differenza. Sono le caratteristiche peculiari dell’architettura dell’euro a renderlo un unicum e sono queste che lo condanneranno – o lo salveranno. L’euro è prima di tutto una moneta e non un semplice accordo di cambio. L’eurozona ha una sua banca centrale “federale” e i debiti e crediti sono denominati in euro. Non esistendo monete nazionali, non si può paragonare l’eventuale rottura dell’eurozona a precedenti come il Sistema Monetario Europeo. Allo stesso modo, sarebbe errato credere che la crisi dell’euro sia una tradizionale crisi di bilancia dei pagamenti, tant’è che essa esplode non nel 2008, quando le bolle scoppiano in tutto il mondo, ma nel 2010, quando i debiti sovrani dei paesi della periferia divengono improvvisamente non più credibili a seguito della crisi greca. In Europa come in America, lo Stato ha dovuto salvare le banche e, di conseguenza, il debito pubblico è salito alle stelle. Ma in Europa, a differenza degli Stati Uniti, la banca centrale non garantisce il debito pubblico, se non altro perché non esiste un debito pubblico federale e ogni Stato deve badare a se stesso. Questo almeno fino al 2012, fino al giorno in cui Mario Draghi ha dichiarato che «la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro». Da quel momento la crisi è entrata in una fase nuova, in cui l’Europa ha cercato di mettere le pezze al vestito strappato della moneta unica. Gli spread dei paesi periferici dell’area euro – cioè la differenza tra gli interessi pagati sui titoli di Stato rispetto a quelli pagati dal governo tedesco sui propri – si sono ridotti costantemente. E nei primi mesi del 2016, grazie anche all’avvio del programma di quantitative easing, risultavano essere ai minimi storici. Sembrerebbe dunque che la “febbre” dell’euro sia sotto controllo. Ma le cose stanno davvero così?
La situazione attuale dell’eurozona rassomiglia a quella di una cucina affollata e chiassosa. Sul fornello c’è una pentola a pressione che sta cuocendo un succulento brasato: i paesi periferici dell’UE, cioè Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna (i PIIGS). Dentro c’è un po’ di tutto: i lavoratori a cui vengono tolti i diritti attraverso le riforme strutturali, le piccole imprese che chiudono, le imprese più grandi in odore di acquisizione da parte dei capitali del centro dell’Unione Europea. E sono proprio questi capitali i commensali che aspettano di mangiare il brasato cotto a puntino da due chef d’eccezione: Angela Merkel e Mario Draghi. Ma c’è un problema. La pentola a pressione ha la valvola difettosa e per giunta il manometro rotto. Mario e Angela, procedendo a tentoni, devono evitare un doppio rischio: se la pressione è troppo alta la pentola potrebbe esplodere, se è troppo bassa la carne rimarrà cruda. Così ogni tanto aprono la valvola per far sfiatare il vapore, ma non troppo, e soprattutto quasi sempre all’ultimo secondo prima che la pressione faccia saltare il coperchio. In altri casi invece alzano la fiamma sotto la pentola. Come se non bastasse, i commensali mostrano tutta la loro impazienza e mandano di tanto in tanto degli emissari in cucina a protestare, il più chiassoso dei quali è il governatore della Bundesbank Jens Weidmann.
Se nella prima fase della crisi dell’eurozona la Germania ha imposto l’austerità ai paesi periferici, ora il nuovo mantra sono le riforme strutturali, vale a dire liberalizzazioni, privatizzazioni e riforme del mercato del lavoro (a sfavore dei lavoratori, si intende). Tali misure però stanno avendo come effetto la deflazione, cioè la riduzione dei prezzi, effetto della riduzione dei salari e del crollo della domanda nei paesi deboli.
Tolta di mezzo la spesa pubblica e il consumo privato, l’unica fonte di domanda rimangono le esportazioni, ma affidarsi a esse per crescere rischia di essere un’illusione, in un mondo in cui i commerci crescono a ritmi bassissimi, vittime della carenza di domanda globale post-2010. Mentre la Germania non aumenta la propria domanda interna e i paesi della periferia euro sono impegnati nel consolidamento fiscale, il resto del mondo vive la pressione della bassa domanda europea, che porta a tassi di crescita più moderati nei paesi emergenti e quindi a minore domanda globale. L’unica valvola di sfogo rimangono gli Stati Uniti, il tradizionale “consumatore di ultima istanza” del mondo, ma la stessa crescita americana appare fragile e altalenante.
La deflazione (o comunque un aumento dei prezzi ridotto rispetto a quello atteso) ha però un effetto collaterale potenzialmente catastrofico, quello di aumentare gli interessi reali e quindi aggravare la posizione dei debitori. Austerità e tendenza deflattiva rendono così insostenibili i debiti per imprese e famiglie (ma lo stesso discorso può estendersi ai governi) e quindi le sofferenze bancarie aumentano vertiginosamente. Se le banche incominciano a fallire a causa dei debiti non rimborsati dai debitori insolventi, la pentola dell’euro è a rischio. Finora le contromisure sembrano insufficienti: il fondo salva-Stati è troppo piccolo e i farraginosi e discutibili meccanismi dell’unione bancaria e della vigilanza BCE non convincono gran parte degli esperti. In questa situazione Merkel e Draghi si muovono sul filo di un rasoio e il terrore per la deflazione manifestato dalla BCE ne è la dimostrazione. Un errore di valutazione, un intervento in ritardo o un nuovo shock esterno potrebbero quindi scombinare i piani e riportare le lancette dell’orologio al 2011, cioè a un passo dalla deflagrazione dell’euro. In questo caso si tratterebbe di una deflagrazione improvvisa, che potrebbe iniziare con l’uscita di un paese periferico dall’euro, seguito a ruota da tutti gli altri, in modo scoordinato e senza nessun paracadute.
Lo scenario alternativo non è però più rassicurante perché significa che Draghi e Merkel riusciranno a “cuocere” la pietanza: i paesi periferici. La Grecia non è che il caso più eclatante. Ciò a cui si assisterebbe in questo caso sarebbe quindi non solo una crisi alla giapponese, con bassissima crescita dell’eurozona, ma la continuazione della divaricazione tra centro e periferia e l’acquisizione delle grandi imprese dei paesi periferici da parte di quelle degli Stati dominanti, peraltro già iniziata. Una sorta di colonizzazione, insomma, favorita dai processi di privatizzazione e liberalizzazione. Il quantitative easing va visto in questo contesto come il tentativo di offrire una valvola di sfogo alle tensioni interne dell’eurozona, riportando gli spread a livelli innocui per la tenuta dell’euro e “assicurando” la solvibilità degli Stati indebitati in cambio delle riforme che, deprimendo il lavoro, favoriscono il capitale. Ma c’è di più: l’intento esplicito di Draghi è, attraverso il QE, quello di aumentare le dimensioni del mercato finanziario europeo, in particolare per gli strumenti derivati, oggi troppo piccolo in relazione al PIL, se confrontato con quello delle economie anglosassoni. Questo, insieme alle acquisizioni delle imprese dei paesi periferici da parte dei capitali del centro, porterà, nelle intenzioni del duo Merkel-Draghi, alla nascita di un “capitale europeo”: non più quindi diciannove capitali nazionali in conflitto tra loro. È un progetto ambizioso, di grande portata, ed è ciò che si trova a sfidare chiunque voglia immaginare un esito progressista della crisi europea.
Quella di Merkel e Draghi, in questo senso, è stata ed è, davvero, la battaglia contro l’Europa, contro il modello sociale europeo, contro le costituzioni interventiste, contro i residui del compromesso socialdemocratico-keynesiano che sono sopravvissuti alla rivoluzione liberista nei decenni scorsi. Non sorprende quindi che la reazione della parte più debole delle popolazioni europee, colpita dalle politiche seguite nell’Unione, sia stata in alcuni casi (Italia, Francia) uguale e contraria – anch’essa quindi contro l’Europa – attraverso il consenso a partiti antieuropei che si pongono, tra l’altro, l’obiettivo di uscita dei rispettivi paesi dall’eurozona o addirittura dall’Unione Europea. Ma nell’ultimo anno si è affacciata anche un’alternativa progressista a questa Europa. L’emergere di forze politiche come SYRIZA in Grecia, Podemos in Spagna, il Blocco di Sinistra in Portogallo e lo Sinn Féin in Irlanda sembra dire che esistono gli spazi per un conflitto in Europa e non contro di essa. Queste forze, pur diversissime tra loro per genesi, sono accomunate da prospettive vicine. Prima di tutto si tratta di forze della sinistra radicale (tutte aderiscono nel Parlamento Europeo al gruppo della Sinistra Unitaria) al di là dei distinguo propagandistici (come nel caso di Podemos). In secondo luogo, si tratta di forze che ritengono l’Unione Europea – compresa la moneta unica – un terreno di conflitto e non un progetto da abbattere. Infine, e non appaia una contraddizione, si tratta di forze che credono nella funzione dello Stato nazionale. Esse hanno compreso cioè che conquistare il governo degli Stati nazionali è l’unica arma efficace per mutare i rapporti di forza in Europa, nel momento in cui il Parlamento Europeo – già di per sé privo di poteri decisivi – è succube di una grande coalizione tra le forze liberiste, quelle conservatrici e quelle (almeno nominalmente) progressiste. Se ci si passa l’ardito paragone, queste forze ambiscono a fare svolgere agli Stati membri dell’Unione Europea il ruolo che gli Stati federati ricoprirono nel processo che portò all’inserimento, nella costituzione degli Stati Uniti, del Bill of Rights – i primi dieci emendamenti che stabiliscono i diritti individuali e limitano il potere del governo federale.
Sia chiaro, nulla è semplice o scontato. Quello che le forze progressiste possono ottenere nelle attuali circostanze è l’apertura di un percorso, non un rapido ribaltamento delle politiche europee, impossibile da immaginare dati i rapporti di forza, le sconfitte storiche accumulate dalla sinistra, la resilienza dell’ideologia e della pratica neoliberiste. La vicenda greca appare emblematica. Se da un lato il governo Tsipras ha dovuto, volente o nolente, piegarsi ai diktat della troika, dall’altro la sua battaglia ha aperto la discussione su un tema tabù, vale a dire la ristrutturazione del debito pubblico che, secondo il governo tedesco, trasformerebbe l’UE in una transfer union. Eppure la piccola, debole e ricattabile Grecia ha trovato alleati importanti su questo punto, dagli Stati Uniti alla Francia al Fondo Monetario Internazionale, mettendo chiaramente in evidenza l’insostenibilità del debito pubblico ellenico e l’impossibilità di continuare
nella politica “extend and pretend”, estendere i prestiti facendo finta che i debiti siano sostenibili. È poco? È tanto? Secondo noi è quello che realisticamente poteva ottenere un paese che rappresenta una minuscola frazione del PIL dell’UE e che è stato isolato finanziariamente dal resto del mondo, rendendo il suo potere di ricatto («se mi cacciate dall’euro crolla tutto») solo potenziale. C’è da chiedersi quanto potrebbe cambiare la situazione se arrivassero al governo di paesi importanti – non l’Italia, sia chiaro, perché da noi la sinistra radicale è profondamente inadeguata alla sfida – forze che abbiano anche solo una frazione della determinazione dimostrata da Tsipras. In questo percorso, insomma, si potranno avere ritirate, sconfitte e persino temporanee capitolazioni, in un cammino tutt’altro che lineare.
La moneta unica in quanto tale non è il terreno di scontro sul quale tali forze dovrebbero giocare la partita, altrimenti sarebbero sconfitte in partenza. Sia per motivi economici, come spiegheremo, sia per motivi prettamente politici, come si è visto nelle elezioni greche del settembre 2015, nelle quali la sinistra “no-euro” non è riuscita neppure a entrare in parlamento. L’atteggiamento delle forze progressiste non può quindi essere quello di distruggere l’euro, né quello di accettare passivamente che sia utilizzato per “cuocere” i paesi periferici e le classi subalterne. Chi propende per la prima soluzione commette l’errore di credere che l’uscita unilaterale di un paese dall’euro non avrebbe conseguenze sistemiche sul resto dell’area e sull’economia globale. Costoro, con i loro superficiali ragionamenti ceteris paribus e con le loro ipersemplificazioni, alimentano un’illusione pericolosa, che nasce dall’errore di paragonare l’euro a un semplice accordo di cambio fisso e dal non tenere in conto che l’esistenza dell’euro ha già modificato profondamente le economie, rendendole interconnesse, soprattutto dal punto di vista finanziario, come mai nel recente passato. Dall’altra parte coloro che invece pretendono di continuare con il business as usual, come se nulla fosse, mettono a rischio non tanto l’euro ma il progetto stesso di integrazione europea, esponendolo al rischio di una deriva politica verso la destra estrema di fasce di popolazione sempre più impoverite.
Chi si ritiene europeista dovrebbe porsi in alternativa a entrambi questi esiti. Tutto dipenderà, come sempre, dai rapporti di forza e dalle scelte che faranno gli elettori. Nessun esito è scontato. Al contrario, la battaglia per l’Europa è più che mai aperta.