Roma – La riforma costituzionale ha ottenuto il definitivo sì parlamentare dall’Aula di Montecitorio. Sono stati 361 i voti a favore, 7 i contrari e 2 gli astenuti. Con una accelerazione rispetto ai tempi previsti – il lutto in casa M5s per la scomparsa del guru pentastellato, Gianroberto Casaleggio, ha fatto cadere l’ostruzionismo dei parlamentari di Beppe Grillo – i deputati hanno approvato il testo che, modifica la composizione e le funzioni del Senato, mandando la palla nel campo dei cittadini italiani. Ora spetterà agli elettori pronunciare l’ultima parola nel referendum confermativo. La chiamata alle urne è prevista per ottobre, quando gli italiani decideranno se accogliere le modifiche alla Costituzione, o se rigettarle sfiduciando di fatto il presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
Lo stesso premier aveva già annunciato da tempo la volontà di legare le sorti della propria carriera politica all’iter della riforma. Anche ieri, prima alla Buvette di Montecitorio e poi intervenendo in un’Aula priva di opposizioni, uscite in segno di protesta quando Renzi ha preso la parola, l’inquilino di Palazzo Chigi ha confermato: “Mi gioco tutto” sul referendum. “Se non vi fosse consenso popolare, tanto da fare cadere il castello delle riforme su quella principale”, ha dichiarato, “è principio di serietà politica trarre le conseguenze” e dunque dimettersi.
Il testo presentato dal ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, ha avuto il sostegno della maggioranza a cui si è unito il gruppo dei deputati che fa capo al senatore ex forzista Denis Verdini, che già aveva votato a favore nell’ultimo passaggio a Palazzo Madama.
Come per il discorso del premier, anche per il voto finale le opposizioni hanno scelto di disertare l’Emiciclo. L’altro gruppo di ex di Forza Italia, i Conservatori e riformisti che si riconoscono nell’eurodeputato Raffaele Fitto, hanno motivato la loro contrarietà accusando il governo di aver commesso “un grave errore di impostazione” sulla riforma, e il premier di “arroganza” e contemporaneamente “debolezza” per la scelta di puntare tutto su un referendum “ridotto a un rodeo”. Gli fa eco il leghista Cristian Invernizzi, convinto di una bocciatura della riforma da parte degli italiani, al punto che invita Renzi a prenotare “tranquillamente per questo inverno la settimana bianca a Courmayer, ma non faccia affidamento sul volo di Stato” per andarci.
Per Sinistra Italiana, il capogruppo Arturo Scotto è stato lapidario: “Il governo e il Partito Democratico hanno voluto riformare la Costituzione da soli e da soli voteranno questo testo”. Mentre dal Movimento cinque stelle, Danilo Toninelli ha denunciato “i membri di questo esecutivo che hanno il fucile puntato contro la Costituzione”, sottolineando il paradosso di una maggioranza eletta con una legge dichiarata incostituzionale e che adesso cambia la Carta fondamentale.
La stessa obiezione alla maggioranza e all’esecutivo l’ha rivolta Forza Italia. Secondo il capogruppo Renato Brunetta, “Renzi ha usato il voto di parlamentari che, a norma di sentenza della Corte costituzionale, non dovrebbero sedere in quest’Aula, lei compresa ministra Boschi”, in quanto eletta in virtù del premio di maggioranza dichiarato illegittimo. “È come costruire il palazzo della democrazia truccando i calcoli del cemento armato”, ha chiosato il presidente dei deputati azzurri.
Il nuovo assetto istituzionale, se gli italiani voteranno sì al referendum per confermare la riforma, prevede la fine del bicameralismo perfetto. La Camera dei deputati manterrà le prerogative attuali e sarà l’unica Assemblea con pieno potere legislativo e la sola a votare la fiducia al governo. Le funzioni del Senato saranno invece ridotte. Avrà competenza legislativa pari a quella della Camera solo in tema di riforme costituzionali e leggi costituzionali. Riguardo alle leggi ordinarie, potrà chiedere alla Camera di introdurre delle modifiche, ma i deputati non avranno l’obbligo di accoglierle. Solo su alcune materie, quelle relative al rapporto tra Stato e Regioni, servirà la maggioranza assoluta dell’Aula di Montecitorio per ignorare le richieste del Senato.
La nuova assemblea di Palazzo Madama avrà inoltre una nuova composizione. Dagli attuali 315 senatori si scenderà a 95. Di questi, 21 saranno sindaci (uno per ogni regione o provincia autonoma) e 74 saranno consiglieri regionali. Altri 5 senatori, per arrivare a un totale di 100, saranno nominati dal presidente della Repubblica e rimarranno in carica 7 anni. Scomparirà quindi la figura del senatore a vita.
Il problema della legittimazione popolare del Senato è stato risolto prevedendo che i cittadini, al momento delle elezioni regionali, esprimano la preferenza per i consiglieri indicando anche chi preferiscono come senatore. L’elezione spetterà comunque ai Consigli regionali, i quali sceglieranno un sindaco nella stessa Regione e individueranno al loro interno i restanti senatori (il numero varia a seconda del peso demografico di ciascuna Regione) secondo il principio di proporzionalità tra le forze politiche rappresentate in Consiglio.
I nuovi senatori non riceveranno compensi aggiuntivi rispetto a quelli percepiti in veste di sindaco o consigliere regionale, ma godranno delle stesse immunità previste per i deputati. Dunque, niente arresti preventivi né intercettazioni a loro carico senza una preventiva autorizzazione da parte del Senato.
Con l’intento dichiarato di voler snellire l’azione di governo, è stata introdotta una norma che impone la modifica dei regolamenti parlamentari, introducendo l’obbligo di indicare una data certa per il voto sui disegni di legge proposti dall’esecutivo.
Cambieranno le modalità per l’elezione del presidente della Repubblica. A esprimersi saranno solo Camera e Senato, non più affiancati dai delegati regionali. Per i primi 3 scrutini non si cambia, servirà la maggioranza dei 2/3 dei componenti. Dal quarto al sesto scrutinio si scende ai 3/5 degli aventi diritto, mentre dal settimo in poi basteranno i 3/5 dei votanti (attualmente è prevista la maggioranza assoluta dalla quarta votazione in poi).
Riguardo alla partecipazione popolare, il numero di firme per richiedere un referendum abrogativo sale dalle attuali 500mila a 800mila. Si abbassa però il quorum per considerare valida la consultazione: basterà che si rechi alle urne la metà degli elettori che ha votato alle precedenti elezioni politiche, mentre adesso è necessario raggiungere la metà più uno degli aventi diritto al voto. Anche presentare leggi di iniziativa popolare sarà più difficile: serviranno 150mila firme contro le attuali 50mila. Tuttavia, i regolamenti parlamentari dovranno indicare tempi certi anche per per l’esame di queste proposte, garantendo dunque che verranno almeno discusse senza cadere nel dimenticatoio, come avviene oggi.
Anche la forma di federalismo viene ritoccata. Con la modifica del Titolo V, infatti, non ci saranno più materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni. Saranno accentrate le decisioni in materia di energia, infrastrutture strategiche e sistema di protezione civile. Inoltre, su proposta del governo, la Camera potrà legiferare su materie di competenza regionale “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.
Le province vengono cancellate dalla Costituzione. Si tratta di un passaggio fondamentale per una successiva abolizione di questi enti territoriali, che non avranno più lo status di organismo costituzionale. Status che non apparterrà più neppure al Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), il quale verrà quindi abrogato.